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 465 - Toro-Juve e la scoperta della relatività

 

Toro-Juve e la scoperta della relatività

 

Nel maggio 1949 avevo poco più di tre anni di età e della tragedia di Superga, l’incidente aereo in cui perì l’intera squadra del “Grande Torino”, non mi sembra di avere ricordi diretti.

All’epoca, cosa fosse la morte me lo aveva già spiegato mio fratello, e lo devo alla passione di mio padre per il cinema dove portava volentieri tutta la famiglia. Mio fratello Pier Luigi, di sei anni più grande, mi disse che al cinema si moriva per finta, spiegandomi pazientemente come mai Gary Cooper, che avevo visto morire alla fine del film la settimana prima, poteva essere nuovamente vivo e protagonista di un altro film.

Penso però che due o tre anni dopo, qualcuno in famiglia mi raccontò, non ricordo come, la fine del Grande Torino. Forse lo zio Guido, che mi portava a vedere l’ultimo quarto d’ora delle partite di calcio, quando l’ingresso era gratuito. Mi sembra che lo zio non fosse di “fede granata”, ma ricordo bene una sua frase detta lungo la strada verso lo stadio: “Penso che oggi Carappellese farà il suo bravo gol”. Grazie ad Internet, oggi so che Carappellese giocò nel Toro dal ’49 alla primavera del ’52, raccogliendo la non facile eredità di Mazzola… Vuol dire che quei finali di partita, visti con lo zio Guido, sono riferiti al periodo ’50-’52, poco dopo la scomparsa dell’intera squadra e io avevo 5 o 6 anni.

Che sia stato lui a parlarmene per primo e a iniziarmi alla conoscenza della morte vera in cui in cui non è concessa un’altra vita, un’altra partita, un’altra vittoria, come nei film? Che sia stato lui, tra i suoi silenzi e i suoi racconti, a parlarmi della tragedia di Superga e anche ad imparare a fare i conti con la tragedia umana? Possibile. Come è anche probabile che mio fratello, a sua volta, mi abbia all'epoca raccontato dell’incidente.

Dall’insieme di tali ricordi, alcuni indelebili, altri confusi, emerge comunque una certezza: la conoscenza di un tale tragico fatto e la compassione derivante, è indissolubilmente legata alla decisione di essere, a vita, un tifoso del Toro. Ma di quegli anni ricordo anche, con rammarico, una nota stonata: mio fratello si è sempre dichiarato di fede juventina… impedendomi di condividere con lui la “fede primordiale”.

E mentre mi coccolavo la, per nulla frivola, passione calcistica, col tempo mi accorsi che il mio destino era in un certo senso legato alle tragedie umane. Sono nato il 24 marzo, esattamente due anni dopo il massacro delle fosse Ardeatine. In quella stessa data, un po’ di lustri più tardi, nel 1980 è stato ucciso l'arcivescovo Romero, il difensore dei contadini poveri in America Latina, nel ’99 avviene il gravissimo incidente sotto il tunnel del Monte Bianco, ed è anche il giorno del primo bombardamento aereo della Nato su Belgrado. Non voglio continuare.

Essere del Toro è stato per me sempre sofferta passione e la passione ben si sa, si nutre dell’irrazionale. Ma certamente la mia passione per i colori granata, fede incrollabile mai messa in dubbio, nata in quell’humus di confuse memorie, ha trovato un sostegno nell’intervento della ragione, nella scoperta razionale di una storia tragica e unica. Ragione che, col tempo, si è consolidata in me, rinforzata da una visione del mondo che ti fa sentire una particolare complicità con i deboli, i perdenti e soprattutto con coloro che non meritano di perdere perché comunque, dopo aver perso, si sanno rialzare.

Stante tutto ciò ho passato quasi tutta la mia vita attribuendo a un perverso disegno demiurgico il fatto di non poter condividere la complice passione con mio fratello che è sempre stato, senza tentennamenti, tifoso della Juve.

A questo punto della narrazione devo fare un salto nel tempo di quasi 70 anni. Pochi mesi fa, scandagliando la memoria mia e altrui per ricostruire la tragedia di Superga, ed anche la nascita della mia passione, mi sono trovato a vivere una specie di big bang: udire i racconti di mio fratello, che nel 1949 non aveva tre anni come me bensì nove, il ricordo delle sue sensazioni di allora, quando cresceva e coltivava le sue passioni, mi ha stordito. Mi ha aperto gli occhi e il cuore un po’ ottuso dell’appassionato. Imponendomi una banale scoperta: tutto è relativo.

I suoi racconti, corredati di immagini di una memoria naif, di passeggiate nei pomeriggi domenicali tenuto per mano dal nostro papà, verso un bar che esponeva una bacheca verde con i risultati delle partite del campionato di calcio. Di gente facente crocchio attorno a un apparecchio radio che sputava la cronaca e i commenti delle partite. I racconti di una squadra, i granata del Torino, che vinceva sempre e di una Juventus che arrancava. Della voce di Eugenio Danese che diceva: “Quest’anno il Toro vincerà con 12 punti di distacco, no io dico con 15 punti di vantaggio. Ricordi di vita scolastica: classe, terza e quarta elementare, in cui tutti tifavano per il Torino e in cui mio fratello fu preso dalla nobile simpatia per il perdente, cedette alla tentazione di smarcarsi del carro dei vincitori.

Questi ricordi sono stati un’apertura su di un mondo nuovo, per me fino ad allora inconcepibile: quando seppe della tragedia di Superga, Pier Luigi lo apprese da tifoso di una Juve “perdente”... E mi son fatto, eccome, una ragione di avere accanto un fratello tifoso juventino.

Paolo Quaregna

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