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 456 - A proposito di Spartaco, e dell'«altra Italia»

 

Roma, potenza militare (e multiculturale)

Gli anni che vanno dall'inizio del II secolo a.C. alla fine del I secolo a.C. – dal periodo immediatamente successivo alla conclusione della seconda guerra punica fino all'ascesa di Augusto e al passaggio dalla Repubblica all'Impero – sono stati tra i più interessanti e tumultuosi della storia di Roma antica.

In quest'epoca lo stato romano si trovò ad affrontare in Italia una serie di ribellioni servili che misero a dura prova le sue capacità di resistenza. La rivolta legata al nome di Spartaco non fu che l'episodio più noto, destinato nel tempo ad assurgere a un'aura leggendaria, che caratterizzò questa guerra tra Roma e i suoi schiavi. Di questo e di altri focolai di ribellione si occupa Giovanni Brizzi (Ribelli contro Roma. Gli schiavi, Spartaco, l'altra Italia, il Mulino 2017).

 

Dopo la conquista

La prima cosa che occorre forse ricordare del periodo in questione è che fu caratterizzato dall'affluire di enormi quantità di schiavi sul territorio italico, conseguenza delle conquiste militari romane. Un ordine di grandezza sino ad allora inedito, che portò in un certo senso a mutare la concezione stessa di schiavitù e i termini del suo utilizzo. Una «schiavitù-merce», come l'ha definita Aldo Schiavone nel suo libro su Spartaco, che induceva a considerare gli schiavi alla stregua di semplici oggetti da sfruttare senza riserve, soprattutto in ambito agricolo, vista la facilità con cui li si poteva reperire e sostituire. La schiavitù in sé non era certo una novità nel mondo antico e le voci che l'avversavano in modo radicale delle eccezioni, ma si trattava in genere di una schiavitù meno «intensiva», «una servitù di tipo domestico, con i pochi schiavi integrati nelle strutture familiari».

Questo aumento della schiavitù andò di pari passo con un altro fenomeno: la crisi dei piccoli proprietari terrieri. La seconda guerra punica lasciò in eredità innumerevoli devastazioni di campi, soprattutto nell'Italia meridionale, che favorirono la fuga di molti contadini e la morte di molti altri in battaglia, e quando non morti comunque costretti ad allontanarsi dalle loro terre per prestare servizio in lunghe campagne militari. Le guerre vittoriose e la progressiva unificazione del Mediterraneo (in un certo senso una forma arcaica di globalizzazione) sotto l'egida romana portarono un incremento dei commerci e un grande afflusso di ricchezze, ripartite però in modo sempre più diseguale, a causa della crescita di un ceto di affaristi e speculatori privi di scrupoli e della concentrazione nelle sparute mani di grandi proprietari terrieri di vastissime zone di agro pubblico – frutto non di rado di occupazioni abusive. Alla diminuzione della pluralità delle piccole proprietà fece dunque da contraltare la crescita di ampi latifondi, per coltivare i quali si poteva appunto contare sull'utilizzo intensivo della forza lavoro di schiavi sempre più numerosi e sfruttabili a piacimento.

 

Due forme di esclusione

Si possono ben comprendere le molteplici rivolte che sin dai primissimi anni del II secolo a.C. hanno punteggiato la storia romana del periodo. Quella di Spartaco, come si diceva, è stata la più celebre di tutte. La chiave di lettura che emerge dal libro di Brizzi però è che sia riduttivo considerarla alla stregua di una semplice, pur se vasta, rivolta servile. Spartaco avrebbe raccolto e convogliato nel suo moto di ribellione lo scontento anche di moltissimi liberi indigenti e, più in generale, di un altro ampio strato di marginalizzati, vale a dire gli alleati (i socii) italici sottomessi dalla potenza di Roma nei secoli precedenti.

Egemonizzati dal potere romano, i socii erano vincolati a un'alleanza che li costringeva a obblighi – prima di tutto quello di fornire uomini in caso di guerre – e pesi ben superiori ai benefici, che sarebbero passati innanzitutto dal riconoscimento del diritto di cittadinanza. Una ventina d'anni prima di Spartaco questo malcontento era esploso in una guerra devastante, la cosiddetta «guerra sociale», nella quale Roma finì davvero per trovarsi sull'orlo di un baratro, come probabilmente nemmeno durante l'occupazione di Annibale le era capitato. Roma alla fine riuscì, con molta fatica, a prevalere sul piano militare ma venne incontro alla richiesta di ampliamento della cittadinanza. Il gruppo di potere romano più conservatore e meno lungimirante fece però di tutto per ostacolare nei fatti questa concessione: l'inserimento dei nuovi cittadini nelle liste del censimento si trascinò per le lunghe e si concepì un meccanismo elettorale che ridimensionava la loro influenza al momento del voto. Il risultato fu che l'onda di risentimento, soprattutto nelle popolazioni appenniniche, non si placò. Dopo che Spartaco, nel 73 a.C., scappò con poche decine di compagni dalla scuola di gladiatori di Capua questi due focolai di ribellione si saldarono sotto il suo comando. Gli storici paiono ormai concordi nel ritenere che l'intenzione di Spartaco non fu mai quella di fuggire dall'Italia bensì di restare volutamente sul suo territorio per sfidare apertamente Roma, forse coltivando persino l'enorme ambizione di sconfiggerla.

La storia ci racconta come finì la corsa, cantava Guccini. Spartaco si mostrò un abile capo militare, pervaso da idee egualitarie. Inizialmente sottovalutato dai romani, li batté in più occasioni e forse li spaventò anche, riuscendo ad evocare il fantasma di Annibale. Alla fine però andò incontro alla disfatta sul campo di battaglia, dove quasi certamente trovò la morte. È rimasto nella memoria il cruento episodio conclusivo di questa guerra, ovvero la crocefissione di 6.000 ribelli lungo la via Appia. A proposito dei quali Brizzi si è chiesto: erano «veramente schiavi – o tutti schiavi; o piuttosto furono crocefissi come se fossero schiavi?». Domanda lecita, perché «al termine del primo conflitto combattuto in Sicilia, a conclusione di quella che potremmo definire forse la più autentica delle guerre servili, gli schiavi non vennero uccisi, ma restituiti ai loro padroni, nel rispetto di una proprietà verso la quale i Romani mostrarono allora la massima considerazione». Dunque, conclude Brizzi, «la terribile differenza di comportamento potrebbe però essere stata motivata non dal diverso momento storico, ma dalla diversa natura del nemico, così almeno come veniva percepita. Altra era forse, nel 71, la caratterizzazione più autentica dei condannati: quella cioè, imperdonabile per i Romani, di pervicaci ribelli». Sotto la guida di Spartaco paiono quindi essersi congiunte due forme di esclusione, quella degli schiavi e quella dell'«altra Italia», degli alleati italici lungamente tenuti ai margini da Roma, o perlomeno di una parte di questi.

 

Una lezione per l’oggi?

Ma se ci si fermasse qui, alle truppe di Spartaco sbaragliate e alle 6.000 crocefissioni, senza guardare oltre, si perderebbe di vista il fatto che questa vicenda, alla fine, più ancora che la spietatezza militare di Roma fece risaltare la sua capacità di integrazione. Una capacità di  cui la città aveva dato prova in passato e di cui avrebbe dato prova in futuro, ma che in quei decenni sembrava essersi inaridita. Non può essere una coincidenza infatti, fa notare Brizzi, che nel 70 a.C., l'anno dopo la morte di Spartaco – che vide insieme al consolato Crasso e Pompeo, i due generali che l'avevano sconfitto –, fu indetto un censimento al termine del quale il numero di cittadini romani risultò più che raddoppiato rispetto al censimento precedente. L'estensione della cittadinanza agli alleati italici era divenuta una realtà.

E gli schiavi? Certo nella società romana la concezione di fondo della schiavitù non mutò, né in sostanza si attenuò lo sfruttamento della manodopera servile, anche se potevano sussistere differenze rilevanti, peraltro già ai tempi di Spartaco, tra le condizioni di vita degli schiavi urbani e quelle degli schiavi rurali. Tuttavia bisogna aggiungere che anche da questo lato Roma seppe sviluppare un'evidente capacità di assimilazione e tenere aperta la strada del rimescolamento sociale. Si diffuse infatti in forme sempre più estese la pratica della «manomissione», ogni padrone aveva cioè la possibilità di concedere la libertà ai propri schiavi, che divenivano così dei «liberti» e come tali acquisivano automaticamente la cittadinanza romana. I liberti conservavano ancora degli obblighi giuridici nei confronti dei loro vecchi signori, ma all'interno di un rapporto che era ormai fra uomini liberi, non più tra un proprietario e uno schiavo. Anche se Augusto pose alcuni limiti alla quantità di manomissioni concesse nei lasciti testamentari, si calcola che nella Roma dei primi anni dell'Impero fossero ormai centinaia di migliaia i cittadini con, più o meno remote, origini servili.

Dunque tutto si può dire di quella Roma, tranne che non sapesse includere; con i socii italici ci arrivò con ritardo, ma ci arrivò. In questa attitudine all'inclusione sta la ragione prima del suo lungo durare e del suo rinnovarsi. Dalla forza straordinaria dell'esercito, macchina militare quasi perfetta, passò la sua inarrestabile espansione territoriale, ma essa non si sarebbe protratta e consolidata nel tempo in mancanza di una spiccata capacità di assimilazione «senza prevenzioni di culture e popoli diversi, purché in qualche modo partecipi dei processi di unificazione dell'impero». Se ci guardiamo indietro, a così tanta distanza di secoli il profilo di Roma che ci viene incontro è al tempo stesso quello di una grande potenza militare, non di rado spietata, e di una grande potenza multiculturale aperta all'integrazione.

Lezioni per l'oggi? Beh, forse la prima è precisamente questa: sospettare sempre della convinzione che il passato contenga lezioni esplicite e facilmente individuabili per l'oggi. Bisogna guardarsi, come ci insegnano gli storici più accorti, dal fare un uso troppo disinvolto dell'analogia storica, perché si rischia di indulgere a un'idea di storia semplificata, a intenderla come un processo unitario che si ripete quasi identico nel tempo, con costanti sempre uguali a se stesse e di facile lettura. Allora attenzione, ad esempio, ad applicare al caso di Spartaco concetti come quelli di «lotta di classe» o «coscienza di classe». L'uso di questi termini, come ci ha ben spiegato Schiavone, pecca di improprietà, perché presuppone una struttura economico-sociale e una concezione del lavoro senza corrispondenza con il mondo romano dell'epoca.

D'altra parte però è evidente che la storia ci stimola a riflettere e ci allena all'analisi delle dinamiche sociali e politiche. Se è vero che queste possono mutare d'aspetto con il variare delle epoche e delle cornici culturali, è anche vero che talvolta mantengono, pur a distanza di secoli, alcuni tratti «familiari». La storia è una memoria che va coltivata, e la pratica della memoria, se autentica, è sempre parte di un percorso di conoscenza che qualche dritta al nostro senso d'«orientamento» contemporaneo può fornirla.

Massimiliano Fortuna

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