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 434 - Sessant'anni fa

 

MOSCA, SUEZ E BUDAPEST: LA SVOLTA DEL 1956

 

Il mondo, all'inizio degli anni Cinquanta del Novecento, si presentava rigidamente diviso in due blocchi.

Da un lato l'impero comunista comprendeva mezza Europa e più della metà dell'Asia. Il tutto si identificava con la personalità di Stalin, indiscutibile capo dal punto di vista ideologico, militare, politico ed economico. Da poco tempo in Cina si era affermato il regime comunista di Mao che, in questa fase iniziale, non era in grado di oscurare la stella dell'Unione Sovietica e di Stalin. Nel corso degli anni successivi venne a mancare un leader carismatico paragonabile a Stalin e l'impero sovietico perse la sua compattezza. Dall'altra parte alcune potenze europee potevano ancora contare su vasti imperi. Soprattutto Francia e Regno Unito; ma anche Belgio, Olanda, Portogallo. Dieci anni dopo il sistema coloniale sarebbe entrato in crisi. Il 1956 rappresenta l'anno decisivo per tali svolte storiche.

 

La morte dell'Immortale

«L'opera di Stalin è immortale. Viva la sua causa invincibile!». Questo il profetico annuncio, a caratteri cubitali, su l'Unità del 7 marzo 1953 (Stalin era morto due giorni prima). Sullo stesso quotidiano viene riportato il discorso di Togliatti al parlamento italiano: «L'animo è oppresso dall'angoscia per la scomparsa dell'Uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell'amico... Giuseppe Stalin è un gigante del pensiero, un gigante dell'azione. Col Suo nome verrà chiamato un secolo intero».

Chi fu il successore di Stalin? O meglio, era possibile un “successore”? Quando si tratta di un potere così assoluto, il passaggio a un successore unico non è accettabile da nessuno dei presunti eredi. Occorreva prima di tutto rimettere gli organi di sicurezza sotto il controllo del partito per rassicurare i successori contro un possibile colpo di mano. Di qui la fucilazione di Beria, pochi mesi dopo la morte di Stalin. Era stato il principale responsabile della polizia segreta. Questa “ultima” esecuzione suggellò la decisione di porre fine agli assassini reciproci.

Nelle cronache ufficiali del XX congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (febbraio 1956), risulta che alcuni delegati abbiano parlato di “errori” di Stalin deprecando l'eccessivo “culto della personalità” nei suoi confronti. Quindi inizia la vicenda “gialla” del rapporto segreto del segretario generale Nikita Chrusciov. “Segreto”? Così sembra sarebbe dovuto essere. Infatti verso la fine del rapporto troviamo queste affermazioni: «Non possiamo lasciare che questo argomento vada in pasto ai giornali... non dovremmo fornire munizioni al nemico; non dovremmo lavare i nostri panni sporchi sotto i suoi occhi». Perché invece il rapporto fu pubblicato dal Dipartimento di Stato americano? Qualche delegato (forse dei partiti comunisti occidentali) violò forse il segreto? Da noi fu pubblicato da Il nostro tempo e ce lo passavamo con aria di cospiratori. In seguito, a poco a poco, nessuno negò la sua autenticità. Che cosa diceva il rapporto? Meraviglia! Non faceva che ripetere quanto da molti anni affermavano tutti i più severi critici dell'Unione Sovietica: Stalin aveva liquidato fisicamente la maggioranza dei suoi antichi compagni di Partito; aveva estorto le confessioni attraverso efferate torture; aveva deportato intere popolazioni; non aveva la più pallida idea della difficile realtà delle popolazioni agricole.

La denuncia di Chrusciov assume talvolta carattere di sfogo contro colui che per decenni era stato costretto (?) a incensare. Come quando ricorda quello che Stalin scriveva di suo pugno, a proposito della sua... modestia: «Stalin non consentì mai che la sua opera fosse contaminata dalla minima ombra di vanità, di presunzione o di auto-adulazione». O quando racconta che «Stalin preparava le operazioni su di un mappamondo. Sì, compagni, egli si serviva di un mappamondo e su di esso segnava la linea del fronte». Così colui che era stato esaltato come un eccelso stratega e il vero vincitore della Seconda Guerra Mondiale, è degradato a un buffone, simile al Grande Dittatore di Chaplin!

 

Più sovietico dei sovietici

Un vento di cambiamento soffiava nell'Urss e nei paesi dell'Est. Il tasso di crescita negli anni Cinquanta era più veloce di quello dei paesi occidentali e Chrusciov credeva che «il socialismo in un futuro prevedibile avrebbe superato la produzione del capitalismo. Questa era anche la convinzione dell'inglese Macmillan» (Hobsbawn, Il secolo breve).

Attraverso la distensione internazionale e la fine del terrore staliniano si poteva giungere al trionfo del socialismo. Migliorarono anche i rapporti con la Jugoslavia di Tito. Eppure, negli anni precedenti, si era assistito, nei paesi dell'Est, a processi farsa nei confronti di esponenti di spicco dei partiti comunisti. Erano stati accusati, tra l'altro, di “titoismo” e dovevano quindi essere riabilitati. Tale revisione, unitamente alla divulgazione del rapporto Chrusciov, portò all'esasperazione i polacchi e gli ungheresi. In Polonia scoppiarono nel giugno 1956 sanguinosi tumulti a Posnań, con un centinaio di morti. In ottobre l'avvento a capo del partito comunista polacco dell'ex deviazionista Gomulka avvenne in modo pacifico, suscitando nella popolazione grandi speranze. In Ungheria l'irrigidimento dei vecchi dirigenti comunisti portò all'insurrezione. I carri armati sovietici intervennero, quindi si ritirarono provvisoriamente. Per pochi giorni Budapest e altre città furono in mano agli insorti.

«Gli ungheresi stanno lavorando notte e giorno per liquidare al più presto i conti in famiglia: arrestano, fucilano, impiccano. I collaborazionisti dei russi vengono impiccati a tutte le ore proprio davanti all’edificio che fu la sede centrale del partito comunista. Nessuno sa dirvi un numero approssimativo dei poliziotti uccisi ieri e oggi. Devono però essere molti se tenete presente che i cadaveri non restano a lungo sui marciapiedi. Dopo una mezz’ora di esposizione arrivano i carri della nettezza urbana. È difficile vedere un popolo più gentile, cordiale e sorridente come quello ungherese. Questo stesso popolo lo vedete in questi giorni incantato, vorrei dire con un'aria di beatitudine, di fronte all'orrendo spettacolo di terrore, di sangue  e di morte. Hanno dovuto stendere massicci cordoni di polizia e di soldati per contenere l’enorme folla che si assiepa anche nelle ore notturne per assistere alle impiccagioni e per vedere in faccia i mortali nemici con la lingua che pende fuori dalla bocca» (La Stampa, 2/11/1956).

Di fronte a queste macabre descrizioni, gli italiani anticomunisti (che erano la maggioranza) non si indignarono: «chi la fa l'aspetti». Così come, più di undici anni prima, gli antifascisti non si indignarono dinanzi all'esposizione di cadaveri a piazzale Loreto. Forse ora la reazione sarebbe diversa. Allora non ci eravamo ancora purificati dalla carica di violenza lasciataci dalla guerra. Pietà a senso unico. I comunisti italiani invece si dicevano sconvolti dinanzi allo spettacolo di «operai comunisti impiccati per i piedi ai lampioni dei corsi di Budapest».

Il 4 novembre i carri armati sovietici intervennero massicciamente. Dato che una parte dell'esercito ungherese si era schierato con gli insorti, ne derivò una vera guerra Urss-Ungheria, l'unica vera guerra di aggressione scoppiata in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Togliatti non esitò a mostrarsi come “il primo della classe”: «È mia opinione che una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa – per giunta invitata all'intervento per una seconda volta – non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo, in nome della solidarietà che deve unire nella difesa della civiltà tutti i popoli, ma prima di tutto quelli che già si sono posti sulla via del socialismo» (l'Unità, 6/11/1956). Ma, otto anni più tardi, lo stesso Togliatti, nel cosiddetto memoriale di Yalta, scritto poco prima della sua morte, auspicava, per l'Urss e gli altri paesi socialisti, «un superamento del regime di limitazione e di soppressione delle libertà democratiche e personali».

Anche negli stessi “paesi socialisti”, dopo il 1956, «la società recupera un piccolo spazio di autonomia rispetto allo Stato. Purché non manifesti ostilità politica verso il partito, non è costretta a credere in ciò che il partito dice o ad applaudire a ciò che fa» (Furet, Il passato di un'illusione).

 

La ridicola fine del colonialismo

Negli stessi drammatici giorni in cui si consumava la tragedia ungherese, l'equilibrio internazionale veniva scosso dall'iniziativa di Israele di occupare il Sinai e dal lancio di paracadutisti inglesi e francesi per occupare il canale di Suez, da qualche mese nazionalizzato dall'Egitto di Nasser. L'operazione fu revocata su pressione degli Usa e dell'Onu, mentre l'Urss minacciava l'invio di un forte contingente di suoi “volontari”. Londra, Parigi e Israele avevano sperato di potere rovesciare il regime di Nasser.  Al contrario l'Egitto ne uscì rafforzato e spinto ad una politica di vicinanza con l'Urss. Fu un conflitto ricordato per vari motivi: per la prima volta Usa e Urss si accordarono per garantire la pace; fu l'ultima invasione militare fatta dalla Gran Bretagna senza l'accordo con gli Stati Uniti, segnando secondo molti la fine dell'impero britannico; allo stesso modo, fu l'ultima invasione militare della Francia e quindi l'ultimo atto dell'impero coloniale francese; e fu infine una delle poche volte in cui gli Stati Uniti furono in disaccordo con le politiche di Israele. L'annuncio, al parlamento inglese, del ritiro delle truppe da Suez suscitò, da parte dei laburisti, «una lunga, fragorosa, quasi smodata risata». E quando il ministro pretese «di avere inflitto all'Urss una disfatta, una risata enorme si levò dai banchi laburisti e i conservatori dovettero chiudersi in una silenziosa umiliazione» (La Stampa, 4/12/1956). Anche in seguito a questo clamoroso fallimento, divenne chiaro che il colonialismo ufficiale doveva essere liquidato. In pochi anni gran parte dei paesi africani ottenne l'indipendenza. Solo il Portogallo mantenne le sue colonie fino al 1974. «La sua economia metropolitana, arretrata e politicamente isolata, non gli permetteva di adottare la soluzione neocolonialista. I grandi imperi invece decisero che la concessione dell'indipendenza formale e il mantenimento di fatto della dipendenza economica e culturale erano di fatto preferibili a lunghe lotte» (Hobsbawn, op. cit.). Una risata seppellì il vecchio colonialismo. I progressisti di tutto il mondo si illudevano. Nei paesi ex coloniali i popoli esultavano per la raggiunta libertà. Invece si stava rafforzando il dominio, molto più “serio” ed efficace, del neocolonialismo. 

Dario Oitana

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