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 459 - In memoria di un Beato

 

Pipa, il magnaratti di Caporetto

 

L’ho conosciuto ma il suo vero nome lo ignoro. Era un pomeriggio d’agosto a Casa vecchia, in quel di Cremolino, verso la metà degli anni ‘50. Andavo per i tredici quando dalla cameretta al primo piano l’ho sentito chiamare dal cortile: «Scignua Primina».

Aveva voce roca e strascicata di vecchio camallo. Non era il ligure del basso Piemonte, ma il genovese della Genova profonda, quella che immaginavo operosa e brulicante come formiche tra i carrugi e i moli del porto.

Come ogni estate, con il fratello maggiore di quattro anni, passavo almeno un mese dalla zia, sorella anziana di mio padre, unica sopravvissuta di due gemelle: Primina, appunto, e Secondina. Primina, la zitella di ferro, religiosissima ma anche assolutamente libera; sola donna della stirpe di “Rocco batù dal diau” che avesse rivendicato e ottenuto più della “legittima” nella spartizione dell’eredità paterna. Primina, nubile, coi peli sul viso di una barba mancata, non si faceva aiutare dai fratelli, ma li aiutava e amministrava la sua cascina.

Era per questo che conosceva bene oltre ai mezzadri anche i braccianti e serbava memoria di “Zena”, il giovane camallo di via Pré, che arrotondava la paga con settimane da zappatore in quel dei Belletti. Un gruppo di cascine sparse lungo una cresta di collina che scendeva verso la “pianchetta” sull’Orba, fino al 1815 passo doganale tra Monferrato sabaudo e la città-presidio transappenninico della Repubblica di Genova: Ovada (Uà), resa, da poco (1897), raggiungibile col treno in un ora dal capoluogo ligure attraverso la galleria del Turchino.

Lui Primina la ricordava e Zena era per lei un ricordo lontano, che solo la nuova presenza rianimava in un nome e forse in qualche lineamento stanco, di un sessantenne sbiadito dalla testa ai piedi, che diciottenne era stato nero di sole e di capelli, allegro e gran lavoratore.

Per tre anni s’era fatto vivo d’estate. Poi nel ‘15, ormai sposato con la fidanzata incinta, era scomparso, come molti altri braccianti e figli di contadini, operai, mariti e padri, arruolati e spediti a scaglioni sul fronte per tornare morti o reduci di guerra, segnati nel corpo e nello spirito. Zena non era tornato neanche così. Inghiottito dagli ingranaggi della “Grande Guerra” era stato dimenticato da tutti, mentre lui non aveva dimenticato i luoghi, dove aveva vissuto giorni da uomo e nomi e volti di chi, come uomo, lo aveva trattato.

Fatto sta che, nell’adesso di sessant’anni fa, avevo sentito la sua voce, mentre me ne stavo rintanato nella camera più ombrosa a giocare alla guerra coi francobolli italiani da 5, 10 e 20 centesimi del Regno e 5, 10, 20 lire della Repubblica, a fare da soldatini, colonnelli e generali dei due schieramenti. Un soffio di qua, un soffio di là e quelli che giacevano capovolti “eran belle che morti”. Un’ecatombe non cruenta, ma pur sempre un’ecatombe, che agli adolescenti, ancora un po’ bambini, può dispiacere se a finire a gambe all’aria sono i francobolli preferiti; nel caso quelli con l’Italia turrita.

Ma torniamo a bomba, a quanto Zena ha raccontato la sera, dopo una cena più che sobria. Doveva spiegare alla zia la sua quarantennale scomparsa. Non so ripeterne le parole, dette con assoluta semplicità, con la passione controllata di uno che racconta spezzoni del calvario di un altro come lui e neanche oso appropriarmene. Provo a delineare il tutto della sua Historia calamitatum con parole mie piuttosto scontate, anche perché prive ormai della mia ingenuità d’adolescente.

Travolti dai reparti tedeschi, piovuti in Friuli dal fronte russo, dove era stata concordata una specie di pace, lui e i suoi compagni, accerchiati, si erano arresi. Come, non lo disse. “Con onore o con disonore?”. Aveva senso chiederselo di fronte a tante morti, alla fame e alle ferite, alla stanchezza infinita, alle angosce vissute in anni di trincea, di attacchi e contrattacchi, di malanni non curati e riposo mancato?

Dalle sofferenze della trincea era passato alle sofferenze della prigionia. Alleggerite dei terrori del fronte, ma appesantite da una fame più feroce, endemica, che colpiva tutti. I prigionieri poco di più dei militari e della popolazione civile dei villaggi austriaci circostanti. Se i carcerieri pranzavano e cenavano (si fa per dire) con due o tre patate lesse e una brodaglia di cavoli e rape, i prigionieri, con la sciacquatura dei piatti e della pentole, mangiavano le bucce delle stesse patate e foglie scartate di cavoli e rape, per non parlare di ghiande, castagne d’india e legnetti sminuzzati.

I più alti e robusti, ridotti a scheletri, arrivavano a frugare negli immondezzai. Lui per non trovarsi a strappare con violenza dalle mani dei più deboli e malati quei luridi avanzi, aveva cominciato a dare la caccia ai topi, che ammazzava e mangiava di notte. Non se ne gloriava, ma non ne cancellava la memoria. Una brutta esperienza è pur sempre un’esperienza di cui fare tesoro, nel bene e nel male. Del resto gli anni di vita vissuti e quelli che gli restavano glielo avevano e avrebbero dimostrato.

Finita la guerra aveva tentato di tornare a casa in abiti civili, ma, come tutti gli sbandati di Caporetto, era stato fermato e nuovamente chiuso in un campo di detenzione per vagliare la potenziale accusa di disfattismo e diserzione. Fu fortunato. Le condanne a morte per «resa e consegna delle armi al nemico» stavano passando di moda. Con altri 14 000 se la cavò con l’ergastolo, da scontare in regime di carcere duro. Inizialmente militare, poi civile, quando, dopo tre anni, giunse la grande amnistia.

Qui la sua storia, invece di chiudersi, prese, allora, una piega particolare: esemplarmente anomala. Guai a chi resta solo! Dimenticato da familiari e amici. Persa, “chissamaicome”, la documentazione relativa al suo passato, rimase ergastolano per altri trentadue anni».

Altro, quella sera non disse, se non che la moglie si era trovata un compagno con cui crescere il figlio, che questo figlio s’era rifiutato di incontrarlo e che lui, ripudiato per aver tradito la Patria e abbandonato dalla famiglia, non volendo correre il rischio di ripudiare se stesso, aveva pensato a Cremolino. Forse qui qualcuno lo avrebbe riconosciuto. La sua speranza non era andata delusa e per qualche settimana si è fermato a Casa vecchia, standosene per lo più da solo e dormendo nella “saletta” a pian terreno su un vecchio divanetto di vimini verniciato d’azzurro.

Zena aveva una certa familiarità con le case e le terre dei Belletti, assai meno con le persone, che erano in gran parte cambiate. Così dopo essersene andato in giro a “cercare i suoi posti”, qua e la per la collina, soddisfatta la fame con due fette di pane e lardo, passava qualche ora del pomeriggio a prepararsi, cartine e trinciato forte, le sigarette che avrebbe fumato la sera, prima del buio, sulla soglia della saletta, affacciato sulla striscia di prato che separa la casa dalla riva dei mandorli e della vigna. Era all’ora del crepuscolo che mio fratello ed io, seduti sull’erba, ascoltavamo i suoi racconti.

Con noi ragazzi ci sapeva fare. Mai che si mostrasse scontento o depresso. Parlava come un narratore di storie che sapeva tener viva l’attenzione e sorprendere senza spaventare. Anche per questo, ogni tanto, si interrompeva per animarle con qualche semplice gioco di prestigio e poche stravaganze da fachiro. Li aveva imparati da qualche compagno di cella, perfezionandosi nei lunghi giorni di solitudine in prigione. Ne ricordo due: la destrezza con cui riusciva a far sparire e riapparire oggetti di vita quotidiana davanti agli occhi attenti di due esterrefatti ragazzotti di paese e la naturalezza, quasi ironica, con cui aveva sgranocchiato un bicchiere rotto di vetro per sputarne poi tutti i frammenti in un unico bolo senza che una minima traccia di sangue denunciasse qualche ferita. Ci ha anche detto che, se gli prendevamo il topolino grigio che girava intorno alla casa, l’avrebbe ingoiato vivo e vivo l’avrebbe tirato fuori della stomaco, tenendolo per la coda. Ma noi non lo abbiamo preso e lui non ce lo ha fatto vedere.

È dunque facile capire perché non lo abbiamo dimenticato e perché anche Elio, il figlio del mezzadro, che aveva l’età della mia sorella maggiore, ma che a dieci anni, lasciata la scuola, aveva preso la strada dei campi per aiutare il padre, ne serba ancora memoria. Questo anche se, poche settimane dopo, Zena se ne era tornato nei budelli dell’angiporto di Genova per riapparire inatteso ancora per altre due estati. Alla fine della terza era scomparso definitivamente. È stata quella l’estate in cui ha fatto amicizia con la mia sorellina minore, che stravedeva per lui e lo aveva soprannominò “Pipa”, perché non fumava più sigarette storte, ma una pipa di castagno, sempre lucida, con tanto di coperchietto metallico traforato.

Ogni volta aveva tentato di accollarsi un lavoro, ma il fisico non reggeva più la fatica e la testa difettava ormai di fermezza. Non riusciva a ritrovare fiducia in se stesso e aveva paura di deludere gli altri e di farsi cacciare un’altra volta. Tentava e fuggiva. Non tornò più e la sorellina, che provò a mandargli una cartolina a un ipotetico numero civico di Via Pré, non ricevette risposta.

Tutto ciò accadeva “quando Berta filava”. Verso la metà d’agosto, percorrendo in macchina via Belletti per scendere ad Ovada, ho incontrato Elio, quasi novantenne, a spasso col cagnetto da tartufi. Mi sono fermato e, senza scendere, gli ho chiesto come andava la sua salute e quella di sua moglie e se il cane sapeva ancora puntare tartufi. Le solite domande e le solite risposte. Ormai tutti sanno che gli ultrasettantenni si accontentano di un benevolo «Si tira avanti».

Stavo per riavviare il motore. Mi è venuto un lampo e ho buttato là: «Te lo ricordi Zena?». Ci ha messo un attimo; ha tirato a sé il guinzaglio del cane che strattonava per andare. «Sì! È tornato a Genova. Saranno più di cinquant’anni. È morto da un pezzo. Alla fine cacciava un piedi davanti all’altro girando per i bar dei carruggi con un topo in tasca Scommetteva che l’avrebbe mangiato in un boccone. Se la ingoiava. Intascava le poste buttate sul tavolino dagli scommettitori, usciva e recuperava per la coda il mal capitato».

Caporetto e il carcere glielo avevano insegnato: «Non vuoi rubare? Impara a fare il mangiaratti. Si apriranno per te tutte le porte del Regno e potrai scegliere a gusto tuo. Quella dell’inferno o quella del paradiso. Dovunque andrai sarai per sempre e per tutti il “Beato di Caporetto”».

Aldo Bodrato

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