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BELLE NOTIZIE DA VILLAPIZZONE

Dov’è Villapizzone? Alla periferia di Milano dove in una cascina vive una comunità di gesuiti dediti al servizio della parola in un contesto di emarginazione. In questa cascina opera Silvano Fausti, studioso di teologia, filosofia, fenomenologia del linguaggio.

È autore di numerosi studi sui quattro vangeli (Una comunità legge il vangelo di Matteo, Luca, Giovanni, Marco, quest’ultimo in collaborazione con altri) sulla lettera ai Galati, oltre ad altri saggi. Interessante è la traduzione scrupolosa del testo greco. Una piacevole sorpresa è la scoperta che spesso traduciamo buono, quello che in greco significa bello (il pastore, l’albero, il frutto, le opere). Dovremmo cominciare a recuperare questo termine, evocatore di meraviglia e di gioia. Quanto segue è un tentativo di “riassumere” circa duemila pagine del Fausti. Ovviamente nel selezionare e collegare le svariate «belle notizie» mi sono lasciato guidare dalle mie preferenze.

 

Dio è il crocifisso

È facile credere in un “uomo universale”, un essere divino principio di amore, un po’ vaporoso e inconsistente. Difficile è concentrarci sull’uomo storico Gesù. Ma ancora più difficile è credere che Dio, (la “definizione” di Dio?) sia il Crocifisso. Tutti i cristiani credono che Gesù è il Signore. Lo scandalo vero – e pochi ci credono! – è credere che il mio Signore, il senso della mia vita e della storia, è l’uomo Gesù di Nazareth, finito come bestemmiatore e sovversivo sul patibolo dello schiavo ribelle. La differenza tra «Gesù è il Signore» e «il Signore è Gesù» è la stessa differenza reale che c’è tra il padrone e lo schiavo, il potente e l’umile, tra il dio di morte e il Dio dei vivi.

La croce è bestemmia per ogni religione, distanza infinita da ogni idolo e sorpresa per ogni ateismo; il Salvatore ucciso suona derisione per tutti gli uomini. Il «Dio crocifisso» fa la differenza tra il cristianesimo e ogni religione. La bestemmia di Gesù ci libera dalla nostra bestemmia su Dio. Per questa bestemmia Dio è Dio, diverso da ogni nostra pia o empia raffigurazione, l’opposto della proiezione dei nostri desideri. Dio si rivela Altro, altro da ogni nostro concetto di altro; talmente “altro” da essere come noi, anzi come l’ultimo di noi. La croce è teo-logia in senso forte: non la parola dell’uomo su Dio ma parola di Dio su di sé, crisi di ogni nostro parlare su di lui. Ed è teologia politica, istanza critica contro ogni potere oppressivo.

Il «Signore crocifisso» tocca e investe l’essere di ognuno di noi. Dio, amore amante, è crocifisso per la sua passione per noi e resterà crocifisso finché ci sarà uno che non l’accoglie. Poiché l’amore non amato è la morte dell’amante; l’amore amato, vita di ambedue. Il male e il rifiuto dell’amato è portato da chi ama! Chi ama è sempre esposto al rifiuto; pur di non costringere l’altro, muore lui stesso di passione non corrisposta. Dio ci ha fatti per amore, e ogni nostro male è un suo «fallimento» di cui soffre. Come i genitori con i figli, lui si mette in questione se noi stiamo male o sbagliamo. È lui che «si pente» e sente il dolore del nostro male, perché ci ama. La croce di Gesù è il «pentimento» e la pena di Dio per il male del mondo. Il dolore di Dio non è «guai a te», ma «guai a me per te!», è l’ahimè di Dio per i guai dell’uomo. Il nostro peccato provoca il suo lamento e la sua sofferenza reale. Ma l’amore non amato non minaccia. Non può che lamentarsi e morire di passione.

L’amore del Signore crocifisso è rivolto soprattutto a chi ha più bisogno di amore, gli ultimi, i non amati. Dio si è fatto solidale con gli uomini fino in fondo, in un modo in cui solo Dio può esserlo. Si è fatto ultimo di tutti perché nessuno più potesse sentirsi abbandonato e maledetto, neanche morendo in croce da malfattore. Dio è ormai nel punto più lontano da Dio, per essere vicino a tutti.

 

Meno male che c’è il male

La bestemmia del Dio Crocifisso non solo rovescia la tradizionale e istintiva immagine di Dio; anche le nostre sapienti distinzioni etiche ne risultano sconvolte. Gli uomini non si dividono infatti in «giusti» ed «empi», ma tra peccatori e quanti si credono giusti. E questi ultimi, quando lo fossero, consumano il vero peccato, quello di autogiustificarsi di fronte a Dio.

Il criterio di opposizione tra bene e male va rivisto radicalmente. Il male fa male innanzitutto a chi lo fa e non va restituito. La punizione viene dal male stesso. Dovremmo pregare più per gli infelici affamatori che per gli affamati, che Gesù chiama «beati». Gesù ci libera dai capi che ci tiranneggiano col nostro consenso. Infatti seguiamo il loro falso modello e ci riconosciamo in loro, invece di considerarli dei malati di cui avere cura. L’imbecillità del potere di qualunque tipo – qui sta la sua apparente forza e la sua reale vulnerabilità – è quella di dividere ed etichettare per controllare lo scacchiere. Il potere vince sempre con chi fa lo stesso gioco. È invece incapace di incasellare chi non ci sta, chi è imprevedibile. Il male è ripetitivo e noioso: usa sempre la stessa tattica.

Il paradiso e l’inferno passano all’interno di ciascuno di noi. Se vuoi osservare le prescrizioni della legge, sei nell’inferno del tuo io, che è diventato il tuo dio. Il prepotente che vuole dominare l’altro e il moralista che vuole dominare se stesso sono ambedue centrati sul proprio io, inteso come piacere o come dovere. L’inferno del giusto è vedere la misericordia di Dio verso gli ingiusti!

Se in Giuda vediamo il male, in Pietro vediamo il «bene» da cui Cristo ci salva. È un male profondo e sottile, travestito da bene, più difficile da riconoscere. Sacrificare la vita per Dio, come vorrebbe fare Pietro, è l’apice della generosità dell’uomo, punto più alto di ogni religiosità. Ma è una religiosità perversa, di chi vuole occupare il posto di Dio. Nel Vangelo c’è un capovolgimento: è Dio che si sacrifica per l’uomo, non l’uomo per Dio.

«Sarebbe bello se non ci fosse il male!». Eppure il male è paradossalmente ciò che mi aiuta a diventare come Dio. Verrebbe da dire: «Meno male che c’è il male!». Il male che faccio è l’occasione che, facendomi sentire perdonato di più, mi farà amare di più il Signore; il male che subisco è, a sua volta, l’opportunità di perdonare e amare di più i fratelli. Ma non per questo dobbiamo compiere il male! Facciamo già tanto male «a fin di bene»… Il male mio diventa perdono di Dio, quello dell’altro perdono mio, che mi fa come Dio. Perdonare il fratello non è un dono che a lui faccio, ma che da lui ricevo: perdonando, ricevo lo Spirito del Padre. Perdonando accetto il peccatore come mio fratello, mio gemello, anzi come me stesso, addirittura come mio Signore che si è fatto maledizione e peccato per lui.

La misericordia di Dio supera il prodigio della creazione. Se l’amore di Dio ha creato tutto dal nulla, la sua misericordia salva tutto dal male, peggio del nulla. Il perdono è il più grande dei miracoli. Che Dio elimini il male… lasciandolo, rispettando la nostra libertà, anzi portandolo su di sé e facendone il luogo della salvezza risulta problematico, assurdo.

Il compito di colui che sente la tentazione di chiamarsi «giusto» consiste nel rovesciare il termine. Il «giusto» accetta di identificarsi con i personaggi negativi della Bibbia. È operatore di ingiustizia, si sente in malafede, traditore, rinnegatore.

«Sono uomo, e nulla di umano, anzi di disumano, ritengo a me estraneo. Tutto il male del mondo lo ritrovo nel mio cuore. Il mio nemico sono io. È solo a questo livello che posso vincerlo, o meglio, esserne liberato». Ma dobbiamo anche guardarci dal dire: «Ti ringrazio, o Signore, che non sono come quel fariseo e so battermi il petto!». Un doppio salto mortale, nel vuoto e senza rete. In questo siamo abilissimi!

Occorre anche distinguere bene il senso del peccato dal senso di colpa. Si esce dal peccato attraverso il perdono di Dio. La colpa porta a un senso di fallimento nei propri confronti, che induce a un’espiazione, a un darsi da fare che non redime mai. Se ne può uscire solo con un corretto senso del peccato, in un’esperienza di Dio come amore che perdona.

I peccati degli altri? Certamente possiamo e dobbiamo denunciarli. Ma solo en passant, senza farci paladini dell’osservanza, senza contrapporre «noi, buoni» e «loro, cattivi». Antidoto verso ogni tentazione di intolleranza è la coscienza del nostro peccato, che tutti ci accomuna e ci rende, invece che giudici, fratelli di tutti i perduti e sprovveduti – schiavi e intolleranti compresi.

 

Chiesa gerarchica, i capi sono gli ultimi

La struttura della chiesa sarà diametralmente opposta a quella mondana. La chiesa è monarchica, se s’intende affermare che tutti siamo ordinati al servizio delle necessità e delle miserie dell’ultimo. Ubi minor, maior cessat. È monarchica anche in un altro senso: chi serve l’ultimo, è il primo, perché in quel momento diventa lui stesso l’ultimo. Certamente è sbagliato dire che la struttura della chiesa è monarchica, nel senso di un assolutismo dispotico. La chiesa non è neanche a struttura democratica. La democrazia è un gioco di equilibri che non ha nulla a che fare col vangelo. Questo propone un gioco squilibrato di amore verso il debole.

La chiesa è inconciliabile con i tentativi di instaurare regimi di «cristianità». Non solo i mezzi per imporre e difendere tali regimi sono proprio quelli che Gesù aveva rifiutato come tentazioni diaboliche, ma lo sforzo per dare rilevanza al cristianesimo ne distrugge l’identità. Anzi, la comunità cristiana si dovrebbe preoccupare se non incontra difficoltà da parte dei poteri politici ed economici. Si troverebbe in una pace pericolosa, frutto di patteggiamento col potere mondano. Il pericolo non è l’ostilità del mondo, ma le sue lusinghe, che fanno cadere nella mondanità.

La discriminante per essere chiesa è l’essere con Gesù, non l’essere «con noi» riferito alla chiesa. Il rapporto «io-altri» si risolve nel nome di Gesù: si rinnega il proprio io che vuol primeggiare per lasciar posto al più piccolo che è lui. Così il rapporto «noi-diversi» si risolve ancora in base al suo nome: si rinnega il proprio noi che esclude, per accogliere il diverso, che è lui. Il Padre non esclude da lui nessun figlio. Si esclude da lui solo chi esclude un fratello.

Come per ogni singolo credente, la piena consapevolezza del proprio peccato, l’identificazione con i crocifissori di Gesù e la richiesta di perdono fanno parte essenziale della costituzione della chiesa. Ma la confessione va fatta sui nostri peccati, non su quelli degli altri. È di moda oggi pentirsi dei peccati che altri hanno fatto. Dobbiamo passare dal «pentitismo» dei loro misfatti al «pentimento» dei nostri, battendo il petto nostro e non quello altrui. È abominevole pentirsi dei peccati altrui per giustificare se stessi. Con il pentitismo su crociate, inquisizione, streghe, Galileo, ecc., mascheriamo i peccati attuali, continuando la stessa storia di violenza dei nostri padri; e per di più con l’alibi dei buoni sentimenti!

La chiesa non è una setta di farisei, divisi dal mondo per essere bravi, divisi tra loro per la loro bravura, divisi in sé tra la propria bravura già acquisita e quella non ancora conseguita, divisi infine da Dio, al cui posto hanno messo il proprio essere bravi. È invece un popolo di disgraziati e maledetti, che si sanno graziati e benedetti. Ciò che li unisce a Dio, in sé, con gli altri e col mondo, è il proprio limite accolto come luogo di comunione e dono reciproco, il proprio male accettato come luogo di misericordia e perdono ricevuto e accordato.

Dario Oitana

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