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DALLA PROSPETTIVA DEI SOFFERENTI

 

Il recente libro di Gabriella Caramore affronta una serie di tematiche che le sono familiari: bene e male, ateismo e fede, vita e morte, verità, libertà, ecc. Lo stile è leggibile e scorrevole – “radiofonico”, si potrebbe dire. Lo scritto, infatti, costellato di citazioni di poeti, teologi e filosofi, scaturisce dalla familiarità dell’autrice con il confronto dialogico con “uomini e profeti”.

Il titolo del libro – La fatica della luce – allude alla condizione umana, alla impossibilità di una visione chiara e distinta delle cose, eppure alla «necessità di pronunciarsi». Pur nella consapevolezza della propria finitezza, ciascuno è eticamente vincolato alla responsabilità della parola: «occorre provare a dire tutta la verità di cui si è capaci». Fin dall’introduzione, citando Bonhoeffer, Caramore dichiara la prospettiva in cui si colloca nel guardare al mondo e alla storia; si tratta infatti di imparare a «guardare i grandi eventi storici dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi, e dei derisi, in una parola dei sofferenti» (p.11).

Il sottotitolo – Confini del religioso – indica invece il luogo eletto dall’autrice per la propria indagine e il primo capitolo è dedicato a una sorta di fenomenologia del confine in tutte le sue declinazioni: soglia, frontiera, barriera, margine, ecc. La zona di confine consente una visuale più ampia sulle zone confinanti e la lontananza dal centro consente di per sé una maggiore libertà. Il confine è luogo di incontro, scontro, dialogo, resistenza, apertura, conoscenza, scambio. Tra i confini indagati vi sono anche quelli interiori, perché «più che le frontiere tra gli stati, sono quelle dentro di noi le più invincibili, le più aspre da superare, le più inflessibili da aprire» (p. 20). Ma è giungendo esattamente ai limiti del sé che si può fare un passo ulteriore: «il confine è l’unico “luogo veramente fecondo per la conoscenza” (Tillich), perché è dove si fa attrito che si impara, dove ci si scontra con il proprio limite che ci si supera, quando si è con le spalle al muro che ci si apre alla speranza» (p. 31).

Chi sta sul confine conosce altro. Chi questo altro, oltre a conoscerlo, lo riconosce pone le basi di un’etica “relazionale” e “relativa”. Ben consapevole che sul secondo degli aggettivi cali implacabile il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche (il giudizio, inevitabilmente, “cala”, perché chi si sente in diritto di giudicare si colloca sopra), l’autrice osserva che «chi ha timore del relativo vive nel ribrezzo della relazione. Teme di non essere abbastanza forte da sopravvivere all’incontro e al confronto con l’altro» (p. 35). Anzi, è proprio l’idea di un Dio che dovrebbe escludere la possibilità, in mezzo agli esseri umani, di un’etica degli “assoluti”. In tal senso si delinea un’etica “mite”, improntata alla sensibilità delle beatitudini. Anche «il nostro linguaggio si deve impastare dentro la materia dell’amore. Il linguaggio deve essere mite» (p. 130). Il libro presenta un’ampia riflessione sul linguaggio e sulle condizioni che lo mettono in grado di comunicare e farsi ascoltare. «Vi è una pedagogia del linguaggio che passa necessariamente attraverso la dolcezza. Nulla di buono può venire da un eloquio malevolo e astioso (…) la lingua dell’insegnamento deve saper essere seduttiva, come un amante» (pp. 123s.). Un linguaggio mite, tuttavia, non avrà timore di dire la verità, non esiterà a denunciare l’ingiustizia. Un linguaggio mite che sappia indignarsi di fronte all’ingiustizia si troverà nella condizione aporetica del rischio di perdere la propria mitezza. Parafrasando il «Ma noi, noi non abbiam potuto esser gentili» di Brecht, Caramore afferma che «negli intrighi dei potenti che abusano degli inermi – talvolta non si può “esser gentili” (…) Ci sono momenti della vita in cui occorre prendere coraggio. Ed essere spietati anche con gli altri. Per decidere da che parte si sta» (pp. 125ss.).

Avendo scelto una prospettiva dal basso improntata allo spirito delle beatitudini, basta un minimo di senso storico perché sorga la questione: «sì, ma quando i miti erediteranno la terra? Quando gli afflitti saranno consolati? Quando i puri di cuore vedranno Dio? Non è puramente consolatorio dire che la luce, anche se radente, vince le tenebre? Che l’amore è più forte della morte? Che dopo la croce c’è stata la resurrezione? Se i miti continuano a non possedere nessuna terra, gli afflitti a piangere, e i puri di cuore a non vedere Dio?» (pp. 69s.). La domanda circa la redenzione si fa ancor più scottante se posta dal confine col religioso, poiché l’urgenza di rispondere alla povertà dei poveri (che sono poveri qui e ora) non sembra propriamente la principale preoccupazione di quella chiesa che si definisce l’unica legittima custode di quella parola e dunque di quella cura. «Una chiesa che ha smesso di porsi questa domanda non è una chiesa che ha perduto il contatto con le proprie radici? Una chiesa “atea”, nel senso che ha altri dèi, ma non “quel” Dio della promessa? Una chiesa che ha altri interessi, diversi dalla sollecitudine che richiede chi ha cura dei sofferenti, dei morenti, di chi chiede soccorso? Certo, non è più la comunità che attendeva di essere salvata. È una chiesa che già, da sola, pensa a salvare se stessa, e dunque non ha più bisogno di Dio, in un certo senso» (p. 65).

 

Claudio Belloni

 

Gabriella Caramore, La fatica della luce. Confini del religioso, Morcelliana 2008, pp. 243, € 16.

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