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Quando la teoria balbetta

Nella seconda parte del secolo scorso è stato molto vivace il dibattito tra gli economisti seguaci delle tre principali teorie: neoclassica, marxista, keynesiana.

La maggioranza seguiva la teoria neoclassica, molto forte soprattutto nella microeconomia che studia il funzionamento delle imprese e del mercato, ed è invece debole per la mancanza di senso storico, difetto che pesa sempre più man mano che i cambiamenti nell’economia e nella società diventano più grandi e perché tutta la sua analisi è centrata sull’equilibrio, mentre il capitalismo funziona attraverso una serie di squilibri. Gli investimenti che gli imprenditori fanno per aumentare la capacità produttiva, rompono un precedente equilibrio e portano a un aumento di produttività e di produzione e così in una serie di cicli crescenti fino a che, giudicando sufficiente la capacità produttiva a disposizione, fanno una pausa. Questo genera l’inversione del ciclo di crescita, fino alla ristrutturazione e al prossimo slancio produttivo. I marxisti inquadravano bene l’attività economica come attività sociale spiegandone i meccanismi come rapporti di produzione tra classi sociali, e avevano anche individuato l’errore dei neoclassici nel considerare il sistema capitalista in equilibrio, ma scambiavano (forse perché lo speravano) questo svilupparsi del capitalismo per cicli come una debolezza, una sua contraddizione, quasi una sua impossibilità di funzionare. Infatti hanno sempre, sbagliando, profetizzato il suo crollo. Il capitalismo invece è un formidabile sistema per aumentare la produzione e continuerà a funzionare finché la società desidererà o penserà utile farla crescere.

Keynes scriveva dopo la grande depressione del ’29-’33. Due sono le profonde innovazioni che porta alla teoria neoclassica. Anzitutto comprende che il procedere per cicli non è una debolezza del sistema capitalista, ma il suo modo normale di funzionare (lo stesso diceva Schumpeter che pensava al capitalismo come processo di distruzione creatrice). Capì anche che il capitalismo era entrato in una fase nuova: non era più il desiderio degli imprenditori di aumentare la produzione che lo sospingeva, ma la domanda di beni di consumo. Questo perché in Occidente la produzione si era molto sviluppata e soddisfaceva ormai i bisogni primari di una parte notevole della popolazione e cominciava a rivolgersi a quelli secondari e voluttuari, in cui i capricci dei consumatori sono determinanti. Aveva anche notato che con l’aumento del reddito a disposizione dei consumatori, aumentava anche la propensione al risparmio che sottraeva potere d’acquisto dal mercato aggravando le crisi di sovrapproduzione. Individuava così gli strumenti di politica economica necessari per questa nuova fase del capitalismo: intervento dello Stato, politica monetaria e fiscale, pareggio del bilancio statale non anno per anno ma considerando l’intero ciclo, tutto per sostenere la domanda di consumi.

 

Teorie in affanno

Queste tre teorie oggi hanno perso la capacità di spiegare il mondo in cui viviamo e le sue contraddizioni perché la realtà economica è cambiata velocemente e profondamente e richiede un’analisi completamente nuova. La teoria neoclassica mantiene tutti i difetti già rilevati, aggiungendo il fatto che con la globalizzazione il mercato è dominato da grandi agglomerati finanziari/industriali/informatici. Il marxismo rivela in alcune sue parti una sorprendente vitalità e un’attualità stupefacente, ma contiene anche lacune ed errori gravi e spesso è stato trasformato in una specie di oracolo indigesto. Andrebbe profondamente rivisto. Anche il keynesismo non può funzionare, perché richiede un intervento politico, mentre gli Stati nazionali, anche i più grandi, hanno scarsissimi strumenti di intervento sull’economia globalizzata e sui grandi agglomerati finanziari che gestiscono budget comparabili con i loro, che possono spostare con gran facilità da un angolo all’altro del mondo seguendo i loro interessi.

La teoria economica dovrà affrontare i cambiamenti in atto, alcuni evidenti, altri appena visibili, altri ancora che eccedono il suo ambito. Il capitalismo industriale è ancora molto vigoroso e si sta estendendo finalmente a larghi strati di popolazione mondiale che ne era finora rimasta esclusa e altri deve ancora raggiungere, ma già si può intravedere l’emergere di una nuova fase economica: la società post-industriale quando, grazie all’automazione, pochi lavoratori saranno impiegati nella produzione agricola e industriale, mentre la maggioranza (fino al 90%) si occuperà dei servizi, alla persona, alla società alla difesa del territorio. Stiamo raggiungendo un tetto per l’aumento della popolazione mondiale. Verosimilmente insieme all’aumento generalizzato dello sviluppo e della medicina, ci sarà una riduzione significativa della natalità e un aumento della durata della vita, con un invecchiamento progressivo dell’umanità. Ciò creerà nuovi bisogni di servizi e una riduzione della spinta ad aumentare la produzione, accelerando ulteriormente lo spostamento dell’occupazione verso il terziario tradizionale, l’avanzato e il sociale. Innanzitutto occorrerà studiare il funzionamento di un’economia in cui la produzione di beni sarà completamente informatizzata e affidata a robot, mentre una parte notevole di lavoro sarà impiegato in servizi collettivi. La distribuzione del reddito che ora si bassa sulla produttività del lavoro sarà da ripensare. Così come occorrerà pensare a un’economia non più fondata sulla crescita, cioè sul continuo sviluppo delle forze produttive. Su tutti questi punti purtroppo la teoria per ora balbetta.

 

La sfida culturale

La sfida principale però sarà culturale. La nostra specie homo sapiens ha iniziato la sua storia più di 200.000 anni fa con piccoli gruppi familiari che si aggiravano sperduti in spazi immensi. Dopo la rivoluzione agricola, con l’aumento della produzione e della popolazione, ha cominciato a manifestarsi la spinta a formare città e aggregati politici sempre più grandi, fino al formarsi di grandi imperi, perché ciò aumentava ricchezza e potere. Oggi stiamo giungendo al termine di questo lungo processo di aggregazione, 8 miliardi di persone formano un unico sistema economico che copre per la prima volta l’intero globo. Negli ultimi secoli il mondo si è suddiviso in Stati nazionali su base etnica con lo scopo di regolare la convivenza in un determinato territorio, ora però con la globalizzazione queste formazioni politiche non sono più in grado di svolgere il loro compito perché tutti i principali problemi che abbiamo di fronte sono globali, travalicano le frontiere. Con tutta evidenza è necessaria una forma di governo in grado di ordinare la convivenza a livello globale. Per far questo passo decisivo però non basta un accordo tra i grandi del mondo, non sono sufficienti il G7, il G20 e neppure l’assemblea plenaria dell’Onu. Occorre che i popoli superino l’asfittica visione nazionale, sovranista, gretta, ottusamente difensiva e si convincano di essere parenti stretti, di far parte di una tribù globale, devono acquisire la coscienza che nessuno può stare bene e in pace se altri stanno male e in guerra (in particolare se questo stare male è causato almeno in parte dalla nostra bramosia e arroganza). Senza questa coscienza generalizzata nel popolo, la politica non può affrontare i profondi cambiamenti e i sacrifici che saranno necessari per procedere per gradi verso il necessario governo mondiale. La sfida che abbiamo di fronte dunque è molto difficile, forse una delle più difficili che l’umanità abbia dovuto affrontare nella sua storia, e anche esaltante, perché richiede il superamento di limiti e paure ancestrali. Credo però che gli uomini abbiano le capacità e le risorse morali sufficienti per affrontarla: occorrerà solo che scelgano la vita piuttosto che la morte.

Angelo Papuzza

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