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 433 - PAROLA DETTA VS PAROLA SCRITTA

 

Gesù e Socrate, martiri dell'oralità

 

Porre a confronto Gesù a Socrate, per meglio comprenderne il pensiero e il ruolo giocato nella formazione della nostra cultura, è pratica antica. Fin dal secondo secolo l'apologeta Giustino, martirizzato a Roma nel 165, suggerisce la possibilità di tale confronto e i Padri della Chiesa, con diversi esiti, si misurano su tale proposta.

Non la considerano avventurosa molti Dottori medioevali, tra cui Tommaso. Ma sono soprattutto gli umanisti del Quattrocento a fare di Gesù e Socrate una Santa Accoppiata (Erasmo), con scandalo di Lutero che, sulle differenze tra queste due figure, elabora una teologia e un'apologetica anticattolica, basata sulla negazione della possibilità di conciliare pensiero greco e pensiero biblico.

D'altronde la disputa, sulla liceità storica e speculativa dell'accostamento di due personaggi tanto originali e tanto irripetibili, non ha mai cessato di dividere storici, filosofi e teologi. Basti pensare al diverso modo in cui i teologi cattolici e quelli protestanti interpretano la condanna e la morte di Socrate e di Gesù. I primi tendono a cogliere nella teoria dell'immortalità dell'anima, che accompagna la morte serena del filosofo, una forte analogia col tema della resurrezione dei corpi, abbinata alla narrazione della tragica morte del Nazareno. I secondi vedono, nella diversa dinamica di tali loro esperienze, le radici di una radicale contrapposizione tra immortalità e resurrezione. La teoria dell'immortalità dell'anima, razionalizzando il dramma della morte, lo banalizzerebbe. La fede nella resurrezione, riconoscendo tutta la potenziale distruttività della morte, valorizzerebbe davvero il potere salvifico della fede e della grazia.

 

La crucialità di un binomio fantastico

Oggi è ormai chiaro che chi cerca parallelismi tra la vita e il pensiero di uomini vissuti in contesti storico-culturali tanto diversi si pone «più sul versante della retorica che su quello della ricerca» (L. Canfora). Ma resta anche evidente che il binomio Gesù–Socrate è «un binomio fantastico» (G. Rodari, Grammatica della fantasia), estremamente produttivo di storie e di riflessioni, tanto per l'uno quanto per l'altro personaggio, e ancor più per l'emblematicità della coppia.

In uno smilzo libretto, oggi reperibile anche come e-book (Gesù e Socrate. Cultura greca e impronta giudaica, Dehoniane 2015), Romano Penna, noto biblista, si misura col rinascere dell'interesse per questo tradizionale “luogo teologico” e letterario. Lo affronta per ribadire che la persona e l'insegnamento di Gesù, per quanto a noi noti grazie a testi scritti nella lingua di Socrate, sono frutto di una formazione culturale e spirituale giudaica ben più che di una supposta e favoleggiata semi-ellenizzazione della Galilea e di un Gesù e discepoli grecizzanti.

Ribadisce l'ebraicità di Gesù per nascita e per cultura, ma al tempo stesso ci sollecita a prendere ancora una volta in esame il fatto, storicamente e criticamente assodato, che Gesù e Socrate sono passati alla storia come “profetici fondatori” della cultura scritta (religiosa, etica e politica, letteraria, artistica, filosofica e scientifica) dell'Occidente, senza avere mai scritto una sola parola e senza che ci sia possibile attingere alla loro persona storica, al loro pensiero, prescindendo dalla mediazione interpretativa di testimoni, diretti o indiretti. Questo benché ambedue fossero in grado di leggere e di scrivere, vivessero in anni in cui la scrittura era già di uso comune negli ambienti colti e nota in quelli incolti; benché si confrontassero alla pari, in discussioni pubbliche, con interlocutori “letterati” e confrontassero il loro dire orale col dire scritto di testi ormai tradizionali e autorevoli come la Torà ebraica e i poemi omerici e post-omerici.

Penna mette in luce tutto ciò nelle prime pagine del suo saggio, dove cita un laboratorio filosofico, Briciole di filosofia, in cui Gesù a Socrate, posti a confronto, risultano avere in comune nove caratteristiche esistenziali e culturali: 1) Gesù e Socrate, pur conoscendo la scrittura, non ne hanno mai fatto uso. Tutto ciò che hanno insegnato lo hanno insegnato valendosi della sola comunicazione orale. 2) La loro vita, la loro morale e il loro pensiero sono giunti a noi attraverso opere scritte da altri sulla base di ricordi diretti e indiretti. 3) Hanno vissuto in povertà a contatto con la gente comune. 4) Non si sono occupati di filosofia o teologia metafisica, ma dell’uomo, del prassi etica, della formazione delle coscienze, dell'educazione alla giustizia e all'amore. 5) Hanno insegnato il rispetto della legge scritta, senza risparmiare critiche all'uso distorto o cieco che ne viene fatto. 6) Per questo sono stati processati e condannati a morte come pericolosi nemici del bene pubblico e… 7) questa morte violenta e ingiusta ha posto termine alla loro vita e dato inizio alla loro fama. 8) Hanno affrontato coraggiosamente questa sorte funesta, fidando nella vita ultraterrena. 9) Ambedue hanno ispirato scuole di pensiero, comunità religiose, capaci di provocare radicali trasformazioni nella società del loro tempo e di influenzare ancor oggi lo sviluppo della civiltà.

 

L'autorità della parola parlata

Riconosco, con Penna e con Ravasi, che molte di queste “convergenze parallele”, mentre evocano qualche consonanza tra la vita dei nostri due eroi e tra alcuni dei problemi da essi affrontati, parimenti segnalano insanabili dissonanze. Per quanto sappiamo del loro insegnamento, così come giunto a noi attraverso gli scritti di sostenitori o avversari, possiamo far nostro il paradosso di Kierkegaard: «La somiglianza fra Cristo e Socrate si trova nella loro dissimiglianza!». Al tempo stesso dobbiamo aggiungerne una decima, che suona: 10) Tanto chi, a suo tempo, ha scritto su Socrate (Platone, Senofonte...), quanto chi ha scritto su Gesù (evangelisti, Paolo…) fonda il prestigio dei rispettivi maestri non sull'autorevolezza di un testo sacro, non sul prestigio della sua stirpe, non su particolari meriti sociali e cariche pubbliche, ma su un diretto e personale accredito divino. Per l'uno l'oracolo dell'Apollo Delfico («Socrate è il più sapiente tra gli ateniesi»); per l'altro la voce del Padre celeste («Questo è il figlio mio prediletto»).

Sappiamo bene che soprattutto Matteo e Luca tentano di accreditare l'autorevolezza di Gesù ricorrendo a citazioni scritturali e costruendogli una genealogia regale, se non addirittura sacerdotale e divina. Sappiamo anche che nulla garantisce la fattualità della teofania evangelica sulle rive del Giordano e la storicità del detto delfico. L'uno e l'altro racconto potrebbero essere frutto dalla tendenza mitizzatrice delle umane culture in tempo di crisi e di profonde trasformazioni. Cionondimeno dobbiamo riconoscere che, a dare valore alla pubblica predicazione di Gesù, fin che è stato in vita, è solo la «parola scesa dal cielo» e che la convinzione che questa parola divina possa essere stata pronunciata a suo riguardo è ciò che mette in grado il Nazareno di parlare con un'autorità diversa da quella degli scribi e dei dottori. Il che vale anche per Socrate, che non ha invocato a giustificazione dell'audace libertà della propria parola, capace di mettere in discussione ogni insegnamento tradizionale, altro titolo che la presenza in lui dell'ispirazione di demoni apollinei, che incessantemente lo spingono alla ricerca della verità.

Il che ci fa ritenere che possa essere stata la convinzione della presenza, alle loro spalle, di una qualche sapienza e potenza superiore all'autorità della tradizione e dell'ordine sociale e culturale costituito, a spingerli a sfidare il sentire comune e l'ordine religioso, etico e politico del proprio tempo. Sfidarlo fino al punto da mettere in gioco la vita stessa, ma anche da dare alla loro parola, alle orecchie proprie e altrui, una forza veritativa superiore alla Torah e al Tempio, una persuasività magisteriale che non ha eguale nelle scuole filosofiche ateniesi.

 

Può la parola dire la verità?

Socrate e Gesù, dunque, pur vivendo in un contesto culturale e sociale che attribuiva ormai alla parola scritta un valore formativo superiore a quello della parola parlata, scelgono di valersi di quest'ultima. Scelgono l'oralità della sapienza poetica e profetica non per conservare l'antico, ma per affrontare il presente con diretto e incisivo spirito di innovazione. Nessuno, tra gli studiosi di questi due grandi padri della nostra cultura, lo ignora, ma pochi si interrogano sulle ragioni di tale scelta. E ancor meno si chiedono se non sia proprio questa la ragione vera delle loro disgrazie giudiziarie e di una condanna tanto severa da diversificarli da ogni altro perseguitato per l'insegnamento divulgato con i propri scritti.

Se oso parlare di Socrate e di Gesù come eroi della parola è, infatti, perché ritengo si debba riconoscere alla loro decisione, esistenzialmente sofferta, di valersi del faccia a faccia, connesso alla pratica dell'oralità, la volontà di restituire alla parola parlata tutto il proprio potere persuasivo e testimoniale, comunicativo e operativo. Così interpretando la loro funzione di maestri e guide educative essi sono costretti, anzi si costringono e costringono i loro interlocutori, a metterci la faccia, a farsi protagonisti di persona di quanto essi insegnano e gli altri apprendono. Il loro rapporto con la veridicità di quel che dicono non può fare a meno dell'apporto della veridicità di ciò che contestualmente fanno e i loro seguaci sono tali solo in quanto vivono ciò che hanno appreso, come libera e convinta “sequela” nell'oggi. Ecco dove sta la pericolosità del loro parlare attivo ed ecco perché affrontano senza tentennamenti la morte a suggello di tutta la loro vita.

In una società che non conosce la scrittura, la parola, oltre che un suono che segnala la presenza propria e/o dell'altro, è un atto che esige recezione e risposta nel presente o nell'immediato futuro. La parola parlata, nella sua pura natura di evento sonoro, è storicamente condizionata, motivata e partecipe delle storiche contingenze e delle storiche trasformazioni sociali e culturali del suo tempo. Comporta coinvolgimento di attore e recettore, relazione tra viventi nel loro specifico qui ed ora. Con la verità tale parola non ha un rapporto di possesso e di definizione. Al più può renderla presente e affidarla all'ascolto e alla messa in opera di chi la fa propria. Può annunciarla come “evangelo”; enunciarla come il fine di una ricerca fatta in dialogo con altre parole, che, come lei, si appellano ad una verità che trascende la storia, e che potremmo considerare la loro meta e, al tempo stesso, la loro ispiratrice.

Non così la parola scritta che, potendo conservarsi nel tempo, essere visivamente percepita, indipendentemente dalla presenza di chicchessia, diventa autonoma da chi l'ha scritta e, potenzialmente, anche da chi fisicamente la legge. Può attraversare inalterata le storiche vicende dei singoli e rendersi magisterialmente autonoma persino dai contesti sociali e culturali in cui ha visto la luce. Può quasi eternizzarsi e trasformare la sua potenziale veridicità in verità assoluta, valida per tutti e per sempre. Può paludare se stessa e chi la impone col blasone dell'infallibilità personale e dell'irreformabilità dottrinale.

A questo punto viene spontaneo chiedersi se, nell'interpretazione della figura storica di Gesù e di Socrate e nei diversi tentativi di individuare il loro pensiero e il senso del loro insegnamento, si sia mai veramente tenuto conto di tutto ciò e se non sia ora di cominciare a farlo.

Aldo Bodrato

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