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 352 - Un libro da discutere / 1

 

UN ESSERE CHE DOVEVA NON ESSERE

 

Stendo alcune note di lettura di questo libro, il cui tema è della massima importanza per chi vuole interrogarsi e pensare sul senso delle cose. Per chi vuole. Infatti, la prima tradizionale reazione della filosofia e della religione è la rimozione del male, nei vari modi che Ciancio esamina nel 1° capitolo, e, per gli ultimi due secoli (esaminati nel 2° capitolo), ne è sia rimozione che riconoscimento, e questo, a sua volta, in vari modi e forme.

 

Contraddizione infinita

Il male (cap. 3), che sia rimosso o razionalizzato, è spiegato come errore, come sofferenza, come sventura, quindi appartenente inevitabilmente alla finitezza; oppure può essere visto come «contraddizione infinita», come «ciò che è ma non doveva essere». Questa interpretazione fa risalire il male a una libera responsabilità, quindi a una colpa. Anche la sofferenza e persino l’errore, se sono realtà davvero inaccettabili e inspiegabili, devono provenire in qualche modo dalla rottura inaccettabile di un ordine spiegabile, perciò da una colpa. Il male è scandaloso non perché sarebbe un’insufficienza, ma solo in quanto «ribellione e volontà di distruzione dell’essere e della verità» (pp. 39-40). E se fosse invece, il male, segno di un “disordine” iniziale: il caos da cui esce faticosamente il cosmo, o un ordine non equo?

Se è colpa, è colpa dell’uomo o addirittura di Dio? Ciancio non rifiuta la domanda. Sappiamo che Bobbio, nelle riflessioni morali degli ultimi anni, si interrogava non sul male commesso da Caino ma su quello patito da Giobbe, innocente, e chiedeva: «Chi ha fatto un mondo così atroce?» (Norberto Bobbio, Gli dèi che hanno fallito, in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Pratiche editrice 1998, p. 193). Ciancio dice che, se il male è colpa, è qualcosa di infinito: non è un non-essere, ma «un essere che doveva non essere». Così, «il male produce altro male» come sofferenza e come seduzione; è qualcosa di «più che umano»; non solo trasgredisce la legge ma la distrugge; è qualcosa di universale, in cui siamo coinvolti, sicché siamo tutti colpevoli, e tutti colpevoli di tutto (Dostoevskij, in I Fratelli Karamazov). Nel cristianesimo la colpa è «personale e sovrapersonale» (pp. 42-47).

Solidali nella colpa siamo tutti solidali nella sofferenza (cap. 4°). La sofferenza è riflesso della colpa. Bisogna pensare, qui, che l’Autore intenda la colpa collettiva dell’umanità, e non la colpa personale, alla quale non si può imputare ogni sofferenza, anche se la colpa personale non può dare felicità ed anzi «diffonde sofferenza su tutta l’umanità», anche sugli innocenti (pp. 51-52).

Ciancio cita Sergio Quinzio (un autore che spesso lo ispira) sul «primato della sofferenza»: nasciamo condannati a morte, in un mondo regolato dalla violenza, nel quale la virtù generosa è un eroismo paradossale, che non ha senso richiedere all’uomo. Io non riesco a comprendere del tutto questo pensiero quinziano, che mi sembra solo apparentemente profondo, e a sua volta non generoso verso la realtà intera, non incoraggiante l’impegno, anche considerando tutto l’immenso dolore del mondo: la vita è più del dolore.

Ciancio sottolinea con ragione che l’esperienza cristiana del male capisce che la sofferenza tocca anche Dio: «Le domande e accuse a Dio riguardo alla sofferenza dei più deboli e innocenti non hanno altra risposta (che non è una spiegazione) se non quella della sofferenza divina» e cita il suo maestro Pareyson: «La tragedia dell’uomo diventa tragedia divina» (Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, p. 220). Le varie teodicee non hanno mai pensato che «la sofferenza di Dio è l’unico argomento capace di difendere Dio», ma questo è un nuovo inspiegabile paradosso e una suprema ingiustizia (pp. 53-54).

 

Il secolo della sofferenza

Il Novecento è il secolo della sofferenza, per le sue immani tragedie, per la caduta delle tradizionali spiegazioni, per le promesse e le delusioni della tecnica sviluppatissima, che rendono sempre meno accettabile la sofferenza. Così siamo incapaci di reggerla o tendiamo a rimuoverla, con «effetti devastanti», anche perché i legami sociali e familiari indeboliti ci lasciano più soli e muti, davanti a quella «impasse della vita e dell’essere» (Emmanuel Levinas, La souffrance inutile, in «Giornale di metafisica», IV, 1982, pp. 13-15), a cui si aggiunge il silenzio di Dio, cosicché il rischio è «la dissoluzione del senso, il precipitare nell’assurdo» (pp. 55-58).

Impasse della vita, o annuncio di altro? Anche il dolore che viene dalla natura suscita interrogazione sul perché e da chi (abbiamo sentito la domanda di Bobbio): qualche “altro” deve aver posto mano in questa interruzione, e noi non lo conosciamo se non attraverso il varco penoso della sofferenza, fuori dalle sicurezze abituali. Siamo in vera relazione con gli altri non nella fusione, né nel dominio (quando l’io si espande senza riconoscere l’altro), ma nella sofferenza condivisa. Il dolore dell’amore è amore, possiamo aggiungere, mentre ricordiamo un detto di Ceronetti: «I corpi li unisce il piacere, le anime la pena».

Non basta, per trasformare la sofferenza, vederla come un passaggio necessario: «Durch Leiden Freude», diceva Beethoven, e il Corano 94,5-6: «Con l’avversità viene la gioia». Basta la com-passione? Ciancio ricorda la famosa critica di Schopenhauer, che ne vede l’ambiguità: in essa si perderebbero identità e alterità, fino al compiacimento masochista e sadico, che ha anche non rare forme religiose. Ma se il patire insieme è relazione con un’alterità, anzi, se si sta biblicamente «di fronte» al sofferente (Isaia 53,3), allora si mantiene la insopportabilità della sofferenza e la personalità del sofferente con quella di chi patisce con lui (pp. 60-63).

Guai a chi identifica la sofferenza delle vittime con la giustizia divina: questo è «sadismo teologico che vuole intendere Dio come colui che tormenta» (Dorothee Sölle, Sofferenza, Queriniana 1976, p. 51). Sono i riprovevoli amici di Giobbe che vogliono per forza dare un senso al suo dolore. Anche alleviata, la sofferenza resta scandalo. Né troppe parole facili e insensate, né un silenzio che l’abbandona all’assurdo sono l’atteggiamento giusto, ma quello che dà almeno una possibile speranza. E la sofferenza inutile dei bambini, dei dementi, e anche degli animali? Per Pareyson mantiene un senso solo se portata in Dio, assunta nella croce di Cristo (così diceva anche don Gnocchi, il prete dei mutilatini). La salvezza cristiana dà senso alla sofferenza senza cancellarne la inaccettabilità. Ma non è il male fatto a Cristo che produce bene: quel male non è giustificato, né necessario. Il bene è libertà che scarta il male possibile, senza bisogno di affrontare e negare un male reale. Così nell’uomo come in Dio. Ma l’uomo ha peccato e il bene della redenzione affronta questo male reale, che è l’occasione, ma non necessaria, del male fatto a Cristo (pp. 65-69).

 

Paradosso della redenzione

La sofferenza liberamente assunta arresta il processo di diffusione del male, perché ne assorbe le conseguenze e le risparmia agli altri: è l’espiazione per amore, tutt’altra cosa dal masochismo. Non può essere l’uomo ad espiare e redimere perché la sua sofferenza non può mai essere pura, ma solo Dio. Il paradosso cristiano è che Dio non solo soffre, ma si rende colpevole del male (Paolo, 2Corinti 5,21). Perciò Cristo «tollit peccata mundi» nel senso che «prende su di sé» i peccati del mondo, facendosene responsabile, non li cancella con un colpo di spugna. Che Cristo debba soffrire dimostra l’enormità del male «che intacca la creazione». Ma che in questo ci sia anche l’ira divina io non posso crederlo: se Dio si assume il male, la sua giusta ira si è ormai mutata in amore per l’umanità e pena condivisa con essa. Assunta da Dio, la sofferenza viene «trasposta» da noi a lui, e ogni sofferenza comincia ad avere un senso di redenzione. Cessa lo scandalo, ma la sofferenza di Dio, che lo fa cessare, è scandalo, e più gravi si rivelano gli effetti scandalosi del male, se colpiscono Dio (pp. 73-78).

Sembra di poter capire dall’Autore: il sacrificio per i nostri peccati sacrifica Dio. La redenzione cristiana non toglie tutto il male ma addirittura lo accresce, perché il male arriva a colpire Dio. Però, direi, né noi offriamo Cristo in sacrificio, né il Padre sacrifica il Figlio, ma Dio nel Figlio si offre a noi, assumendo per noi la colpa e le pene: il male è assunto e sofferto in Cristo, in sostituzione per noi, ma così è davvero un male tramutato in bene, per atto forte di amore, quindi resta una sofferenza fisica e morale inflitta a Cristo, ma non c’è più il male ontologico, ora perdonato.

La sua entrata nella vita risorta, sopra la morte e il male, è davvero l’inizio di quella «reintegrazione dell’essere» che a Ciancio non sembra garantita dalla redenzione della Croce. Sembra a lui addirittura che, se la redenzione trasforma profondamente la nostra vita, cioè «l’identità e la storia personale di ciascuno», essa così «distrugge» la stessa libertà e identità, sostituendole ma non risanandole. E il male sarebbe incancellabile e non redimibile. La redenzione riparerebbe in parte gli effetti del peccato, ma non muterebbe «il cuore dei peccatori». Diremo dunque con Lutero: Simul iustus et peccator? Nel giudizio finale – prosegue l’Autore – «non tutto si salva e forse non tutti si salvano». È possibile una resistenza «anche al Dio redentore»: è l’idea dell’inferno (pp. 79-81).

Certo, resistere all’amore che salva è possibile, restare nel male è possibile, finire nella morte che rimane morte, cioè nel nulla, per rifiuto della vita eterna, è possibile (e questa mi pare l’unica possibile maniera cristiana di pensare l’inferno, non assolutamente la pena eterna ribadita da papa Ratzinger): c’è infatti questa potenza della libertà. Non sarebbe perdono quello dato senza libertà che lo accolga.

Per Ciancio la salvezza è un paradosso, sintesi senza mediazione di due contrari: l’enormità del male, la radicalità della redenzione.

 

Il tragico cristiano

La forma autentica di cristianesimo, per l’Autore, è il «cristianesimo tragico» (cap. 5°), in cui «il male e Dio si implicano reciprocamente». Il male è tragedia inconciliabile. Non si tratta della tragedia antica (contrasto tra la volontà dell’uomo e degli dei), né della tragedia moderna (conflitti tra individui, società, potere, e conflitti interiori). La tragedia suppone un’unità originaria, o come dover essere, o come essere reale. La tragedia classica o moderna tende alla conciliazione (fato, catarsi, razionalità del reale). Nel nichilismo contemporaneo, perduta ogni unità originaria, semplicemente «la tragedia si dissolve» (pp. 83-94).

Come hanno capito solo pochi pensatori cristiani, il cristianesimo comprende più radicalmente il tragico inconciliabile: la condizione dell’uomo in Pascal, il rischio assoluto della fede in Kierkegaard, la contraddizione in Dostoevskij tra la redenzione e la sofferenza assunta dal giusto, neppure sempre efficace. Così, «questo è precisamente il tragico: che l’opera della redenzione esiga un aggravio spaventoso del male dell’universo (…) la colpa del più santo e la sofferenza del più innocente». La fede tiene insieme la contraddizione, ma non la supera. È questo il pensiero tragico di Pareyson (pp. 95-101).

Eppure, si può pensare – mi sembra – che la redenzione salva perché il male, nel tentativo di trionfare sul giusto, nella sua pretesa massima di distruggere il bene vivente, di ucciderlo sulla croce – pretesa alla cui sfida il bene si sottopone col coraggio della fede piena – viene esso vinto, assorbito, ingannato, trasformato, certamente solo in via incoativa e potenziale, sicché la croce da segno di morte diventa segno di vita.

Il pensiero tragico – continua Ciancio – non è pessimismo né ottimismo, due soluzioni unidirezionali, ma pensa la lacerazione e il paradosso, custodisce l’esperienza del male, sa sopportare la contraddizione, a differenza del nichilismo che banalizza il male, o della religiosità consolatoria e tranquillizzante. Il senso tragico mantiene l’esigenza di lotta implacabile contro il male, che altrimenti è accettato o tollerato. I segni di ferocia, di distruzione e autodistruzione del nostro tempo, che percorrono l’Occidente e sono esportati nel mondo, dimostrano che le strategie di riduzione del male non fanno che prepararne il dilagare. «Questa tragedia dell’inconsapevolezza della tragedia e dell’incapacità di riconoscerla e sostenerla, questa tragedia alla seconda potenza, è la conferma della dialettica del tragico, anche se ormai non più nella sua forma cristiana» (pp. 102-103).

(continua)

  Enrico Peyretti

 

Claudio Ciancio, Del male e di Dio, Morcelliana 2006, pp. 136, € 12.

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