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 445 - Torino 1917

 

Una città contro la guerra

 

Non mi risulta, salvo errore, che sia stato ricordato, almeno a Torino, in questo agosto 2017, il centenario dell'ampia protesta torinese contro la guerra, la più grande in Italia, di valore politico, nell'agosto 1917. Raccolgo gli elementi storici essenziali sui fatti torinesi da Ercole Ongaro, NO alla Grande Guerra 1915-1918, I libri di Emil, Bologna 2015, pp. 157-168, che cita anche studi precedenti di Alberto Monticone, Domenico Zuccàro, Paolo Spriano, Luigi Ambrosoli.

La manifestazione scoppiò il 22 agosto per la carenza di pane, già dal 9 e dall'11 del mese. Mancava la farina nelle panetterie. Ma la protesta continuò e crebbe anche dopo che, la sera del 22, arrivarono scorte di farina. Diventò una rivolta sanguinosa. I resoconti danno cifre da 38 a 500 morti e 200 feriti tra i manifestanti, e tre fra i militari comandati a tenere l'ordine. Queste cifre dicono che, se non fu una rivolta nonviolenta, certamente fu più violentata che violenta.

Agitazioni operaie, specialmente di donne, erano cominciate nel marzo di quell'anno. Il partito socialista torinese, dall'anno precedente guidato dall'ala più moderata, era per sabotare la guerra e fare la pace a ogni costo. Soffiavano venti di rivoluzione, per l'esempio dei fatti di Russia in quei mesi. Il 13 agosto passarono a Torino e fecero un comizio alcuni rappresentanti dei Soviet russi. C'era già tra i giovani socialisti Antonio Gramsci che cercava una via non retorica di preparazione per un vero cambiamento. Il dirigente rivoluzionario Barberis, il 27 maggio, aveva invitato gli operai a venire ai comizi «con delle buone rivoltelle per attaccare la forza pubblica» e a non produrre più armi e munizioni per la guerra. Ettore Ercole, della federazione ferrovieri, disse che era meglio «perdere 500 uomini per la causa popolare che lasciarne sacrificare 10.000 in guerra nell'interesse della borghesia». L'8 giugno un ispettore di P.S. riferisce al ministero che l'opinione pubblica è avversa alla guerra in tutte le classi.

Da giovedì 23 agosto fu sciopero generale, devastazioni, l'ordine pubblico affidato all'esercito. La protesta si estende nella cintura industriale. Cadono le prime vittime, colpite anche da spari provenienti da appartamenti civili. Saccheggiati e incendiati convento e chiesa di San Bernardino (oggi in via Di Nanni) e della Madonna della Pace. Attaccate due caserme. Gli scontri più sanguinosi in via Garibaldi, piazza Statuto, corso Vercelli.

Venerdì 24 il partito socialista e la Camera del lavoro approvano e cercano di assumere la direzione dei moti, raccomandando di evitare inutili violenze che possono limitare il rifornimenti di viveri. Ancora scontri sanguinosi, dimostranti con armi da fuoco e bombe a mano. Assalto al commissariato P.S. di Ponte Mosca. Le vittime erano già 24.

Sabato 25, stabilimenti chiusi e aspri scontri. Gli insorti non riescono a ottenere la solidarietà dei soldati perché li assaltano per disarmarli e quelli reagiscono. Arresti di capi socialisti e sindacalisti. I deputati socialisti invitano a riprendere il lavoro e scrivono che il moto proletario è avvertimento al governo di far cessare la guerra − «strage inutile e disumana» (l'espressione cita, senza nominare Benedetto XV, le  parole famose, in ordine inverso, − «inutile strage» − pronunciate dal papa il primo giorno dello stesso mese di agosto) − e indica ai proletari la necessità di «una più intensa e decisiva preparazione». L'autorità militare vieta la diffusione del manifesto. Resta l'invito a tornare al lavoro. Lunedì 27 la maggioranza dei lavoratori rientra un fabbrica, nel pomeriggio anche parte delle lavoratrici.

I moti di Torino, accesi da una causa economica, diventano chiara e forte protesta politica spontanea e popolare contro la guerra, azione non improvvisata, ma preparata dalla opposizione socialista fin dall'agosto 1914 e dalla predicazione dell'ala intransigente nel 1917.

Nel luglio 1918 il tribunale militare condanna da tre a sei anni di reclusione sei dei tredici imputati (12 dirigenti socialisti e un anarchico). La sentenza non considera la rivolta per il pane, ma solo il significato politico dei fatti: istigazione dei lavoratori a sabotare la produzione bellica, istigazione dei soldati a disertare, diminuzione della potenzialità dell'esercito e facilitazione del nemico. In seguito, la letteratura comunista interpreta i fatti come vera rivoluzione proletaria, fallita solo per mancanza di direzione.

Enrico Peyretti

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