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 459 - Cattolici e contestazione a Torino (1967-1969)

 

Una generazione alla prova

Il 22 e 23 novembre si è svolto a Torino il convegno «Cattolici del Sessantotto. Cinquant’anni dopo a Torino», promosso dal Dipartimento di studi storici dell’Università degli studi di Torino, organizzato in collaborazione con la Fondazione Vera Nocentini, la Fondazione Michele Pellegrino e il Centro studi sul giornalismo Gino Pestelli, all’interno del progetto del Polo del 900 Dall’immaginazione al potere. 1968-1969 coordinato dal Centro Studi Piero Gobetti.

Della relazione di Marta Margotti pubblichiamo un’ampia sintesi. A conclusione del convegno il 4 dicembre si è poi svolta la tavola rotonda «Cattolici nella contestazione. 1967-1969» con Mauro Barrera, Giuseppe Gatti, Lucia Merlo, Massimo Negarville, Giuliano Nozzoli, Sergio Soave e Enrico Peyretti, di cui pubblichiamo il testo dell’intervento.

 

L’onda del “lungo Sessantotto” investì molti giovani cattolici e, in alcuni casi, cambiò la loro vita in modo definitivo. Nel periodo 1967-1969, a Torino, in modo più forte che altrove, si collegarono le rivendicazioni politiche delle proteste studentesche e operaie e le speranze religiose suscitate dal Concilio vaticano II, alimentando una situazione di persistente instabilità e contrapposizione.

 

L’arrivo di Pellegrino

Negli anni precedenti, erano stati soprattutto giovani delle parrocchie e delle associazioni a interpretare l’aggiornamento del Concilio; l’arrivo nel 1965 del nuovo vescovo, Michele Pellegrino, segnò una decisa accelerazione della riforma conciliare nella diocesi, nonostante le sotterranee opposizioni conservatrici di una minoranza di preti e laici e la staticità di molti fedeli, lamentata dai più convinti sostenitori dell’aggiornamento. Nelle occupazioni degli atenei torinesi (iniziate nel febbraio 1967 e poi riprese con più ampiezza dal novembre successivo) tra gli universitari più attivi si ritrovarono anche militanti provenienti da Fuci, scout e Azione cattolica, presenze che suscitarono forti preoccupazioni nella Chiesa torinese, a iniziare da Pellegrino, che aveva insegnato a lungo all’Università di Torino. Il contrasto che si manifestò in quelle circostanze tra le diverse “anime” del cattolicesimo – anche di quelle più disponibili all’aggiornamento – si riprodusse nel Centro cattolico universitario (di cui era incaricato Enrico Peyretti) che intendeva essere punto di incontro e coordinamento di studenti, assistenti e docenti universitari della diocesi. Di fronte alle occupazioni, Pellegrino inizialmente aveva ritenuto di non intervenire, ma, per l’inasprirsi delle manifestazioni, il coinvolgimento di studenti cattolici e le sollecitazioni dei docenti più vicini a lui, all’inizio del 1968 elaborò un documento sulle proteste. Il vescovo sottopose, attraverso Peyretti, la sua proposta di lettera ai componenti del Centro cattolico universitario. Anche raccogliendo gli esiti dell’accesissima discussione, dove emersero critiche ai contenuti del testo e il timore dell’uso distorto che i giornali ne avrebbero fatto, Pellegrino decise di non pubblicare il documento.

 

Lo scioglimento della Fuci

Le crescenti proteste inasprirono però ancor più le contrapposizioni e fecero maturare radicali scelte politiche e traiettorie esistenziali tra i cattolici più fortemente coinvolti nella contestazione. La volontà di non disperdere le energie esplose nei mesi precedenti e di incanalarle in una direzione non totalmente demolitrice portò le principali associazioni giovanili della diocesi a progettare un congresso, che si svolse a Rivoli nell’aprile 1969, per un confronto tra oltre 700 giovani e anche con il vescovo. Gli esiti contrastanti del convegno (Pellegrino riconobbe la necessità di riformare molte strutture e metodi di azioni, ma non accettò la richiesta di convocare un sinodo diocesano) resero evidenti le resistenze presenti nella diocesi per un deciso rinnovamento. Una mozione conclusiva del congresso fu dedicata all’università, con una decisione drastica: si doveva dare priorità all’ascolto della Parola di Dio e creare gruppi cristiani non istituzionalizzati e dunque si chiedeva lo scioglimento della Fuci. Si chiudeva così, con un voto assembleare a maggioranza (un segno dei tempi…), quell’esperienza della Fuci a Torino, con giovani in libera uscita, dentro e fuori la Chiesa.

 

La variabile Pellegrino

I mesi tra il 1967 e il 1969 furono per la Chiesa di Torino una sorta di acceleratore delle trasformazioni e delle innovazioni già emerse negli anni precedenti, che resero il passaggio di alcuni cattolici verso i movimenti di protesta più immediato che per altre componenti culturali della città. In questa situazione, dove esistevano minoranze attive di cattolici fortemente disponibili al cambiamento, si inserì quella che chiamerei la “variabile Pellegrino”. La presenza di un vescovo proveniente dall’ambiente accademico, ma sensibile alle questioni del lavoro, convinto sostenitore dell’aggiornamento conciliare, favorevole al dialogo come metodo di azione pastorale e, allo stesso tempo, assertore fermo delle prerogative del ministero episcopale, rese il “lungo Sessantotto” della Chiesa torinese un passaggio atteso quanto imprevisto nei suoi esiti. Pellegrino, più che un ruolo di mediazione tra visioni contrastanti, espresse una guida della diocesi che intendeva creare coesione nella comunità cristiana, far emergere le diversità esistenti per valorizzarle e, soprattutto, non lasciare la Chiesa ai margini delle più generali trasformazioni della società.

Nei mesi delle proteste studentesche e operaie, molti giovani cattolici e i “loro” preti furono messi alla prova lungo almeno tre direttrici: il rapporto tra fede e politica, le riforme nella Chiesa e la religione nella “città secolare”. Per i cattolici contestatori, la radicalità evangelica richiedeva di opporsi alle strutture borghesi e capitalistiche e imponeva una stretta coerenza tra opzioni politiche e fede cristiana, quasi senza mediazioni. Allo stesso tempo, si riteneva che la riforma della Chiesa in senso anti-istituzionale e anti-gerarchico avrebbe contribuito a rompere l’alleanza di classe su cui si basava il “sistema”. La partecipazione alle manifestazioni comportava scelte che realizzavano l’unica forma di testimonianza cristiana ritenuta possibile nella “città secolare”: in ambienti come l’università e la fabbrica, sempre più lontani da riferimenti religiosi, quei cristiani ritenevano infatti di poter testimoniare il Vangelo soltanto lottando contro l’oppressione e lo sfruttamento, una lotta che era l’unico linguaggio compreso dai compagni di studio o di lavoro, ed erano disposti per questo a pagare di persona.

 

Rimozione della memoria

Nella Chiesa torinese, il ricordo della partecipazione dei cattolici al Sessantotto è stato generalmente taciuto nei decenni successivi attraverso operazioni più o meno consapevoli di rimozione della memoria da parte degli stessi protagonisti. La memoria collettiva del passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta è stata ricostruita dai cattolici intorno ad altri eventi, che pur avevano un legame stretto con le proteste studentesche ed operaie. Per molti giovani cattolici di allora, il riferimento memoriale nei decenni successivi andò infatti al congresso di Rivoli, mentre per l’“operaismo cattolico” la memoria si costruì intorno all’inizio del lavoro manuale dei preti (con Carlo Carlevaris) e alla nascita della Gioc. Per tutto il “cattolicesimo conciliare” torinese, la memoria si orientò poi soprattutto verso le contese nel Consiglio pastorale diocesano e il complesso processo di elaborazione, tra il 1970 e il 1971, della Camminare insieme.

La selezione della memoria collettiva di una parte della Chiesa torinese operò quindi nella direzione non tanto di espungere dal ricordo condiviso avvenimenti considerati conflittuali (perché conflittuali furono pure le scelte dei giovani cattolici riuniti a Rivoli, il percorso di preparazione della Camminare insieme e la partecipazione dei preti operai agli scioperi), ma di omettere dalla rappresentazione comune del passato eventi (come la presenza di credenti nelle manifestazioni studentesche) che non si tradussero successivamente in scelte durature di azione collettiva all’interno della Chiesa.

Come per altri movimenti sociali, pure per i diversi ambienti sostenitori ed eredi della “Chiesa pellegriniana”, l’opera di costruzione delle memorie collettive servì a rafforzare le identità di gruppo anche in contrapposizione ad altri attori: in questo caso, quelle correnti che nel cattolicesimo torinese intendevano bloccare i progetti di aggiornamento conciliare e contrastare la collocazione politica progressista di preti e laici che avevano rotto con il tradizionale moderatismo ecclesiastico. Proprio in quanto il Sessantotto universitario aveva visto i “cattolici del Concilio” schierati (concretamente) sui fronti opposti delle barricate, finite le fasi più acute delle proteste era opportuno superare i motivi di divisione per concentrarsi su quella che era considerata l’urgente azione di rinnovamento della Chiesa che a Torino aveva autorevoli e organizzati oppositori.

 

Memoria delle assenze

La smemoratezza del Sessantotto cattolico a Torino, infine, ha a che fare anche con la scelta da parte di chi vi aveva partecipato di evitare la memoria delle assenze. Nella memoria collettiva del “Sessantotto dei cattolici” negli anni successivi sono scattati così dei meccanismi analgesici (una sorta di antidolorifico della memoria) per ridurre le sofferenze latenti che si volevano sedare. Innanzi tutto, tra coloro che per una fase intensa della loro vita avevano dedicato alla militanza cattolica tempo, energie ed emozioni, ed erano poi approdati alla protesta sociale anche in forza della formazione ricevuta nella Chiesa, vi furono coloro che in seguito al Sessantotto si diressero verso altre militanze, questa volta politiche, spesso nei gruppi della sinistra extraparlamentare, oppure vissero scelte esistenziali laceranti, come l’abbandono del ministero sacerdotale o la messa in discussione delle personali credenze religiose. Meglio quindi non ricordare quello scarto doloroso. Anche per molti di coloro che continuarono la propria appartenenza religiosa in forme collettive (ora più, ora meno integrate nelle istituzioni ecclesiastiche), commemorare (nel senso di ricordare insieme il) “Sessantotto cattolico” avrebbe comportato ricordare delle assenze. Avrebbe significato ricordare l’assenza di coloro che avevano “lasciato”, certamente, ma anche l’assenza di una Chiesa che poteva essere e non è stata: una Chiesa comunitaria, povera, evangelica, anti-autoritaria, quella appunto immaginata e non realizzata né allora, né nei cinquant’anni seguiti a quel dimenticato Sessantotto.

Marta Margotti

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