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 342 - UNO SPETTACOLO A TUNISI

 

UN GRIDO DI RABBIA CONTRO IL FONDAMENTALISMO

“Khamsoun” ovvero cinquant’anni della storia della Tunisia moderna e indipendente, una storia non scritta dagli storici o dai politici ma da una artista di sinistra che non ha potuto rimanere zitta di fronte a una Tunisia che si islamizza, che si copre i cappelli, che rinnega la sua identità multiculturale e aperta.

Il testo di Jalila Baccar, messo in scena da Fadhel Jaïbi, è forte, diretto e a volte brusco nell’esprimere tutta la rabbia di una generazione di militanti della sinistra che dopo aver dolorosamente subito la repressione negli anni ‘70 e ‘80 per i loro ideali si trova oggi a vivere in una realtà di oscurantismo religioso, dove regnano solo le leggi d’ordine divino.

L’opera è un grido di collera per denunciare questa nuova situazione politica, sociale e culturale in cui una grande parte dei tunisini non si riconosce. Ma non solo, è anche un invito al risveglio contro il fondamentalismo che guadagna terreno giorno dopo giorno mettendo a rischio non solamente il presente ma soprattutto il futuro della Tunisia, considerata sino ad oggi esempio di apertura e di stabilità. In altri termini Jalila Baccar vuole dirci che il pericolo non è più lontano delle nostre terre, cioè in Medio Oriente o in Afghanistan, ma si trova oggi sul nostro territorio, nel nostro quotidiano, e sta aspettando una buona occasione per manifestarsi. L’artista aveva visto giusto, la fine del 2006 ha confermato le sue previsioni.

 

Fare il processo del passato per capire il presente

Tutto inizia, sul palco, nel venerdì 11 novembre 2005 quando una professoressa si fa esplodere nel cortile del suo liceo provocando una situazione di terrore, di inquietudine, di grande disordine. Tutto un Paese si ritrova sconvolto e cerca di capire come e perché una cosa del genere è successa in un territorio noto per la sua sicurezza e stabilità. Inizia quindi una fase interminabile d’interrogatori a tutti quelli che avevano un rapporto vicino o lontano con la professoressa, a cominciare dalle sue due amiche, anche loro professoresse, che abitavano con lei. Una di loro, “Amal” (che significa speranza), è figlia di una coppia di militanti della sinistra. Dopo un soggiorno di studio in Francia, durante il quale ha avuto l’opportunità di frequentare un ambiente fondamentalista, torna totalmente trasformata, passando da un marxismo puro a un islamismo duro, duro a tal punto che non è più riconoscibile neanche dai suoi stessi genitori. I suoi, che avevano subito nel passato tutti i generi di tortura e di sacrifici per i loro idee, e avevano educato la figlia secondo principi della sinistra, come la loro unica rivincita sulla repressione, vedono così la loro speranza sparire, perdersi, annegare nel nuovo islamismo che devasta tutto. Lo choc è talmente forte che il padre Youssef crolla e si rassegna al cancro che lo ha colpito nella gola, impedendogli di esprimersi. La madre Mériem (ruolo interpretato dalla stessa Jalila Baccar) viene a trovarsi in una situazione di doloroso dilemma tra la figlia convertita e il marito ammalato e morente. Ma per lei bisogna prima di tutto tornare al passato, scortecciarlo per poi ricomporlo pezzo per pezzo per poter capire «perché si è arrivati lì» e tirare i conti.

Un giorno incontra Gaddour, l’aguzzino di suo marito quando era prigioniero politico, diventato ormai un vecchio uomo e sempre ubriaco. Questo incontro è l’occasione che Mériem aspettava per fare il processo al passato. Prima le viene in mente l’idea di vendicarsi su questo uomo uccidendolo, poi, ripensandoci, decide di colpevolizzarlo facendogli confessare i suoi atti di barbarie, di tortura, di estrema violenza e crudeltà nel reprimere i militanti di sinistra. Mériem arriva sino al punto di portare Gaddour, fermo sulla sua posizione di poliziotto obbediente agli ordini del regime, a vedere il risultato della sua barbarie, cioè a vedere Youssef all’ospedale. Youssef, che simboleggia una sinistra abbattuta, rassegnata, colpita a morte, a tal punto che quando va una giovane ragazza a vistarlo per convincerlo a riprendere forza per orientare la nuova generazione, che si trova senza valori ed esposta al pericolo islamico dopo la caduta della sinistra, lui non le risponde perché è ormai convinto  di non poter fare niente per cambiare la realtà. Al contrario la moglie Mériem che non può abbandonare la partita vedendo la figlia  vittima di un islam politico che vuole distruggere tutti i principi della civiltà sostituendoli con regole divine indiscutibili. Un islam, rappresentato dai fondamentalisti come unica via d’uscita da questo mondo di ineguaglianza, di violenza, di discriminazione e soprattutto di umiliazione per i musulmani (in Irak, in Afganistan e in Medio Oriente); un islam che pretende di avere solo lui la chiave della salvezza , della rinascita e della gloria storica dell’ “Umma”, con  il ritorno alle fonti della Chariaa e il rilancio della guerra santa “Jihad”. Le prime vittime di questa strategia sono ovviamente i giovani che sono alla ricerca di modelli, in una scena politica vuota e in un contesto di mondializzazione che cerca di sradicare la loro cultura, davanti all’assoluta passività degli stati arabi.

 

Giovani in galera: la colpa è di chi?

Il lavoro teatrale propone quindi al pubblico il cammino di questi giovani verso il rifiuto della vita e dei valori moderni cercando un modo di vivere più puro e più vero. Il regista insiste molto sul far vedere le manifestazioni di un tale cambiamento ideologico, sia nel vestito che nel nuovo modo di vivere. Infatti si ripetono le scene di purificazione, di preghiera, di messa e di rimessa del velo, come se la religione si riducesse a queste pratiche. Colpisce anche la scenografia molto scarna che cerca di riprodurre la vita austera imposta dalla nuova conversione. Il tutto crea un’atmosfera oscura, segreta, chiusa  che propizia per un atto di terrore, di distruzione. E l’atto infine si concretizza in quest’esplosione che trascina la banda di amici negli interminabili interrogatori in posti di polizia, interrogatori accompagnati da insulti e maltrattamenti. Tutto riporta alla memoria gli stessi metodi di tortura usati nel passato con altri oppositori. Questi stessi metodi che sono stati all’origine della crescita dell’islamismo oggi.

L’opera non risparmia nessuno e accusa tutti: regime autoritario, fondamentalismo crescente, sinistra rassegnata, società civile passiva, cittadini indifferenti e una Europa chiusa dentro le sue frontiere che lascia soli i suoi “vicini” davanti al loro terribile destino. Ma accanto alla rabbia e alla condanna c’è anche  una nota di speranza per una presa di coscienza  e una forte reazione contro il pericolo islamico. Questa presa di coscienza la si avverte nel finale quando Amal si rende conto, in carcere, di aver sbagliato strada «credendo di sapere tutto e non sapeva niente».

Jelila Baccar e Fadhel Jaïbi hanno saputo porre il problema del fondamentalismo, andando a cercarne le origini nella storia profonda della Tunisia, quella storia nascosta, non dichiarata, e chiedendo i conti al passato per poter perdonare e guardare al futuro. Il tutto in un linguaggio semplice, vicino della nostra realtà di tutti i giorni.

I due artisti hanno voluto creare un’opera teatrale scritta dai tunisini per i tunisini.

Sfida riuscita. Messaggio ricevuto!

Hanene Zbiss

 

(da Il Corriere di Tunisi-Euromediterraneo, n. 644 – 21 [nuova serie], aprile 2007)

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