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Gerusalemme, una storia fatta di storie

L'editoriale di novembre su Gerusalemme, Unesco, Israele e Palestina ha lasciato perplessi molti lettori, che si sono chiesti come sia possibile sostenere che la storia riconosce a Gerusalemme un ruolo culturale e spirituale fondamentale per ebrei, cristiani e musulmani, ma non è in grado di dimostrare che essa può svolgere tale ruolo solo in quanto capitale di uno stato unitario e sovrano, espressione di un popolo altrettanto unico e autonomo. Tenteremo di chiarirlo, prendendo spunto anche da «Origami», l'inserto settimanale de «La Stampa» del 27 ottobre. Esso infatti, all'insegna dell'interrogativo «Ma che storia ci raccontiamo?», si apre con questa singolare affermazione: «Sta cambiando lo studio e l'uso della storia, ma resta il vizio di distorcere i fatti del passato per prevalere nei conflitti del presente». Affermazione che, come vedremo, ci riguarda.

 

Conquistare, perdere, possedere

Senza parlare di vizi e di falsi, non potendo qui ripetere quanto già detto sulle complicate vicende storiche di questa città, rimandiamo il lettore al nostro editoriale e ne riprendiamo solo la conclusione: «Sono senza storico fondamento tanto la rivendicazione degli Israeliani di avere lo storico diritto di fare dell'intera Gerusalemme la propria capitale, quanto quella dei Palestinesi di ottenere, allo stesso titolo, il pieno controllo della città vecchia, “Al Quds”».

Si apre a questo punto una questione che va affrontata a partire da considerazioni storico-culturali che vanno al di là dei dati della storia politica. Una questione che riguarda la funzione religiosa e ideale su cui si fonda l'identità di un popolo e che, come spesso mostra la storia, non esige necessariamente la sovrapposizione tra centro culturale e cultuale di un popolo e centro amministrativo e politico di un'unica nazione. Non è negabile, infatti, che storia e preistoria sono sature di tracce che testimoniano la conquista della terra di un popolo da parte di un altro con relativi asservimenti, schiavizzazioni, esili e stermini. Ed è innegabile che ogni tentativo di riportare i popoli cacciati alle loro terre non può che comportare nuove guerre, nuove violenze e ingiustizie.

 

Diritti identitari e guerre giuste

È questa la situazione in cui ci troviamo da più di cinquant'anni per il rifiuto, opposto da Ebrei e Palestinesi alla proposta dell'Onu (1947) di risolvere i loro conflitti territoriali, dividendo l'intera regione in due stati con due capitali diverse da Gerusalemme. Rifiuto opposto in nome del ruolo identitario fatto giocare a questa “Città Santa”, e ai suoi “Settanta Nomi” dal rispettivo “Libro sacro” e dalla tradizione che ne ha mantenuta viva la voce.

Eppure oggi tutti sappiano che la Bibbia ebraico-cristiana e il Corano sono libri maestri di spiritualità e di moralità; che ci mostrano il cammino percorso dagli uomini alla ricerca di Dio, di se stessi, del senso e della giustizia; che ci informano sulle visioni culturali, in larga parte comuni, dei popoli che vivevano sulle terre mediterranee dell'Africa e dell'Europa tra il 1000 a. C. e il 1000 d. C.

Ecco perché, come eredi del pensiero ebraico-cristiano, oltre che greco-latino, dobbiamo suggerire qualche spunto di riflessione sul ruolo spirituale che a questa città è attribuito nei libri che compongono la Bibbia. Non senza sottolineare, se ancora è necessario, che la valenza simbolica della sua storia porta con sé una potenziale e diversificata carica ideologica, capace di generare conflitti sanguinosi, non solo fra tradizioni concorrenti, ma anche tra correnti di una stessa tradizione e tra individui della stessa corrente, col rischio di coinvolgere il mondo intero.

 

Città storica e metastorica

Ma veniamo al dunque. Molti teologi e intellettuali ebrei e cristiani, che continuano a leggere la Bibbia a prescindere da ogni attenzione critica, storica e filologica, ritengono che Gerusalemme entri nella storia già con l'aureola della “Città Santa”, destinata al ruolo di eterno sigillo del compimento della promessa fatta da Dio ad Abramo. Questo nonostante i primi libri biblici che ci parlano di Gerusalemme siano Giudici 1,7 e IISamuele 5,6-10, che ci informano che, sottratta ai Gebusei dai Giudei, essa è fortificata da Davide e trasformata in capitale del regno unificato delle dodici tribù di Israele (X sec. a. C.). Capitale resa da Salomone sede templare unica del suo unico Dio, salvo lasciare nel IX secolo a Samaria la guida delle dieci tribù di Israele, per ridursi a sede del Regno di Giuda e Beniamino.

Altri teologi e storici ebrei e cristiani, più attenti agli esiti della ricerca archeologica ed esegetica, riconoscono che la promessa indefettibile ai Patriarchi, tipica di alcuni capitoli della Genesi, e quella condizionata al buon uso della terra e alla rispetto del Decalogo, presente nei quattro libri dedicati alla saga mosaica, sono biblicamente attestate. Si chiedono, però, se la prima prevalga sulla seconda a titolo di anzianità, o se la seconda non debba essere considerata come esplicitazione di un sottaciuto rimando della prima alla futura autorità della Legge mosaica.

Di questa dialettica si può trovare traccia in altri parti della Bibbia. In linea generale si può dire che nei libri storici (I e II Samuele, I-II Re), la promessa condizionata fa da padrona. Già in alcuni profeti pre-esilici, come Amos e Osea, che si rivolgono al regno di Israele con capitale Samaria, o come il Primo-Isaia e Michea, che agiscono nel Regno di Giuda, essa ancora prevale, ma non massicciamente. In quelli esilici (Geremia, Ezechiele, Deutero-Isaia) questo primato della promessa condizionata si attenua ancora. Essi per tener vive le speranze dei profughi rinunciano alla ricaduta delle colpe dei padri sui figli e proclamano che le clausole minacciose del “patto” non sono finalizzate alla punizione dei peccatori, ma alla loro conversione. Il che nei postesilici trasforma il difficile ritorno storico a Gerusalemme dei deportati, con la faticata ricostruzione delle sue mura e del suo tempio, nella simbolica restaurazione della capitale del Regno davidico di Giuda e di Israele. Restaurazione intesa, nei libri storici di Esdra e Neemia e in quello profetico-apocalittico di Malachia, come terra esclusiva di ebrei fedelissimi e genealogicamente puri. Intesa nei canti del Trito-Isaia e del semi-apocalittico Zaccaria come «regno universale di Dio», nei vangeli come «Regno di Dio» e nell'Apocalisse come «Gerusalemme celeste».

 

Attualità di antiche questioni

Affrontare un problema politico e culturale di così urgente e tragica attualità col rimando alle sue antiche radici può sembrare anacronistico e sterile esercizio intellettuale. Di fatto però questa vana fatica non manca di ragioni storiche, culturali e spirituali, come può aiutarci a capire il già citato settimanale «Origami». Qui il compito di aiutare i lettori a capire perché l'irrisolto problema dell'appartenenza politica e culturale di Gerusalemme a Ebrei, Islamici o Cristiani, continui a rimescolare sul tavolo della diplomazia sempre le stesse usuratissime carte, è affidato a due stimati giornalisti, cultori di storia antica e contemporanea, Paolo Mieli e David Bidussa.

Limitandoci a evidenziare il nucleo centrale dell'intervento di David Bidussa («Le identità non si costruiscono sulla base di falsi miti») e di Paolo Mieli («Tragico errore falsificare il passato per giustificare i conflitti del presente»), cogliamo subito dai titoli che tali interventi affrontano il tema del nostro editoriale in prospettiva metodologica concorde. Ma notiamo anche che le loro conclusioni, per essere equilibrate e non contraddittorie, dovrebbero fare ancora un passo. Dovrebbero includere nella propria analisi, oltre ai più o meno attendibili diritti storici e identitari degli Israeliani, i più o meno attendibili diritti storici e identitari dei Palestinesi, presenti su quelle terre o da esse cacciati a seguito del recente e massiccio arrivo di ebrei provenienti dalla diaspora.

«La risoluzione dell’Unesco su Gerusalemme, - osserva Bidussa, - adottata lo scorso 18 ottobre, usando solo il nome islamico per riferirsi a Gerusalemme vecchia (Al Quds) e ignorando completamente il termine ebraico Monte del Tempio, fa una scelta di lettura che riguarda una parte del tempo presente, ma che di fatto riordina il passato, lo rilegge, e vieta di misurarcisi. …  L’identità culturale degli ebrei, indipendentemente che siano israeliani o no, ha un rapporto diretto con quello spazio. In quel luogo eliminare il nome o tradurlo in un’altra lingua, significa non riconoscere un legame tra il presente e un passato. Quello spazio geografico nella cultura ebraica, infatti, ... fa parte della propria storia».

Scrive Mieli nello stesso settimanale: «La guerra contro il passato … si propone di frantumare la storia, smontarne la complessità, così da rendere gli accadimenti dei tempi remoti adattabili alle esigenze del presente … provocando danni irreparabili». Ed esemplifica: «Dopo la guerra dei sei giorni (1967) iniziano nelle terre occupate da Israele le ricerche archeologiche per indagare sul passato del popolo di Israele e verificare quanto esso coincida col racconto della Bibbia. Le delusioni furono molte». E passa la parola a rinomati archeologi dell'Università di Tel Aviv (Gerson, Herzog, Finkelstein). Questi fanno osservare che da tempo si sapeva che Gerico e le altre importanti città di Canaan non potevano essere state conquistate e distrutte da Giosuè con l'aiuto di Dio, perché l'intera regione si trovava allora sotto la dominazione egizia e perché mancano tracce archeologiche che attestino la presenza di grandi città fortificate e distrutte in occasione di una conquista armata. Aggiungono che anche i più recenti scavi nella Gerusalemme vecchia rimettono in discussione l'intero impianto storico della narrazione biblica sul Regno di Davide e di Salomone. «La zona è stata quasi tutta scavata e gli scavi hanno dato gran quantità di materiali precedenti e successivi al regno unito di Davide e Salomone. Di quel periodo non è stato trovato che qualche pezzetto di coccio. Da ciò si deduce che nel X secolo a. C. Gerusalemme era poco più che un villaggio senza tempio e corte regale e che la costruzione storiografica biblica è immaginaria». Con Finkelstein e Ricoeur io direi «ideologicamente orientata a fini politici e religiosi».

 

Consequenze esegetiche e teologiche

Ora tutto ciò può aiutarci a capire i nodi del problema storico, politico, culturale e religioso che rendono particolarmente difficile la concreta soluzione del conflitto arabo-israeliano, ma non autorizza nessuno a rifiutare a oltranza ogni accordo che garantisca la pace senza contestualmente garantire l'equilibrio di una perfetta giustizia. Le contingenze storiche e la sproporzione delle forze in campo obbligano a volte a piegarsi al male minore. Il che non ci esenta dal prendere atto che ogni soluzione ingiusta, per quanto inevitabile, resta ingiusta.

Nel nostro caso poi ciò obbliga a constatare che molti dei richiami biblici alla storia non hanno vere basi storiche, in quanto sono frutto di una ricostruzione ideologica della memoria del proprio passato, che può renderla veicolo di un messaggio spirituale e/o politico, finalizzato ad aprire la fattualità del presente e del futuro all'auto-trascendenza, o chiuderlo in una cupa e omicida auto-dogmatizzazione. Il che, tra l'altro, esige che esegeti, teologi e ogni comunità di credenti riprenda in mano la Bibbia per leggerla, studiarla e interpretarla con fedeltà al testo, alla sua collocazione storica, culturale e letteraria, col suo necessario adeguamento ai metodi veritativi, ai valori etici, alle esigenze operative con cui ognuno personalmente e socialmente tenta di dare forma alla sua vita.

Aldo Bodrato

 

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