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 3 [dicembre] - I RACCONTI DELL’INFANZIA 3/5

 

IL  RACCONTO  DI  MATTEO

 

In Matteo succede sostanzialmente la stessa cosa che in Luca; anticipiamo qui per maggior chiarezza, prima delle motivazioni, la nostra tesi: abbiamo un Mt intermedio (senza i racconti dell’infanzia; attenzione, è una strutturazione diversa da quella lucana, perché nel Luca intermedio abbiamo ipotizzato già l’esistenza del racconto dell’infanzia), un Mt semi-finale (con l’infanzia, compresi all’incirca 1,21.24.25bc) e un Mt finale con la concezione verginale di 1,18-20 (e 25a).

L’aggancio a Is 7,14 (vv.22-23) può stare sia nell’una che nell’altra versione, perché i termini “almah/parqhenoV possono essere intesi semplicemente come “giovane donna” (ragazza).

Il Vangelo di Matteo ha tratti “siriani”, nel senso che alcuni passaggi denotano una loro composizione probabilmente avvenuta in Siria (Theissen 2 p.278s). In esso la fama di Gesù raggiunge la Siria (4,24); chi scrive sembra guardare la Palestina da (Nord)Est: per lui la Giudea si trova “al di là del Giordano” (19,1). Chi si esprime così non è certamente Levi-Matteo: è come se un italiano scrivesse che l’Italia si trova al di là delle Alpi (e non al di qua). Questo vangelo, una volta ultimato (ma forse anche prima), doveva essere d’uso comune ad Antiochia (in Siria appunto) intorno al 110: l’episcopo di questa città, Ignazio, ne riporta infatti delle citazioni.

 

Cominciamo da Mt 16,13-16.20, la sezione di Cesarea di Filippo, in cui si riprende la tradizione marciana precedente con la stessa perplessità circa l’attribuzione del titolo di “Messia” a Gesù (non c’interessa qui l’inserimento di 16,17-19, «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa…»; segnaliamo solo che poco più avanti, nella stessa pericope, nella medesima sezione di Cesarea, quindi con lo stesso peso, si trova il «Vade retro Satana» nei confronti sempre di Pietro. Come ci ha insegnato Jacques Dupont, vanno soppesati allo stesso modo; se si carica troppo il “Tu sei Pietro”, bisogna fare lo stesso con “Satana”, il che non va perché Pietro non è Satana tout court, anche se può  esserlo nel senso di opporsi alla logica di Dio. Quindi se bisogna star leggeri col “vade retro”, bisogna fare altrettanto col “Tu sei Pietro”: perciò Pietro, ed i papi in quanto suoi successori, come può essere “roccia” così può purtroppo essere di scandalo, di inciampo alla logica di Dio seguendo quella mondana degli uomini). 

Ritorniamo sul contrasto fra le cristologie del ministero e dell’infanzia (delineato sia da Brown che da Meier, e valido sia per Luca sia per Matteo, soprattutto per quanto concerne il messianismo regale); il fatto che la persona (certo risorta) fosse un “criminale” crocefisso (un “maledetto” appeso al legno) entra in conflitto col titolo regale-messianico (ossia con un Messia davidico e betlemita senza problemi e riserve). Un re-Messia che soccombe, aggravato anche dalla motivazione ufficiale della condanna (INRI) per essersi proclamato proprio re dei giudei, rende tale titolo per lo meno strano e anomalo. Come si fa a considerare la (meta-storica) resurrezione del crocefisso Gesù come la gloriosa intronizzazione del Messia regale davidico (pensata come fatto intra-storico nella scia di 2 Sam 7,12-14)? Non è impossibile in assoluto legare le due cose suddette, ma ciò richiede tempo, poiché bisogna essere cronologicamente lontani dalla Passione, e aver digerito completamente lo “smacco” dell’ingloriosa e drammatica crocifissione; per cui chi scrive 16,20 (e altri brani della cristologia del ministero pubblico) non è colui che scrive la genealogia davidica di 1,1-17, e non è colui che scrive almeno 2,1-12 (il racconto dei Magi, col Messia betlemita solennemente affermato secondo il detto di Michea 5,1, anche se citato, come vedremo, in modo molto approssimativo). Tale autore perciò, nella nostra ipotesi, non conosce proprio i racconti dell’infanzia, perché siamo nel Mt intermedio che ne risulta ancora privo.

 

Per quanto concerne l’eventuale rapporto fra il Messia e la resurrezione, trascriviamo quanto riportato nel sito del Corriere della sera (traduzione dall’articolo del New York Times), segnalato da Maria Cristina Bartolomei:

 

E' uno dei reperti storici più controversi dell'antichità e la sua dubbia interpretazione da circa un decennio causa interminabili dibattiti tra insigni studiosi internazionali. Si tratta di una tavola di pietra, scoperta circa dieci anni fa vicino al Mar Morto e lunga circa 90 cm. Su di essa sono iscritti 87 versi in ebraico che narrano la storia di un Messia che sarebbe risorto tre giorni dopo la sua morte. Niente di nuovo se si pensa alla storia di Cristo narrata nei Vangeli, ma vi è un particolare davvero singolare: il reperto storico risalirebbe ad un’epoca antecedente alla nascita di Gesù… 

STORIA - Scoperta da un antiquario giordano e in seguito comprata dal collezionista svizzero di origine ebraiche David Jeselshon, secondo alcuni studiosi questa tavola di pietra metterebbe seriamente in discussione l’originalità del Cristianesimo e della resurrezione di Cristo. Gran parte del testo riporterebbe passi dell’antico Testamento, specialmente i libri dei profeti Daniele e Zaccaria in cui l’angelo Gabriele presenta una visione apocalittica della storia di Israele. Secondo gli archeologi tra le iscrizioni presenti sulla tavola vi sarebbe anche un passo in cui è raccontata la storia di un Messia risorto dopo tre giorni. Ciò confermerebbe che una vicenda simile a quella della Resurrezione di Cristo era presente nella cultura ebraica prima che Gesù nascesse ed era ben conosciuta dai cittadini che vivevano nell’antico Israele. Successivamente sarebbe stata ripresa dai seguaci di Gesù e riadattata per diffondere la nuova fede. Altri studiosi sembrano più cauti: essi sottolineano che sulla pietra molte parole appaiono illeggibili, in alcuni punti sono addirittura scomparse, quindi è impossibile per adesso stabilire la verità.

IL MESSIA - Una ricerca pubblicata l’anno scorso da Ada Yardeni e di Binyamin Elitzur, entrambi studiosi di iscrizioni antiche, sulla rivista specialistica «Cathedra» gettò una nuova luce sul mistero della tavola di pietra: l'articolo, intitolato «La rivelazione di Gabriele» confermava che la pietra risalisse al I secolo A.C. e i due studiosi mettevano in dubbio che il tema del Messia risorto fosse un evento raccontato per la prima volta dai Vangeli cristiani. A dire il vero già nel 2000 il professor Israel Knohl della Hebrew University aveva presentato una dettagliata e originale interpretazione sulla contiguità tra la resurrezione di Cristo e un precedente racconto ebraico che aveva come tema il Messia risorto. Nel libro intitolato «Il Messia prima di Gesù» Knohl asseriva che il protagonista della resurrezione di cui parla la tavola di pietra era un certo Simone, un condottiero ebreo che avrebbe scatenato una rivolta all’indomani della Morte di Erode per liberare Israele dal giogo romano. Tale vicenda sarebbe presente anche nel Talmud, uno dei testi sacri dell’Ebraismo e la rivolta sarebbe stata brutalmente soffocata dalle armate romane. Secondo lo studioso, la tradizione narrava di questo condottiero, che sebbene ucciso, sarebbe risorto tre giorni dopo la morte e avrebbe aperto la strada della libertà al popolo di Israele. Secondo lo studioso ciò risulta chiaro nei versi 19-21 presenti sulla tavola di pietra nei quali si può leggere: «In tre giorni tu saprai che il diavolo sarà sconfitto dalla giustizia» mentre in altre righe si legge che il sangue e la morte del Messia sono la strada che porterà alla giustizia. Infine in due altri versi successivi, difficili da decifrare, Knohl sostiene che vi siano scritte le testuali parole: «Dopo tre giorni tu rivivrai, Io, Gabriele, te lo comando» [Gabriele è l'arcangelo che secondo la religione ebraica era il messaggero di Dio. Nel Vangelo di Luca è lui (l’autore dell’annunciazione a Maria)].  

CRITICHE - «Questi versi mettono in discussione l'originalità del Cristianesimo» afferma il professor Knohl. «La resurrezione dopo tre giorni del Messia è qualcosa che esisteva già nella tradizione ebraica prima che Cristo comparisse sulla Terra». Tuttavia molti studiosi non sembrano accettare le tesi del professor Knohl. La stessa ricercatrice Yardeni sostiene che sebbene la tavola di pietra mette seriamente in discussione l'originalità del tema della resurrezione, è abbastanza discutibile affermare che il personaggio storico Simone sia il Messia da cui poi i cristiani avrebbero tratto ispirazione. Anche il professor Moshe Bar-Asher, docente emerito di Ebraico e Aramaico all'Università Ebraica di Gerusalemme appare scettico: «In passi cruciali del testo mancano troppo parole».

Francesco Tortora
06 luglio 2008 (ultima modifica: 07 luglio 2008)

http://www.corriere.it/cronache/08_luglio_06/stele_messia_mar_morto_734a14e2-4b6c-11dd-9596-00144f02aabc.shtml

 

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Se è così, ciò riguarda comunque il rapporto fra il Messia (CristoV) e la resurrezione, cosa attestata da sùbito nei testi neotestamentari sulla resurrezione; noi abbiamo parlato invece del messianismo regale, cioè del Messia regale di figliolanza davidica, per cui il ritrovamento suddetto (nel quale fra l’altro Simone è un condottiero/generale bellico e non un re, anche se si fosse proclamato tale per incitare più efficacemente alla rivolta) non scalfisce affatto le nostre considerazioni precedenti.  

 

Analogo a Luca 9,20-21 (già trattato) è il caso di Mt 13,55 (56), con la differenza che Matteo lascia la maternità e i nomi dei fratelli con le sorelle di Gesù, ma modifica anch’egli il “carpentiere” di Marco 6,3 in “il figlio del carpentiere” (in Luca “il figlio di Giuseppe”). Carpentiere «tektwn» è un apax: solo in Mc 6,3 e qui in Mt 13,55 (riflette quasi sicuramente una tradizione molto antica, poi abbandonata perché forse considerata non del tutto conveniente alla figura di Gesù; il termine comunque designa più il fabbro del falegname).

Chi muta il neutro “carpentiere” nel più problematico “figlio del carpentiere” non conosce la concezione verginale; e chi neppure corregge con il più consueto “figlio di Giuseppe” (come fa Luca e 5/6 glossatori uniformanti della vetus latina) non conosce neanche i racconti dell’infanzia più in generale. È un ulteriore indizio che nel Mt intermedio non c’erano ancora i racconti dell’infanzia. 

 

Lo schema di Matteo è il midrash nella sottospecie del peser, che è costruito sul Leitmotiv scritturistico: “Questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta…”. Questo adempiere è tuttavia da interpretare, e non va sicuramente inteso banalmente come se l’evento fosse già stato preconizzato (alla Nostradamus) centinaia di anni prima. Anzitutto perché esso storico non è: soprattutto i midrash-peser della fuga in Egitto e della strage degli Innocenti non hanno alcun valore storico. Figuriamoci se Erode il grande, che gode dell’appoggio di Augusto, per il semplice fatto che sarebbe nato un ipotetico Messia (che comunque gli avrebbe dato fastidio 20/30 anni dopo) avrebbe fatto ammazzare tutti i bambini al di sotto dei due anni del circondario di Betlemme (sparando nel mucchio, quando aveva comunque le sue spie o “servizi segreti” per risolvere la faccenda in altro modo più soft), inimicandosi la popolazione! E poi un massacro del genere non sarebbe passato inosservato alla storiografia dell’epoca (ad es. Giuseppe Flavio; non capisco come una persona intelligente come Ravasi abbia sostenuto in un articolo sul Sole 24 ore che si sarebbe trattato di poche vittime, sotto la decina). Considerare storiche la strage degli Innocenti e la fuga in Egitto è un suicidio intellettuale; come la storicità più in generale dei racconti dell’Infanzia è ridotta ai minimi termini. Ma tali racconti non sono un “falso”, perché vanno inquadrati nel loro genere letterario midrashico, che è una costruzione letteraria, teologica e biblica per applicare loro la Scrittura: ciò tuttavia va interpretato nel senso che la parola di Dio si realizza (o si deve/può realizzare; cfr. le conclusioni finali), e non che Osea o Geremia abbiano avuto la chiaroveggenza del futuro (o che Dio sia quasi “costretto” a far andare le cose così come preannunciato dai profeti). La profezia biblica non può essere intesa sulla falsariga degli oracoli sibillini (come purtroppo è avvenuto storicamente e perdura tutt’oggi). Allo stesso modo noi non consideriamo un falso la divina Commedia, anche se sappiamo che Dante non è mai stato (durante la sua esistenza storica) nell’al di là e non vi ha mai incontrato tutta quella serie di personaggi.

 

Uno dei nostri presupposti di base, come già detto, è che non consideriamo per nulla sufficiente l’escamotage di una paternità solo legale (anche se importante per quei tempi, che comunque scatta solo nel momento post-natale di “dare il nome”) che lascerebbe intatto il valore della genealogia senza pregiudicare in alcun modo, nonostante la concezione verginale, la discendenza davidica tramite Giuseppe. Abbiamo pure la sensazione che non sia bastata neppure a loro una pura e semplice discendenza davidica, solo legale tramite Giuseppe, con nascita a Nazareth; non bastava: l’hanno dovuto far nascere materialmente a Betlemme, complicandosi maledettamente la vita con tale inserzione betlemita, per poi unirla alla tradizione nazarena con due storie completamente diverse. Certo hanno dimostrato genio e fantasia, se inquadriamo il tutto nel loro genere letterario non-storico: Matteo (o chi per lui prima nel contesto orientaleggiante della Siria) si è inventato/ha incorporato la storia dei Magi, con fuga in Egitto e relativa strage degli Innocenti. Luca ha approfittato del censimento per adeguarlo ai propri scopi narrativi (retrodatando probabilmente quello del 6/7 d.C.). Sono comunque patetici i tentativi di datare il censimento nella Siria-Palestina quando più fa comodo per renderlo concomitante con la nascita di Gesù, oppure di vedere nella cometa un passaggio della Halley esattamente quando è nato Gesù, o di cercare a tutti i costi una congiunzione fra pianeti, come pure quello di voler comprovare un’eclisse di sole durante la crocifissione, quando sappiamo che la Pasqua è collegata costitutivamente con la luna piena: con tale fase selenica (dato l’allineamento Luna-Terra-Sole) ci può essere un’eclisse di luna, mai però di Sole (poiché in tal caso la Luna si dovrebbe trovare in mezzo fra la Terra e il Sole). I passaggi della cometa di Halley che ci possono interessare sono quelli del (87) e 12 a.C, 66 e (141) d.C.; tali passaggi tuttavia non dicono nulla circa la data di nascita di Gesù, mentre invece possono dire qualcosa sull’autore del racconto leggendario dei Magi. Come loro hanno usato una fervida fantasia, possiamo farlo anche noi oggi, cercando di metterci nei loro panni. M’immagino quindi che l’autore sia rimasto colpito dal passaggio luminoso della Halley nel Gen-Feb del 66 d.C. (secondo alcuni, tale segno astrale avrebbe favorito l’inizio della guerra giudaica); i parametri orbitali sono molto simili a quelli del penultimo passaggio nell’Aprile-Maggio del 1910, con le foto che ne dimostrano l’eccezionale luminosità (l’ultima volta, nel 1986, non è stata particolarmente brillante).

 

Digressione cosmologica

 

[La cometa porta giustamente il nome di un genio astronomico, colui che per primo capì che si trattava del ritorno periodico dello stesso astro, con una media di 76/77 anni ma anche con punte di 79, perché per il ritorno vira in afelio (il punto più lontano dal Sole) al di là dell’orbita di Nettuno e può a volte risentire di piccole perturbazioni gravitazionali derivanti dai giganti gassosi al di là del cosiddetto “limite della neve” (Giove in primis, ma anche Saturno, Urano e lo stesso Nettuno). I due fuochi della sua ellisse, come insegna la prima legge di Keplero, sono costituiti il primo dal Sole, ed il secondo è situato all’incirca nei pressi dell’orbita di Nettuno. Per gli antichi e i medievali si trattava di comete diverse; appunto l’inglese Edmund Halley, 1656-1742, dopo aver visto l’apparizione del 1682, ne previde il ritorno per il 1759, ma purtroppo non visse abbastanza (pur coi suoi 86 anni) per vedere confermata la sua ipotesi (è in ogni caso il congedo definitivo, se mai ce n’era bisogno, dall’universo “a cipolla” con le varie sfere cristalline).

Nel 66 d.C. la cometa ha virato in perielio (il punto più vicino al Sole) il 25 Gennaio ed è passata nel punto più vicino alla Terra (perigeo) il 6 Febbraio: sono date del calendario giuliano, ma allora, appena introdotta la nuova suddivisione dell’anno da parte di Giulio Cesare (calendario promulgato nel 46 a.C., ma sistemato definitivamente da Augusto nell’8 d.C.), lo scarto con l’anno tropico era irrisorio. Solo 1500 anni dopo, nel XVI secolo, quello giuliano era rimasto indietro di circa 10 giorni: la cosa cominciava a farsi un po’ pesante e, col passare dei secoli, si sarebbe aggravata nel senso ad es. di celebrare la Pasqua fuori stagione o di fare i lavori agricoli (sì sempre al momento opportuno perché la natura non cambia) in giorni o mesi calendariali via via sempre diversificati: come esempio ultra concreto, avrebbe portato (fra qualche millennio) a celebrare la Pasqua convinti di essere in Aprile mentre stava esplodendo il caldo di fine-Giugno, e solo tre mesi dopo trovarsi a vendemmiare con il calendario ufficiale ancora nella prima decade di Luglio.  

Papa Gregorio XIII nel 1582 corresse appunto tale sfasatura, che oggi si aggirerebbe sui 13 giorni, per cui gli Ortodossi, che seguono ancora il calendario giuliano a livello religioso/liturgico, celebrano certe feste, in primis la Pasqua, quasi sempre dopo di noi, e quelle fisse appunto 13 giorni dopo. Di fronte ai gravi problemi del mondo sarebbe però ora di finirla con tutto questo patetico impianto di creolina: “ecumenicamente” chiediamo agli ortodossi di accettare il calendario gregoriano, e poi per par condicio lasciamo loro la scelta della domenica di Pasqua (prima o seconda di Aprile, ultima di Marzo, Pasqua alta o bassa, quello che vogliono…., perché la cosa è assolutamente irrilevante).

Diversamente dal lontano passato, sono possibili oggi tali ricostruzioni delle orbite e del cielo stellato anche di centinaia di anni fa (ricostruzione fisica), come pure la ricostruzione (biologica) dell’evoluzione dell’ultimo mezzo miliardo di anni; allo stesso modo, mutatis mutandis, è possibile nell’epoca contemporanea la ricostruzione letteraria, prima impensabile, di un testo in tutte le sue varie fasi di composizione e rielaborazione (cosa che andiamo facendo in questo nostro lavoro). È vero che le leggi della scienza (sempre che esistano; non lo sono comunque nel senso volgare, non riflesso, della maggioranza, un concetto sette/otto-centesco purtroppo sotteso anche alla verifica dei presunti miracoli dei santi da canonizzare) permettono di ricostruire il passato fisico meglio dei criteri grammaticali e sintattici per i testi letterari, ma questi ultimi, presupponendo l’intelligenza e la lucidità dei loro autori, non hanno quegli aspetti casuali, caotici, e a volte indeterministici, dei fenomeni fisici.

Tornando a noi, il perelio attuale della Terra è intorno al 4 Gennaio; ma dato l’anticipo, la cosiddetta precessione secolare del perielio, duemila anni fa era più avanti, diciamo grosso modo in concomitanza col perigeo della cometa: in parole povere, sia la Terra che la cometa hanno virato in perielio all’incirca negli stessi giorni. La Terra e la cometa quindi si sono “sfiorate” (cosmologicamente parlando) a poco meno di 0,4 U.A. (unità astronomiche; l’unità astronomica è la distanza media Terra-Sole, di circa 150 milioni di km.). La Halley quindi nel 66 d.C. ha “lambito” la Terra a circa 50 milioni di km. (una distanza astronomicamente piccola ma di tutta sicurezza; è la stessa di Marte quando è più ‘vicino’ in “opposizione”), ma forse anche meno. Purtroppo il suddetto anticipo del perielio è un dato assente e non calcolabile secondo le più semplici leggi di Newton e di Keplero, per cui bisogna ricorrere alla relatività generale di Einstein: 24 π3 a² /(diviso)  T² c²  (1- e²),  in cui a è il semiasse maggiore dell’orbita terrestre, T il tempo di rivoluzione (sì, un anno, ma espresso in secondi), c la consueta velocità della luce, ed e l’eccentricità dell’orbita. Trattandosi del nostro caro pianeta, il calcolo è meno difficile che ad es. per Mercurio, ma pur sempre laborioso. Questo calcolo, comprovato dall’osservazione astronomica, unitamente alla deviazione dei raggi luminosi provocate dalle grandi masse, costituiscono le due classiche verifiche/controprove osservative che conferiscono alla teoria einsteiniana un grado più elevato di spiegazione dei fenomeni ed una più precisa corrispondenza alla realtà della teoria di Newton.]               

 

----------------(fine della digressione cosmologica)---------------

 

Immaginiamo sempre con fantasia che l’autore, stupefatto dalla Halley nel 66 d.C., abbia poi trovato nella memoria storica del suo entourage (amici, parenti e compaesani più anziani) il ricordo del passaggio di una cometa parecchi decenni prima (allora il calcolo degli anni non era così preciso, e certi fenomeni non venivano registrati puntualmente), quello del 12 a.C., oppure, come registrato dagli annali cinesi, la memoria dell’apparizione di un oggetto molto brillante, probabilmente una (super)nova, che rimase visibile per circa 70 giorni, nel Feb-Marzo del 5 a.C. (fra l’altro questa rientra fra le possibili date per la nascita di Gesù), tra le costellazioni dell’Aquila e del Capricorno, osservabile dalla Mesopotamia alla Giudea. Sia la Halley che la supernova erano visibili soprattutto all’alba (quando si comincia o si riprende un viaggio, perché allora non si viaggiava di notte), per poi scomparire nella luce accecante del Sole. Secondo l’autore di Mt 2, l’apparizione di tali oggetti era avvenuta a memoria d’uomo grosso modo, a occhio, a spanna, 60/70/80 anni prima, in concomitanza con il periodo presunto della nascita di Gesù; l’autore quindi ha usato la stella o cometa come “teonimo” (cfr. più avanti a proposito della scrittura cuneiforme e della stella dei Magi). 

Quelli sul censimento, sulla stella, sulla fuga in Egitto e la strage degli Innocenti, sono tutti tentativi all’insegna del: “se sono storici è meglio”, non rendendosi conto che qualche volta la bellezza e il significato si basano sul non-storico, come nel nostro caso. La bellezza del racconto dei Magi imperniato sulla stella si fonda sul suo valore simbolico, fantasioso, metaforico, fiabesco, leggendario; se viene inteso invece in chiave storica letterale, ad es. il fermarsi della stella su un luogo, o come dicono alcune varianti sopra il bambino o sul capo del bambino, si rischia il ridicolo.

 

Digressione astronomica

 

[Fra l’altro, dato e non concesso che ci si spostasse anche di notte, non ha nessun senso “seguire una stella” (od una cometa che ha sì un certo moto proprio), perché, in seguito alla rotazione della Terra tutto si sposta di notte (come il Sole di giorno) verso Ovest: la direzione cambierebbe ogni ora e significherebbe introdurre in continuazione delle correzioni di rotta verso Occidente. Quindi a che ora si segue un astro? Sarebbe come seguire il Sole in pieno giorno o la Luna di notte, una cosa senza senso! Muoversi verso una stella (Sole compreso) ad una determinata ora significa seguire una direzione; alcune ore più tardi significa seguirne una decisamente diversa. All’equatore poi negli equinozi ed ai tropici nei solstizi, con il Sole che descrive l’arco giornaliero passando  esattamente per lo Zenit, (o di notte per una stella che percorra la medesima arcata sopra la capoccia) la situazione diventerebbe comica: significa al mattino (o nelle prime ore della notte) andare verso Oriente, e al pomeriggio (o nella seconda parte della notte) andare verso Occidente invertendo completamente la rotta. La tradizione colloca il viaggio dei Magi (non si dice né che siano tre, né che siano dei Re) dalla Mesopotamia alla Giudea, quindi non lontano dal tropico del Cancro: avrebbe significato d’estate andare al mattino verso Est, per poi fare inversione a U nel pomeriggio ritornando esattamente al punto di partenza!!

 

Sì, lo so che sto insistendo su questo punto fino alla nausea: ma per evidenziarne l’assurdità, la stessa e medesima assurdità che si avrebbe considerando storici/letterali la strage degli Innocenti e la fuga in Egitto.

 

L’unica eccezione è costituita dalla Stella Polare perché, essendo esattamente a Nord sulla verticale, in quanto circum-polare è indipendente dalla rotazione della Terra; è situata sull’unica direttrice che indica sempre il Polo Nord celeste (come nell’emisfero boreale tutti i meridiani confluiscono in un unico punto, il polo Nord geografico). È una meraviglia vedere di notte in montagna (ad es. in Val d’Aosta; nelle città ormai il cielo stellato non lo si vede quasi più) come tutte le stelle dell’Orsa Maggiore e Minore (Grande e Piccolo Carro; al vertice inferiore di quest’ultimo è situata la Polare) s’inclinino, si adagino (passando dalla configurazione/allineamento verticale a quello orizzontale) ruotando in blocco durante la notte intorno al Polo Nord celeste (ove è situata la Polare), con l’unica eccezione appunto della Polare che non si smuove dalla direttrice del Nord. Duemila anni fa poi, data la rotazione a mo’ di “trottola” dell’asse terrestre (ciò che causa anche la precessione degli equinozi), a indicare il Nord era la stella Vega nella costellazione della Lira.]   

 

---------------(fine della digressione astronomica)--------------

  

Quello che videro i magi («Abbiamo visto sorgere la sua stella in Oriente, e siamo venuti…», 2,2) avviene ogni notte per l’intero cielo stellato; le stelle sorgono (e si vedono prima quelle a Oriente perché a Ovest perdura maggiormente il riverbero del Sole appena tramontato), e poi tutte si muovono verso Occidente con l’intera volta celeste.

Supponiamo poi che uno dei significati della strage degli Innocenti (oltre all’adempimento della Scrittura) sia il suo parallelo con Mosè, in una specie di effetto comparato di montaggio: Gesù è l’unico che si salva da una strage come il principe d’Egitto, venendo quindi rappresentato come nuovo Mosè (o più grande di Mosè), come il portatore della nuova alleanza dopo quella antica mosaica. Ora tale significato si regge sulla non-storicità del racconto perché altrimenti, almeno agli occhi della modernità, si rischierebbe il cinismo; un moderno reagirebbe seccato: «chi se ne importa di tutti questi significati di fronte all’immane tragedia ed alla sofferenza arrecata, che fa svanire nell’insignificanza tali costrutti teologici». Detto in maniera più elegante, meno brutale, qui il permanere del significato quasi prescrive la non-storicità, esige la fiction come diremmo noi. E’ come una bella sceneggiatura, frutto di una fervida fantasia, in un film portatore di un messaggio significativo e importante. Tale invenzione creativa è un modo (diverso dal nostro normalmente concettuale e filosofico) per dire che ad es. “Gesù è il nuovo Mosè, il nuovo Salvatore e liberatore”.

A ciò è funzionale il creativo peser impostato su Isaia 7,14 che riassume (e riassorbe) il tutto con l’Emmanuele, il “Dio con noi”. Non dobbiamo mai dimenticare che tale è il genere letterario di Mt (1)-2, e non una cronaca storicistica. 

  

Matteo semi-finale    (racconto dell’infanzia ridotto)

 

Precisato tutto questo e proseguendo, ci sembra abbastanza convincente il fatto che il passo successivo sia quello del Matteo semi-finale con il racconto dell’infanzia, ma limitato: in primis alla lunga genealogia di 42 generazioni che termina con «Giacobbe generò Giuseppe [lo sposo di Maria], dal(la) quale è nato Gesù chiamato Cristo», poi al cap.2 (qui inserito, che potrebbe benissimo avere un’origine antecedente, indipendente, autonoma ad extra); ma soprattutto ad una storia originaria più concisa. Parecchi autori (cfr. sia Gnilka che Brown, che si rifanno ai lavori di C. T. Davis) individuano una storia soggiacente con una serie di visioni angeliche apparse a Giuseppe, la prima delle quali potrebbe originariamente aver annunciato soltanto la nascita di un bambino salvatore (cfr. v.21), e non la sua concezione verginale. È rintracciabile grosso modo negli attuali vv.21-25 (senza il 25a), eventualmente introdotta da quel “Giuseppe, figlio di Davide”, che è un apax (solo qui nell’intero NT) riferito a Giuseppe, mentre è pluri-attestato per Gesù, già all’inizio del vangelo stesso: “Gesù figlio di Davide, figlio di Abramo”. Si dice due volte “Figlio di Davide”, uno riferito a Giuseppe ed uno riferito a Gesù (che striderebbe con la concezione verginale); ciò significa che la genealogia ha (ancora) perfettamente senso. Il successivo racconto dei Magi però presenta solo un tenue collegamento con ciò che precede (rilevato da vari commentatori). E dato che: 

--- 1) Il fatto che i Magi trovino Gesù a Betlemme è solo sottinteso, perché la stella si ferma/sta sul luogo dov’è il bambino (non ci voleva molto a dire Betlemme, o sulla casa di Betlemme); 2) La nascita a Betlemme molto stranamente non viene raccontata; 3) La citazione di Mt 2,6 è molto approssimativa: oltre a non corrispondere esattamente né al testo ebraico né ai LXX, il primo distico si rifà a Michea 5,1, ma il secondo parla di un capo che pascerà il popolo d’Israele, mentre in Michea si parla di un dominatore in Israele. Il capo che pascerà corrisponde a 2 Sam 5,2. In conclusione è una miscela, un mix, una crasi del testo di Michea (prima parte) con quello di 2 Sam (seconda parte): chissà chi è l’autore del secondo capitolo, chissà da dove viene il racconto leggendario dei Magi, e da dove è stata presa la citazione mista (esistevano delle raccolte, dei compendi di citazioni sul Messia?)!  ---  il tutto viene probabilmente agganciato con quel conciso e stringato genitivo assoluto (tou de Iesou«Nato Gesù a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode», ecco che dei Magi…) dell’inizio del secondo capitolo, con valore temporale (infatti la vulgata lo rende con «cum ergo natus esset Iesus in Bethleem…», un equivalente dell’ablativo assoluto in latino).

Il versetto chiave relativo ad una prima versione non-verginale (il Matteo semifinale di cui stiamo trattando), imperniato su Gesù salvatore, è 1,21 messo in bocca all’angelo e rivolto a Giuseppe in un discorso diretto: «(Ti) partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 

 

Bisogna ora guardare bene alla struttura del v. 1,25, che riprende il v. 21 in terza persona, tenendo presente che nei codici più antichi c’è la scrittura continua, con una parola attaccata all’altra senza punteggiatura; essa è stata messa molto più tardi ed è frutto di un’interpretazione, per cui la loro scelta vale tanto quanto la nostra: « …prese con sé la sua sposa (donna), la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un (ma l’articolo non c’è) figlio, che egli chiamò Gesù». La nuova versione CEI toglie il relativo “la quale” (che nel testo non c’è): «E prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio, ed egli lo chiamò Gesù».

Ho riportato per prima la doppia versione CEI per dovere di cronaca: entrambe sono sì molto scorrevoli, legano bene, ma non tengono conto dell’ewV (fino a; finché) e non corrispondono all’originale che è costituito da una semplice paratassi con tre kai (congiunzione e) consecutivi.

«E (kai) prese con sé la sua sposa   (v.24)

e (kai) non la conosceva                  (v.25a)

finché partorì un figlio                      (v.25b)

e (kai) lo chiamò (gli diede il nome di) Gesù».    (v.25c)

 

Che punteggiatura mettiamo? Dove piazziamo i punti e virgola o le virgole?

Fulvio Nardoni, nella sua gloriosa e molto fedele traduzione del 1960 (Libreria Ed. Fiorentina), con qualche espressione aulica e antiquata, così interpreta (c’interessa soprattutto la punteggiatura): «…e prese sua moglie con sé; e non la conosceva; finché di poi ella partorì un figlio, e lo chiamò Gesù». Da notare che, dopo aver scelto il femminile per il 25b (ella partorì), lascia aperto il 25c, in cui non si sa se sia Maria a chiamarlo Gesù, o venga ripristinato il soggetto Giuseppe per dargli il nome (Nardoni vuole giustamente evitare di cambiare troppo il soggetto, in una frase in cui è espresso una sola volta all’inizio del v.24, “Giuseppe”).

Il verbo tiktw (eteken, aoristo secondo) di per sé sarebbe tipico anche della paternità, e non esclusivo della maternità nell’accezione “partorire”. Riguarda l’essere o il divenire “genitori”, quindi anche il processo paterno di generazione/procreazione, del divenire padre che culmina nella nascita ma in essa non si risolve. Ma il parallelo con il v. 21, anche se l’autore non ha inserito qui un soggetto/pronome femminile (essa/ella auth o semplicemente h: gli sarebbe bastato ben poco!), ci fa interpretare il 25b con il soggetto Maria che partorisce, dà alla luce; anche se non è escluso che il soggetto sia, o fosse sempre Giuseppe, nel qual caso il 25b va reso con “ebbe un figlio” o “divenne padre” e simili. «E prese sua moglie con sé (e non la conosceva), fin quando non partorì un figlio, che (egli, non ella, sempre per analogia col v. 21) chiamò Gesù».

 

Abbiamo messo tra parentesi il 25a, perché ha tutta l’aria di un probabile inserimento posteriore (del Matteo finale con la concezione verginale), per sottolineare e ricordare in qualche modo la concezione/nascita verginale, ma con una strana verginità post-concepimento ed ante partum, di dubbio gusto…  

 

Possiamo quindi togliere tranquillamente il 25a (“e non la conosceva”), con un andamento più scorrevole e logico: «e prese con sé la sua sposa finché ella non partorì un figlio..». Sottolineare che durante la gravidanza non ci siano stati rapporti sessuali lo trovo come minimo ‘di cattivo gusto’, ed è invece molto probabilmente un’addizione della redazione finale relativa alla verginità, che ha approfittato dei due kai già esistenti per inserirvene un terzo in mezzo.

 

In 1,21 non aveva avuto bisogno di inserire la verginità, perché i versetti precedenti (18-20) la lasciavano intuire chiaramente. Invece in 1,25, per scongiurare una nascita che poteva sembrare naturale, abbiamo la strana sottolineatura postuma “e non la conosceva” che non riguarda più il concepimento, una dizione pressoché inutile, una cosa “non petita” e persino sgradevole. Ma è stato quasi costretto per forza maggiore a ribadire la verginità durante la gravidanza (non importa se dopo il concepimento; a questo punto non poteva più parlare di quella “ante”, ma solo di quella in corso). 

 

Considerando quindi i seguenti dati: a) Giuseppe è il personaggio principale, il soggetto-attore incontrastato di tutto il racconto di Matteo; b) la variante di 1,16 “Giuseppe generò Gesù” segnala molto probabilmente un’espressione più antica, con Giuseppe padre naturale di Gesù senza problemi (infatti vi è stata inserita/piantata in mezzo dalla redazione finale, o da uno scriba, “la vergine Maria”), - in questa prima fase/stesura si tratta dell’annuncio di un figlio eccezionale portatore di salvezza (salvatore del suo popolo), fatta a Giuseppe (e a Maria), non importa se già sposati o nell’anno di pre-matrimonio.

 

Matteo finale    (concezione verginale)

 

La redazione finale (Matteo finale) ha inserito grosso modo 1,18.20 (più il 25a), che sono gli unici versetti in cui si trova la concezione verginale; ma (lo ribadiamo ancora una volta) si può ragionevolmente ipotizzare che in precedenza non ci fossero, se non altro perché, senza di essi, aveva perfettamente senso la lunga genealogia, con addirittura la ridondante glossa esplicativa di 1,17 (14+14+14).

 

L’ultimo redattore, che qui non aveva a disposizione verbi di “dire”, ha forse duplicato il genitivo (tou de Ihsou) utilizzando il primo genitivo come “normale” (anche se prolettico) per inserire la concezione verginale: “di Gesù Cristo l’origine/nascita così avvenne” (sic erat nella Vulgata; o «Così fu generato Gesù Cristo», nella nuova versione CEI). E poi ha lasciato (ripetuto) il secondo con il testo originario antecedente che comincia a narrare dei Magi: qui, all’inizio del secondo capitolo, il de può essere considerato una particella “continuativa” da non tradurre. Mentre sempre Nardoni, non senza ragione, nel primo genitivo normale (di 1,18) interpreta il de come avversativa rispetto alla genealogia che precede: “Però la nascita di Gesù Cristo avveniva così…”, per rendere la discrepanza della tradizione verginale rispetto alla filiazione davidica (sì, va bene la genealogia, ma poi le cose sono andate in un certo modo…).  

Infatti un redattore finale (o qualche scriba posteriore), per attutire lo stridore con la genealogia medesima, ha ritoccato 1,16: Giacobbe generò Giuseppe, “la cui promessa sposa, Maria vergine, generò Gesù..”; oppure, “Giuseppe, di cui Maria vergine era la promessa sposa, generò Gesù”, tutte varianti che in genere vengono scartate, anche dalla versione della CEI. Guardiamo a quest’ultima variante che fa quasi sorridere: anzitutto abbiamo un diretto “Giuseppe generò Gesù” che potrebbe essere più antico, prima della concezione verginale; ma allo stadio ultimo della variante si allude alla concezione verginale e si pensa ad una paternità solo legale, con l’inghippo però (con Maria vergine promessa sposa) che siamo ancora nella fase dei “promessi sposi”, mentre la paternità legale viene assunta solo alla nascita con l’assegnazione del nome. Senza il riconoscimento post-nascita non c’è ancora la paternità legale. A parte il fatto che il personaggio ‘Maria’ non è ancora entrato in scena e già se ne afferma la verginità, è tuttavia chiaro che lo scriba ha in mente una paternità solo legale, per lui chiaramente compatibile senza problemi con la genealogia di cui non viene sminuito il valore. L’autore/scriba unifica e concilia, ma con quale contorsione e sfasamento dei tempi!

Ma neppure Mt 1,18-20 scorre comunque in modo lineare e coerente (prescindendo dall’eccezionalità della cosa); Maria rimane incinta prima della coabitazione per opera dello Spirito Santo: è un’informazione solo per il lettore (come sembra e come parecchi esegeti sostengono) od anche per Giuseppe? L’inghippo contraddittorio è in ogni caso nel versetto seguente, a proposito della “giustizia” di Giuseppe. Ma procediamo con ordine, cercando di individuare prima la traduzione migliore (qui c’interessa la precisione e non la scorrevolezza dell’italiano), e poi le varianti migliori.

La traduzione della CEI suona: «sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto». Letteralmente dice «…si trovò che aveva in grembo da Spirito Santo» (ovviamente sottinteso un figlio, ma non viene esplicitato), pensando forse già al momento in cui si comincia a vedere il “pancione”.

 

E più avanti si dice sempre letteralmente: «e non voleva esporla a diffamazione (a dileggio)». Per quanto riguarda le varianti, abbiamo la prima e più attestata “Giuseppe suo sposo (anhr), che era giusto…” (1), ma anche una seconda (2) “Giuseppe che era un uomo (anhr) giusto [senza il “suo” authV di lei]. La nuova versione CEI, salomonicamente, le riunisce insieme: «Giuseppe suo sposo, poiché era un uomo giusto..». Se scegliamo la 1ª ci troviamo subito davanti ad uno strano “suo sposo” dopo aver appena detto che erano solo promessi (una mezza contraddizione); a meno che il “suo sposo” non faccia parte del testo precedente (senza la concezione verginale), in cui a Giuseppe (e a Maria), già sposati, viene annunciata la nascita di un figlio “eccezionale”, salvatore del suo popolo. Se optiamo per la meno attestata 2ª, liberandoci del problema testé evidenziato, abbiamo un’affermazione più forte della giustizia di Giuseppe; ma (e questo vale anche della prima variante) c’è qualcosa che non quadra per nulla, almeno secondo la visione tradizionale. Se per “giusto” s’intende in prima approssimazione l’osservante della legge/diritto (mosaici in senso lato; nel nostro vangelo è presente più nella teologia di Matteo che sulla bocca del Gesù storico), Giuseppe avrebbe dovuto fare esattamente il contrario di quel che pensava di fare; in quanto giusto, cioè, avrebbe dovuto appunto ripudiarla pubblicamente di fronte a due testimoni (praticamente un divorzio ufficiale): questo perché allora il fidanzamento costituiva l’inizio della celebrazione del matrimonio, e instaurava rapporti giuridici tra le parti.

Quel che invece Giuseppe voleva (pensava di) fare nel primo momento non è “giustizia”, ma semmai, nella visione consueta e tradizionale, un atto di benevolenza magnanima (quella del presunto tradito e “cornuto”) nei confronti, diciamo così in modo eufemistico, di una “poveretta” che ha sbagliato. È la classica visione-interpretazione del sospetto magnanimo, in cui l’informazione contenuta nel v.18b è totalmente sconosciuta a Giuseppe nella prima fase. Considerare Giuseppe giusto per il semplice fatto di non assumersi una paternità non sua (citiamo per amor di completezza anche questa interpretazione), ci appare come un altro escamotage quasi patetico che gioca sporco con le assonanze, perché fare una cosa giusta è molto diverso dall’essere un uomo giusto: anche un mafioso oggi si rifiuterebbe di riconoscere un figlio non suo, ma non per questo è un uomo giusto (prescindendo dal fatto che non si limiterebbe a licenziare in segreto la propria donna). Non contestiamo per nulla il fatto che, dopo un’analisi anche apparentemente demolitrice, si possa e si debba pervenire ad un’esegesi “spirituale” che deve portare a delle cose costruttive, ma non a scapito dell’intelligenza e dell’onestà intellettuale.

 

 Ma fin dai primi tempi, sin da antica data ne è sempre esistita una ben diversa, oggi ormai sconosciuta o taciuta (cfr. Gnilka, 45-48: «due interpretazioni si dividono il campo»). Essa intende “giustizia” come “rendere possibile l’esecuzione della volontà di Dio” (istanza tutta particolare nel vangelo matteano come pure nel Gesù storico): nel senso perciò di “obbedienza, accettazione, adeguamento”, o per lo meno “rispetto della volontà divina (nel nostro caso del fatto che Dio abbia in vista per Maria un grande disegno). Giuseppe sarebbe perciò giusto perché, almeno, non vuole intralciare tale disegno esponendo Maria a pubblica diffamazione/dileggio, il che avrebbe complicato non poco il piano di salvezza divino. Ciò significherebbe ovviamente presupporre che Giuseppe abbia intuito che in Maria stava nascendo qualcosa di grande: non è esattamente l’informazione di 1,18b ma neppure il nulla. Non vuole quindi mettere i bastoni tra le ruote esponendola a pubblico ludibrio, e nel contempo, per un certo timore (non è il caso di scomodare il sacro timore/terrore del “numinoso” tirato in ballo da certi commentatori, ma semmai solo la venerazione del “mistero”), si vuole separare da lei, si vuole tirar da parte almeno per non essere di inciampo, forse anche perché dubita di essere all’altezza. Qui il sospetto assume molto minor rilievo della sua “obbedienza”; è semmai un sospetto all’incontrario, non quello del tradito/cornuto, bensì il sospetto/paura di esser di danno o non all’altezza della situazione. In tale ambito l’angelo in sogno (non come nell’annunciazione di Luca a occhi aperti, comunque si vogliano interpretare i due schemi di comunicazione) lo riassicura come a dire: “Non devi tirarti indietro, ma collaborare anche tu al disegno divino su Maria e Gesù”. Non è un caso che da quel momento in poi assuma le redini della situazione e gestisca tutti i viaggi/spostamenti.

 

L’uso in Giudea (ma non conosciamo bene quello in Galilea, che potrebbe avere modalità diverse) sembra contemplare (ma anche qui la cronologia degli usi è incerta) che almeno una volta i promessi sposi potessero stare/incontrarsi da soli in un momento di intimità durante l’anno (circa) che andava dal fidanzamento al matrimonio vero e proprio.

Tuttavia la consuetudine giudaica di 2000 anni fa è troppo incerta per usarla come base di affermazioni; quel che invece sappiamo perché universalmente attestato è che la donna era segregata in casa sino al matrimonio, come avviene tuttora in molte parti del mondo (e fino a 100 anni fa anche nell’Europa occidentale): tanto che si diceva “solo dopo il matrimonio poteva aver luogo per la donna una certa libertà (di movimento)”. Era già difficile avere un momento d’intimità col proprio fidanzato, figuriamoci con un altro: ricordo che in Emilia (ma probabilmente anche altrove) grosso modo sino alla fine della seconda guerra mondiale, era consuetudine che la nonna (la vecchia) stesse o seguisse sempre i fidanzati controllandoli (anche se ad una certa ora spesso sonnecchiava…).    

 

Quindi, prescindendo dalla storicità ma situandoci nel contesto letterario ed esistenziale del pensiero dell’autore (e questo vale non solo qui ma per tutta la trattazione di Matteo come pure di Luca), Giuseppe poteva anche nella prima fase essere abbastanza sicuro che non era opera di un altro uomo; per cui, se non era lui il padre naturale, forse ha capito l’eccezionalità della cosa….

Se di magnanimità/benevolenza si tratta, non è quella della commiserazione per una “poveretta” colta in fallo, bensì quella dell’ammirazione per la grandezza del disegno su Maria e Gesù: Maria è una gran donna, serva del Signore e dei suoi disegni salvifici. Ricordiamo sempre che ci si muove in un contesto teologico e midrashico, e non nell’ambito di una cronaca storicizzante. 

 

Qui, anche nella prima fase antecedente la delucidazione/riassicurazione dell’angelo, è in gioco la giustizia in quanto obbedienza al disegno e alla volontà divina di salvezza, e non la delusione/disperazione del “cornuto” (una banale questione di corna come nella vulgata popolare con tutte le sue ironie).

Si tratta di un’interpretazione decisamente più convincente (ha una sua consistenza tutt’altro che peregrina) di quella cosiddetta del “sospetto”, nell’ambito del quale non ha alcun senso definire Giuseppe “uomo giusto”, anzi è contraddittorio.

 

Il fatto che anche Matteo abbia certe inconsistenze logiche, grammaticali e sintattiche (come Luca 1,34), è un’ulteriore indicazione che la concezione verginale è stata inserita per ultima su un testo antecedente che non la conteneva, dando luogo a tensioni e discrepanze perché aggiungevano e ritoccavano ma non riplasmavano/rifacevano il tutto ripartendo da zero. 

 

E il quarto Vangelo?

 

Adesso siamo forse in grado di valutare meglio la situazione del quarto Vangelo (prescindendo per ora dal prologo): in seguito alle sue accurate indagini lessicali e letterarie, Boismard sostiene che il quarto Vangelo conosce il Matteo intermedio (ma non quello finale, e, aggiungo io, neppure quello semi-finale), che però quasi sicuramente non contiene ancora la concezione verginale, e molto probabilmente neppure il racconto dell’infanzia tout court. Il quarto vangelo quindi ignorerebbe, perché non la conosce, la concezione verginale (come pure i racconti dell’infanzia più in generale).

Ecco un paio d’esempi della tecnica di Boismard, qui relativi ai sinottici più in generale e non specifici per il vangelo di Matteo; nel quarto Vangelo alcuni racconti sinottici vengono dati per conosciuti (quasi scontati), come ad es. la prigionia del Battista in Gv 3,24: “Giovanni, infatti, non era stato ancora imprigionato” (e tale prigionia, come pure la decapitazione, non viene narrata, né prima né dopo). Così sono pure dati per scontati i dodici in Gv 6,70: “Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!”, tenendo presente che l’elezione dei dodici non viene mai narrata.  

 

Possiamo quindi ritornare su Gv 7,40-52 per affermare (con Meier 209) quanto segue:  1) Gli oppositori dicono correttamente che Gesù viene da Nazareth e non da Betlemme; 2) Ciò che gli oppositori dicono è perfettamente vero, ma totalmente irrilevante per il quarto Vangelo, secondo il quale Gesù viene dall’alto, dal cielo, dal Padre, per cui l’origine terrena di Gesù, che sia Nazareth o Betlemme, è insignificante; 3 Di più, né l’autore qui nel vangelo né i suoi lettori conoscono Betlemme come luogo della nascita di Gesù, perché altrimenti, se in possesso di tale informazione, anche se per lui irrilevante, l’autore l’avrebbe esplicitata (cioè che Gesù, pur essendo cresciuto a Nazareth e provenendo dalla Galilea, è nato a Betlemme in Giudea) per controbattere l’obiezione in un contesto molto polemico. In un contesto normale, tranquillo, non polemico, si può ben tralasciare una cosa giudicata non importante e trascurabile, ma qui siamo ai ferri corti: «ma questa gente, che non conosce la legge è maledetta!» (v. 49). E nel v. 52, dopo che Nicodemo ha tentato di difendere Gesù (quasi lo volevano arrestare, vedi la seduta dei sommi sacerdoti e dei farisei presso cui tornano le guardie), la replica è secca e tagliente: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia/indaga (+ le Scritture) e vedrai che non sorge/è sorto (il) profeta dalla Galilea».

Consideriamo ora il prologo che, oltre ad essere stato redatto per ultimo, costituisce probabilmente anche l’ultima pericope, l’ultimo pezzo del NT ad essere stato scritto.

C’è un gruppo che alla fine ed all’inizio del vangelo si annuncia con il “noi”: è il già citato e commentato in finale di PREMESSA Gv 21,24, cioè la seconda conclusione del quarto vangelo. La prima conclusione è in Gv 20,30-31, ossia quella della semeia-quelle, la fonte dei segni tipica ed esclusiva del quarto vangelo (“Molti altri segni fece Gesù…, ma non sono stati scritti in questo libro…”; quelli scritti invece sono all’incirca le nozze di Cana, Nicodemo, la samaritana, il cieco nato, Lazzaro…). Ma la seconda conclusione presuppone la morte di Pietro (64 d.C.?) e soprattutto la lunga vita dell’altro discepolo; è quindi tardiva, intorno alla fine del primo secolo.  

Ma il noi finale si unisce al noi del prologo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi vedemmo la sua gloria..” (1,14.16); è il gruppo dei “noi” che, a cavallo fra il primo e secondo secolo, mette il sigillo definitivo al quarto vangelo, con il prologo e l’epilogo (seconda conclusione).  

 

Qui ci interessa solo il v. 1,13, che forse ha uno sviluppo a due stadi: la lettura normale e consueta è al plurale, sulla base della stragrande maggioranza delle testimonianze (codici): «…a quanti credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati», che fra l’altro risulta essere verosimilmente la lectio difficilior (quindi la più probabile), perché, se è passabile che l’essere generati (presupponiamo) alla fede non provenga dal sangue e dalla carne, va un po’ stretto ai credenti il non essere stati generati alla fede (anche) da volere di uomo (la propria volontà). È attestata tuttavia anche la lettura al singolare, scelta ad es. dalla Bibbia di Gerusalemme (francese) e da parecchi esegeti sempre della scuola francese, basandosi per altro su poche testimonianze (codici): «…a quanti credono nel suo nome, il quale non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio è stato generato», con una possibile lezione originale costituita da un testo più breve, secco e incisivo: “né dal sangue né dalla carne”. Il singolare (né dalla carne, né dal sangue, né dal volere dell’uomo) ben si adatta a Gesù Cristo o al Verbo incarnato (molto di più e meglio che non ai cristiani). Se c’è stata una successione fra le due lezioni, essa va quasi sicuramente dal plurale al singolare, perché è estremamente improbabile un passaggio dalla lettura “più facile” del singolare a quella più difficile (difficilior appunto) del plurale (si passa sempre dalla più difficile alla più facile, perché, se esiste una lettura scorrevole, non si vede il motivo per cui ci si debba complicare la vita rendendola più difficile; se invece esiste una lettura più complicata, è quanto mai logico che si cerchi di semplificarla con una più lineare).  

Ora la lettura al singolare, posteriore e ultima, allude forse alla nascita verginale; è possibile che l’ultimo redattore del prologo (o forse meglio gli ultimi, i “noi”) conosca il Matteo finale, con il racconto dell’infanzia e relativa concezione verginale, o che comunque sia venuto a conoscenza per altre vie della tradizione relativa al concepimento senza paternità naturale.

 

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