Torino olimpiaca è stata sotto i riflettori per due settimane. La nostra città ha sentito più l’imbarazzo o la vanità? Torino aveva la religione del lavoro. Anche troppo: come ogni religione monologica, era un po’ opprimente, mortificante. Però produceva una città seria e sobria: questi erano i suoi principali caratteri, e forse lo sono ancora, in parte. I contadini venuti in città dalle campagne al tempo dei re, poi, nel Novecento i veneti e i meridionali, predisposti da tradizione o necessità, assimilavano quella religione e quei caratteri. Torino ha inventato l’automobile, con tutta la meccanica dell’indotto: un mestiere della precisione. Pochi sanno che esisteva un vocabolario popolare operaio delle micromisure di precisione: na frisa = mm 0,001, na bërlicà = mm 0,01, un cicinin = mm 0,015, un pluch = mm 0,045, n’idéja = mm 0,1, na flapà = mm 3 ecc. La struttura sociale era signorile-servile: gli Agnelli e gli operai, sovrani e sudditi. Ma proprio qui maturò l’emancipazione operaia, il movimento e la politica operaia. Restavano nelle vie i nomi di re e principi, ma Torino diventava repubblicana. A questa scuola sono venuti gli immigrati italiani e stavano arrivando gli immigrati mediterranei, quando li ha preceduti la trasformazione post-fordista della produzione: i cittadini operai ritornavano sudditi superflui, clientes del signore. Poi la crisi dell’auto, per pigrizia inventiva davanti alla saturazione quantitativa e al danno ecologico. Torino era disorientata. Nuova invenzione: l’immateriale, il turismo, fino a queste olimpiadi, il gioco, la festa. Anche di notte, alla romana, dopo tanto tenere le distanze, anche se qui il leghismo becero e razzista non ha mai davvero attecchito: siamo signori noi, anche i poveri. Torino può produrre immateriale, più che auto e materiale. Ha bellezza naturale, arte a sufficienza, cultura depositata e cultura viva nel dibattito, creatività non di sola schiuma. Ha storia (un bel po’ principesca e militaresca, ma sa ben bene criticarla). Può essere centro di turismo intelligente e colto. Può essere di nuovo capitale – possiamo dirlo, con sobrio orgoglio e speranza – di un contributo civile e politico per la nuova convivenza con gli immigrati, che vuol dire la nuova cittadinanza, nonostante tutti i problemi dell’accoglienza e dell’integrazione. Può essere nuovamente laboratorio, nel rispetto dei caratteri propri delle culture, nella produzione feconda di meticciato culturale e civile. Potrà anche produrre nel campo delle tecnologie immateriali, della comunicazione. Potrà? Vediamo alcune condizioni: che la classe dirigente eletta, ma ancor più il sottobosco dei decisori perché forniti di potenza sociale, smaltiscono la sbornia che oggi li confonde, cioè la cultura dell’apparenza, dell’immediato effimero, dello spreco brillante; che la classe intellettuale pensi a pensare, non ad apparire sulla scena, e che guardi il mondo intero, responsabilmente, da questo angolo di buona osservazione; che le chiese e le religioni presenti si parlino seriamente per ascoltarsi, per immettere nella vita sociale i più autentici valori comuni umani delle loro tradizioni. I torinesi vecchi e nuovi sapranno capire, passata la festa. Perché, se non capiremo, diventeremo un altro supermercato del niente, venduto e comprato.
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Torino 2006. A tutte olimpiadi
Una preoccupazione e un rammarico (Lidia Maggi)
La vodka non fa niente (a.r.)
Aviaria. Aiuto, un’auto! (d.o.)
Agiografia femminile 3. La scelta di Caterina (Elisa Lurgo)
Per il futuro dell’umanità 3. San Matusalemme (Alberto Bosi)
L’altra storia 1. E lo chiamano Risorgimento (Dario Oitana) - in storia
Bestemmia nazionale (d.o.)
Forum “Tutte le valli di Susa”. Torino, come va? (Enrico Peyretti)
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Memoria. Sued Benkhadim (e.p.) |