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ICO LOEWENTHAL, PARTIGIANO, EBREO E «TEDESCO»

 

«Hoch die Haende, bitte», «mani in alto, prego». L’ordine è secco ma educato. Lo dà Enrico Loewenthal, Ico, comandante partigiano diciottenne in Val d’Aosta: i due tedeschi, Ludwig Seiwald e Arthur Wissner, si arrendono senza storie. Siamo nel marzo del 1945.

Diverranno suoi amici. In particolare con il primo, tornata la pace, ci fu un rapporto che durò molti anni. Rievocando quel giorno, Ludwig, veterano trentenne che si era arreso a un ragazzino, disse: «Ci hai trattati da uomini… noi eravamo abituati a sparare prima e a dare il mani in alto, dopo… siamo rimasti così stupefatti del tuo “per favore” che ci siamo resi conto che eri un combattente e anche ben educato e così ti abbiamo creduto».

Il padre di Enrico era nato in Germania nella piccola città di Hechingen, una cinquantina di chilometri a sud di Stoccarda, ma si era trasferito a Torino nel 1900, alle dipendenze di una ditta che importava macchinari tedeschi. Aveva sposato un’italiana. I figli parlavano tedesco col padre e italiano con la madre: un perfetto bilinguismo fino all’autunno del 1934 (Enrico aveva otto anni) quando «papà, seduto a tavola disse che in Germania era andato al potere un certo Hitler e che essendo costui nemico degli ebrei aveva intrapreso una serie di azioni legislative contro di loro, tra cui l’allontanamento forzato di tutti gli ebrei dalle scuole tedesche». Enrico lasciò quindi i suoi compagni della scuola tedesca di Torino e fu accolto nella scuola ebraica. Da allora in casa Loewenthal non si parlò più tedesco, né si frequentarono più gli amici tedeschi che, del resto, si erano già allontanati di propria iniziativa. Lo zio Alfred e sua moglie Minna, rimasti ad Hechingen, furono arrestati con la scusa di un trasferimento ad est dove avrebbero potuto iniziare una nuova vita. In realtà, deportati nella Lettonia occupata dai tedeschi e governata dai collaborazionisti locali, tra il dicembre 1941 e il gennaio 1942, morirono di fame e di freddo in un campo nei pressi di Riga. Resta il sospetto mai dissolto che Arthur Wissner, cui il comandante Ico salvò la vita nel 1945, insieme a Seiwald, facendoli fuggire in Svizzera, avesse lavorato negli stessi uffici di polizia che eseguirono la retata degli ebrei di Hechingen…

Nei primi anni Trenta la vita di Ico era quella di un ragazzino che cresceva in un’agiata famiglia borghese. Auto con autista, prime al Regio, molte amicizie nella comunità tedesca di Torino e gite in montagna: «in primavera andavamo a cercare i narcisi». «Eravamo in buona sostanza una famiglia di bravi italiani di religione ebraica». «Cittadini italiani che vivevano onestamente ed educatamente sotto una dittatura». In pochi anni la situazione si rovescia in difficoltà e poi in tragedia. Ma già nel 1936 gli ebrei diventano sorvegliati speciali e non di rado infiltrati e spie partecipano alle funzioni in sinagoga. Le leggi razziali del 1938 comportano al padre di Enrico la perdita della cittadinanza italiana. Il 14 giugno 1939, infatti, la città di Torino-Divisione stato civile comunica al Signor Loewenthal Edoardo che «per ogni effetto di legge Vi è stata revocata la cittadinanza italiana, quale appartenente alla razza ebraica». Nel 1944, durante la Repubblica di Salò, un certo Mueller, conoscente della famiglia da molti anni, li tradisce rivelando al comando tedesco la sede della ditta e consentendone il saccheggio. «I mobili degli uffici andarono ad arredare i vari comandi di Torino e Milano e la carta intestata finì sui banchetti di Porta Palazzo».

 

Dalla famiglia borghese alle montagne

La fuga da Torino in Val di Lanzo, subito dopo l’8 settembre, con i falsi documenti forniti da un alto funzionario del Comune, per cui Enrico Loewenthal diventa Enrico Lamberti. I primi contatti con altri giovani antifascisti simpatizzanti per Giustizia e Libertà e l’entrata nella Resistenza con somma «impreparazione e improvvisazione». Prima ad Ala di Stura, poi dopo l’agosto 1944, quando i fascisti isolarono le valli di Lanzo, il passaggio in Francia nelle vallate dell’Arc e dell’Isère, in cui Ico svolge compiti di grande responsabilità anche perché parla un francese perfetto. Infine in Val d’Aosta. I suoi ricordi non trascurano i difficili rapporti tra bande partigiane in particolare con le Brigate Garibaldi di osservanza comunista, talvolta a livelli drammatici. Basti pensare al caso di una condanna a morte richiesta al tribunale militare partigiano da un comandante «garibaldino» contro Walter Alessi che, passando alle brigate Gl, si era reso colpevole di «frazionismo». Pena poi “commutata in esilio”, cioè nell’allontanamento di Alessi dalle valli di Lanzo. Nell’aprile del 1945, Ico con soli otto compagni riesce a fermare e a far consegnare le armi a una colonna tedesca di 200 soldati, diretti al valico del Gran San Bernardo. Poco prima della liberazione rischia la vita, sopra Aosta, inseguito da una pattuglia di Brigate nere. «In certi momenti la paura scompare». Ma resta quella di morire negli ultimi giorni di guerra. Un tema caro anche a Giorgio Bocca, che ne parla nelle sue memorie di partigiano nel cuneese. La guerra si conclude e Ico entra tra i primi in Aosta liberata. Diciannovenne, è designato nel maggio 1945 governatore militare di una vasta zona a nord del capoluogo, in attesa del passaggio dei poteri all’autorità civile.

Rivede finalmente la famiglia, dalla quale aveva perso i contatti da molto tempo e ritorna ad «una vita normale». La ripresa degli studi, il difficile riadattarsi alla vita civile, le incerte prospettive sul futuro.

Mani in alto, bitte. Memorie di Ico, partigiano, ebreo (Zona Editrice, Arezzo) ha uno stile ruspante, sincero e avvincente. I continui cambi di scenario e i ritorni su temi già accennati, in una narrazione sostanzialmente cronologica, non tolgono anzi arricchiscono l’interesse per le vicende descritte.

Non è retorica definire questo libro, ripubblicato nel 2015, in una nuova edizione ampliata, una preziosa testimonianza per le generazioni future, che l’autore nel post-scriptum sintetizza così: «Questa storia ha due morali: la prima è che nella vita bisogna assolutamente imparare le lingue, e la seconda è che ci si deve comportare educatamente anche nelle circostanze più difficili. La mia lezione della Resistenza è: la lealtà paga. Richiede impegno costante, ma paga». E si firma sul retro di copertina, con questa istantanea: «Mi chiamo Enrico Loewenthal, sono nato a Torino, ho visto il mondo in lungo e in largo, sono un industriale, sono ebreo. Durante la guerra di Liberazione sono stato il partigiano Ico».

Pier Luigi Quaregna

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