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 433 - ITALIANI D’ALBANIA, UNA STORIA POCO CONOSCIUTA / 3

 

UN DIFFICILE RIMPATRIO

 

Per molti italiani, la possibilità di poter rientrare anche solo per un breve periodo in Italia era escluso a priori a causa della loro “poca affidabilità” politica, poiché figli o nipoti di alti ufficiali o collaboratori dei governi filofascisti o ancora perché semplicemente considerati “non idonei” senza tante altre spiegazioni. Queste persone non rividero mai più i loro cari e fu compito dei loro figli riannodare, quando era possibile, storie famigliari interrotte mezzo secolo prima.

Chi aveva, invece, la malaugurata idea di tentare di rivolgersi all’ambasciata italiana per trovare protezione o possibilità di rientrare era severamente punito. Di fronte alle sedi diplomatiche sostavano regolarmente agenti in divisa armati di tutto punto, che non permettevano neanche ai pedoni di camminare sul lato adiacente le mura dell’edificio. Nonostante ciò, vi furono delle eccezioni. L’ambasciatore italiano a Tirana Torquato Cardilli dichiarò nel 1992 di aver trovato nell’archivio dell’ambasciata che nel '56 vi era stato un primo fuggevole contatto con una signora italiana che chiedeva aiuto per fuggire. Ma subito dopo fu arrestata: per avere voluto esercitare un sacrosanto diritto quella donna coraggiosa aveva pagato con 20 anni di carcere. Probabilmente all’ambasciatore era sfuggita, o forse nell’archivio dell’ambasciata non era più conservata, un’altra vicenda, avvenuta tre anni prima, riguardante la storia di Carmela Di Marzio, nata a Bari nel 1923, trasferitasi con suo marito, albanese, a Scutari nel 1941. Rimasti in Albania dopo la guerra, convinti della buona fede del nuovo regime, presto si trovarono di fronte a una realtà da incubo. Il marito, Ndoc Radoja, fu arrestato una prima volta nel 1946 e successivamente condannato a morte nel 1953 (la pena venne commutata in 15 anni di carcere) per un furto mai commesso. Di fronte a tale situazione, nello stesso anno, la signora Di Marzo, divenuta nel frattempo madre di un bambino, pensò di chiedere aiuto all’Ambasciata italiana. Il risultato fu il suo arresto immediato. Venne quindi portata negli uffici della Sigurimi dove le venne comunicato che a causa di quel gesto non avrebbe mai più visto l’Italia e i suoi parenti. La terribile promessa fu mantenuta dal regime per gli anni a venire. La signora, infatti, rientrò nel suo paese solo nel 1992, a 79 anni d’età, grazie al progetto C.o.r.a (programma di rimpatrio gestito dal governo italiano nei primi anni ’90), quando ormai quasi tutti i suoi famigliari erano defunti.

Ancora più tragico fu il destino di Maria Iorio, sposatasi a Roma nel 1941 con Sabri Tuci, cittadino albanese, e trasferitasi in Albania nel 1943. Non potendo rientrare in Italia con la famiglia dopo il conflitto, nel 1962, ottenne un permesso per visitare la sua famiglia in Italia. Negli anni successivi, la fatica della vita in Albania e la nostalgia di casa la portarono, nel 1969, a tentare di contattare l’ambasciata a Tirana. Il risultato fu una condanna a dieci anni di campo di lavoro per tradimento e spionaggio a favore di Roma. Le conseguenze del suo gesto ricaddero anche sulla sua famiglia che venne penalizzata nell’ottenimento dell’alloggio e nel futuro educativo dei figli. I membri della famiglia si ritrovarono insieme, anche se solo per poco tempo, in Italia, decenni dopo quell’episodio, a seguito della caduta del regime. Purtroppo gli anni di carcere, la lontananza e il rancore li avevano allontanati per sempre, per cui dopo un breve periodo si separarono definitivamente.

In altri casi l’autorizzazione a partire per un breve viaggio per ritrovare i propri parenti, o ottenere notizie dei propri cari in Italia, poteva essere utilizzato dalle autorità albanesi per spingere un cittadino di origine italiana a diventare un collaboratore dei servizi d’informazione. Eppure non sempre la Sigurimi trovò la disponibilità che si aspettava: la dignità personale spesso non ha prezzo. Questo fu il caso di Eugenio Merlika che, nel 1980 all’età di 36 anni, venne messo dalla Sigurimi di fronte all’alternativa: fare la spia o finire in carcere. Finì in carcere accusato di «aver detto che in Italia si viveva meglio che in Albania, che il paese non era in grado di resistere ad alcun attacco militare straniero, che avevo ascoltato il messaggio natalizio del papa, che avevo letto Dostoevskij e qualche altra diavoleria». Condannato a otto anni di lavori forzati, ne scontò solo due e mezzo grazie a una amnistia. La sua scarcerazione comunque non pose fine al tormento: nel febbraio del 1984 Merlika venne inviato al confino senza che gli venisse data una motivazione.

 

Dopo la caduta del regime

Come avvenne in tutti i paesi del socialismo reale dell’Europa orientale, anche per la società albanese e la nomenclatura del partito, l’abbattimento del muro di Berlino fu il segnale che la storia stava voltando pagina. Il presidente Ramiz Alia aveva tentato di allentare la pressione sulla società e aprire moderatamente l’Albania al mondo, ma ormai era troppo tardi. La tensione nel paese cresceva di giorno in giorno e la paura della repressione da parte della popolazione scemava con il passare del tempo. Nel febbraio 1992, un'anziana e timorosa signora entrò nell'ambasciata italiana di Tirana con in mano il suo vecchio documento d'identità sottratto alle perquisizioni della Sigurimi, e con fare educato si rivolse all’ambasciatore Cardilli affermando: «Sono italiana, aiutatemi». Nelle settimane successive a questi primi contatti si diede avvio a un vero e proprio censimento degli italiani residenti in Albania: Diana Vorpsi ricorda come la registrazione avvenne nel corso del 1991 a casa della nonna a Tirana, che spesso traboccava di gente accorsa da ogni città dell'Albania sull'onda del passaparola. In verità il censimento venne realizzato con modalità artigianali grazie all’impegno degli italiani e delle italiane residenti in Albania che cercarono di raggiungere il maggior numero possibile di connazionali. Evidentemente tale sistema non assicurava il coinvolgimento di tutte le famiglie italiane o italo-albanesi. Infatti diversi nuclei residenti in località lontane o senza legami con la capitale non vennero mai raggiunte, mentre altre, ignare di quello che stava avvenendo in collaborazione con l’ambasciata, intrapresero percorsi di rimpatrio indipendentemente dalle autorità italiane o partirono di propria iniziativa e a proprie spese. Tra queste persone vi era anche Marina Margariti, nipote di Maria Carmela Guido di Lecce. Nata a Durazzo nel 1972, crebbe in un’atmosfera famigliare in cui l’Italia era un riferimento costante. Nel 1991, nel momento in cui il paese precipitò nel caos, lei, come altre migliaia di persone, decise di abbandonare il paese nell’intento di partire per l’Italia. Salì quindi sulla nave mercantile Panama ormeggiata nel porto e presa d’assalto da migliaia di albanesi. Sull’imbarcazione erano in settemila e costrinsero il comandante, che temeva che l’imbarcazione così carica potesse affondare, a lasciare il porto e dirigersi verso la costa pugliese. Questa nave fu una delle prime che giunsero, cariche all’inverosimile, sulle nostre coste. «Eravamo talmente tanti che si faceva a turno per poterci sedere. Non c’era acqua né cibo. Io ero vicino a mio padre che quando mi vide che stavo piangendo mi disse di coprire il viso affinché nessuno potesse vedermi. Sembrava infatti assurdo in quel frangente piangere, eppure io, che ero entusiasta della partenza, non potevo non provare una forte tristezza nel lasciare il paese in cui ero cresciuta. Il viaggio durò tredici ore, la nave viaggiò per tutta la notte e alle otto del mattino finalmente arrivammo a Brindisi. Lì ricevemmo una straordinaria solidarietà da parte della popolazione locale. Con mio padre partimmo poi per Milano e lì chiedemmo asilo politico (come albanesi e non come italiani, ndr). Mia madre arrivò l’anno dopo grazie al programma C.o.r.a».

I rientrati si accorsero presto che i loro problemi non erano finiti. Non bastava essere entrati in Italia e aver lasciato alle spalle un paese in malora e un passato di fatiche e sofferenze. La nuova vecchia patria, tante volte sognata e fantasticata, non si presentò per quello che credevano essa fosse, bensì per quella che era. Un paese disorganizzato, complicato nelle sue leggi e in una fase di crisi e confusione in cui xenofobia e razzismi palesi e latenti si affacciavano minacciosi proprio verso coloro che arrivavano dall’altra parte dello stretto di Otranto. Tutti elementi che non agevolarono l’integrazione nella nuova realtà. Nonostante le promesse fatte all’Ambasciata italiana a Tirana, per i rimpatriati l’Italia non aveva previsto e non provvide negli anni successivi alcun intervento di accompagnamento o di supporto a loro favore. Arrivati sul suolo italiano questi uomini e queste donne vennero lasciati a se stessi nella faticosa ricerca di trovarsi da soli lavoro e abitazione. Furono le famiglie d’origine, quando c’erano o quando potevano, a farsi carico dei loro problemi. In alcuni casi i rimpatriati, senza più legami parentali, dovettero rivolgersi alla Caritas per ottenere un pasto o un posto dove dormire.

Ma vi erano problemi che riguardavano la stessa normativa sui profughi. Arrivati da un passato lontano, da un paese sconosciuto, qual era la loro posizione giuridica? L’esperienza temporalmente più prossima era certamente quella degli italiani provenienti dalla Libia a seguito della loro cacciata da parte di Gheddafi. In quel caso, tali cittadini vennero definiti profughi e quindi in possesso dei requisiti utili per usufruire di alcuni provvedimenti ad hoc in loro favore. Alla luce di tale pregresso normativo si ritenne di adottare anche per questa nuova ondata di profughi la stessa normativa. Purtroppo però vi erano diversi problemi che la legge in questione non aveva previsto: la prima era legata alla cittadinanza dei famigliari del profugo. Questi dovevano essere cittadini italiani. Evidentemente quasi nessuno di coloro che proveniva dall’Albania era in possesso di tale requisito, per cui non potevano godere delle norme previste. Tale situazione venne in parte sanata con un decreto legge del 1994. Purtroppo la norma infatti faceva riferimento solo al cittadino italiano maschio e alla sua famiglia, mentre la gran maggioranza dei rimpatriati dall’Albania erano donne e figli di queste ultime. Per costoro non era previsto nulla. A questa difficoltà il legislatore tentò di porre rimedio riconoscendo la condizione di profugo ad entrambi i sessi. Nonostante ciò, i figli delle donne italiane potevano godere degli stessi benefici previsti dalla normativa a favore dei figli degli maschi solo a condizione di essere nati dopo il 1948, anno dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana.

La questione venne ulteriormente aggravandosi al momento di presentare domanda per usufruire della pensione. Fu solo grazie all’impegno di alcuni rimpatriati che ottennero il riconoscimento della ricostruzione di carriera a partire dal 1955. Tuttavia, ancora una volta, una quota di rientrati rimase esclusa da tale provvedimento. Infatti, tutti coloro che non avevano la cittadinanza italiana e/o erano nati da madre di origine italiana prima del 1948 o ancora avevano anni di lavoro da riscattare prima del ’55, non erano contemplati nel decreto di cui sopra, dovendosi accontentare di una pensione sociale di poco superiore ai 330 euro. Una situazione incomprensibile sotto l’aspetto umano oltre che giuridico contro la quale i tentativi di ricorso fatti dagli interessati, al momento attuale, hanno ottenuto risultati negativi.

William Bonapace

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