Nei casi di sequestri (anche la guerra è un grande sequestro, dei combattenti di ambo le parti, delle popolazioni, della politica e delle leggi), siamo presi in una tenaglia estremamente tragica, che è la forza malvagia di quel crimine: se salviamo la vita del sequestrato pagando (in denaro o altri vantaggi) i sequestratori, finanziamo e sosteniamo la violenza, che potrà fare altre vittime; se salviamo il sistema istituzionale, posto a proteggere le vite umane, sacrificando la vita del sequestrato, frustriamo per lui lo scopo stesso dell’istituzione, e anche così premiamo la violenza. Questa seconda soluzione segue il principio di Caifa: «Conviene che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca l’intera nazione» (vangelo di Giovanni 11,50 e 18,14). Questo principio può sembrare dolorosamente giusto, una riduzione del danno quantitativo. Ma implica il danno qualitativo: il sacrificio ingiusto di un innocente, un capro espiatorio, supponendo che sia l’unica via per la salvezza generale. Esclude che ci siano altre vie, quindi non le ricerca. Presuppone che con l’uccidere o il lasciar uccidere uno o pochi si salvi il valore dell’istituzione, che così, invece, non assicura più la vita di tutti. Questa tragedia è irrimediabile? Anche nelle guerre più dure si pratica lo scambio di prigionieri, pure diseguale: una concessione e utilità reciproca, un commercio di vite umane, a parziale rimedio del grande danno, un incrocio tra perdita e guadagno di ciascuna parte, una correzione della logica armata mortale. Senza immaginare soluzioni facili, una via di ricerca per uscire dalla tragedia può essere l’analisi dello scopo dei sequestratori: se è un ricatto economico, conviene trattare, abbassare il prezzo, salvare il sequestrato, possibilmente preparando una trappola senza rischio della sua vita; se è la morte, nessun prezzo di riscatto basterà effettivamente ma occorrerà il tentativo della polizia; se lo scopo è ottenere un riconoscimento, si può concedere tatticamente ciò che, strappato sotto violenza, non ha valore permanente. Se la vita umana è lo scopo dell’istituzione, questa può farsi elastica per realizzare il più possibile il suo scopo. Non fiat iustitia, pereat mundus, ma affinché vi sia giustizia non perisca il mondo. Se la violenza ha il vantaggio di permettersi qualunque mezzo, la giustizia alternativa alla violenza mette in atto tutti i mezzi umani e umanizzanti: la resistenza unitaria che ci obbliga reciprocamente; la parola, per la quale siamo umani; il contratto, che unisce tutti nella convenienza; la ricerca anche di recuperare chi delinque. Come la democrazia, la giustizia si basa sulla fiducia costruttiva verso l’umanità e non su un pessimismo disperato.
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