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 472 - La democratizzazione delle imprese

 

Cogestione non è una parolaccia

 

Evento imprevisto e inimmaginabile, l’epidemia di Coronavirus, e il confinamento che l’ha accompagnata, ha interpellato e scombussolato le idee di quasi tutta l’umanità. «Fermate il mondo voglio scendere» era finora una battuta venata di sarcasmo.

Con il Covid19 è diventata una realtà! Mai era successo che due terzi del mondo (circa 5 miliardi di esseri umani sui 7,7 che ne conta il pianeta) siano stati chiusi in casa, tutti insieme e contemporaneamente. Di che alimentare le più varie riflessioni e divagazioni dell’animo e della mente. Incluso le più estreme: dal «Nulla sarà mai più come prima» delle settimane iniziali siamo passati al «Lasciateci tornare alla vita di prima» della fase 2.

Nell’ampio spazio tra questi due estremi, sono in molti a pensare e lavorare sulle opportunità aperte dalla lockdown crisis. Tra le tante vorremmo riflettere un poco su quella che alcuni hanno chiamato la «democratizzazione delle imprese». Il tema si è sviluppato come corollario agli annunci dei piani di sostegno alle imprese, nei Paesi colpiti dal brutale arresto delle attività economiche. Un poco ovunque si sono moltiplicati i finanziamenti alle aziende in grave difficoltà: Alitalia e KLM, Fiat e Renault, hanno fatto i titoli dei giornali. Ma assai più cospicui sono i soldi versati sotto forma una tantum a fondo perduto, di prestiti garantiti, di dilazione per tasse e contributi, di erogazione incondizionata della Cassa Integrazione o sussidi similari. C’era un altro modo per evitare di uscire dal confinamento e ritrovarsi con milioni di disoccupati in coda alla mensa dei poveri? Tra qualche mese numerosi saputelli ci diranno di sì, ma intanto tutti i Paesi, quale che fosse il colore del loro governo, lo hanno fatto, e in fretta, per fortuna.

 

La collettività deve avere voce in capitolo

Impresa vuol dire rischio e anticipazione dei capitali per la produzione o per l’attività di servizio. È il ruolo dell’azionista. In forza del rischio che prende gli si riconosce il diritto di decidere e di scegliere autonomamente (fatte salve le leggi e i regolamenti). Ma quando i capitali che affluiscono sono risorse della collettività, questa deve avere voce in capitolo. Non c’è dubbio che ingenti risorse dello Stato, dunque della collettività, siano finiti nelle casse delle imprese in questa crisi da epidemia, e quindi pare perfettamente giusto che la collettività partecipi alle decisioni. Come? Imponendo lo Stato come azionista? L’Italia ha una pluridecennale casistica per dimostrare scientificamente che questa è la peggiore delle soluzioni.

Poiché l’art. 1 della Costituzione recita «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» possiamo serenamente dedurre che la collettività parteciperebbe alle scelte nelle imprese che ha contribuito a finanziare se i lavoratori dipendenti partecipassero agli organi decisionali delle stesse. È dunque equo pretendere che chi ha ricevuto aiuto finanziario dallo Stato (sotto le varie forme indicate sopra), debba accettare di condividere le decisioni strategiche con i rappresentanti dei lavoratori. Specularmente ciò implica che anche il sindacato deve accettare di rendersi co-responsabile delle scelte strategiche negoziate con l’azionista. Sarebbe questo un enorme passo nella "democratizzazione delle imprese". Infatti "democratizzare" non è un verbo a senso unico, solo ascendente (si chiama collettivizzazione, e anche quella ha dato ampie dimostrazioni di fallimento) o al contrario solo discendente (si chiama capitalismo puro, e allora non prende soldi dalla collettività). Democratizzare implica che il management si piega a trovare un compromesso con i rappresentanti dei lavoratori dipendenti, e che i rappresentanti dei dipendenti si fanno co-responsabili delle decisioni dell'azienda. In tedesco si dice Mitbestimmung, e si fa. In italiano si chiama cogestione, e fino qui è stata considerata quasi una parolaccia.

 

Osteggiata dagli imprenditori e dal sindacato

Chi, come un autore di queste righe, fosse entrato nel sindacato negli anni ’70, ben ricorda che l'idea, certo da sempre osteggiata dagli imprenditori, era altrettanto duramente contestata dal sindacato (Cgil soprattutto, con qualche timida apertura in Cisl e Uil), per una questione di principio: dovendo il sindacato essere antagonista, nella prospettiva del superamento del "sistema", non avrebbe mai accettato di cogestire alcunché: la solita tragica tirannia dei principi, a cui siamo abituati in Italia. Nel settore dell’educazione, il sindacato s’inorgogliva delle brillanti trattative con le scuole private, concludendo ottimi contratti per il personale. Applausi dei dipendenti a gennaio, ma nell’ottobre successivo la scuola chiudeva, chiedendo il licenziamento collettivo per fine attività, e avevamo qualche disoccupato in più da gestire. Nello Stato questo non accadeva, tanto aumentava il debito pubblico (anni 70/80); ma quelli con lo Stato non erano veri contratti. Un’esperienza vissuta che la dice lunga sul senso di responsabilità, e della misura, dei sindacati in Italia. La Cgil, spinta dai super rivoluzionari della sinistra extraparlamentare, ha sempre rifiutato ogni approccio alla cogestione. Il sindacato era e doveva rimanere conflittuale e antagonista. Il "sistema" non andava accettato neanche sperimentalmente.

Più recentemente, in Francia, l’idea è stata rilanciata da una star del calibro di Thomas Piketty (l’economista famoso per il best seller Il capitale nel XXI secolo, e per avere formulato la proposta del reddito di cittadinanza, inserita nel programma del candidato socialista Bernard Hamon, crollato miseramente fin dal primo turno delle presidenziali). In Francia ha trovato pane per i suoi denti. Non tanto nel Medef, la Confindustria francese, dove molte delle più grandi aziende già presentano una ripartizione di capitale nelle mani dei dipendenti (actionariat salarié introdotto da Charles de Gaulle) e un Consiglio di Amministrazione in cui siedono rappresentanti dei dipendenti (in applicazione della legge Pacte introdotta da Emmanuel Macron). Il principale ostacolo viene piuttosto dalla Cgt. Questo sindacato infatti rifiuta categoricamente ogni formula di cogestione, al contrario del suo rivale Cfdt, che da qualche anno lo ha superato nelle votazioni dei rappresentanti dei lavoratori su scala nazionale.

 

Tre pregiudizi

Ora che forse è più chiaro quanto siano sterili queste posizioni di chiusura, e in prospettiva abbastanza catastrofiche, si lancia lo slogan della “democratizzazione delle imprese”. Ovviamente si intende con essa superare l’obsoleta Mitbestimmung, che i tedeschi praticano, dal dopoguerra, con un certo successo. Ma prima di liquidare come obsoleta la cogestione alla tedesca, bisognerebbe arrivarci e sarebbe già un bel passo avanti per tutti: azionariato, dirigenza e sindacato.

Comunque la si voglia etichettare, l’idea deve rompere alcuni radicati pregiudizi. Il primo pregiudizio sbagliato è che non serve a nulla introdurre i rappresentanti dei lavoratori nei Consigli d'Amministrazione. Serve al management per andare a spiegare le ragioni di una decisione e serve ai sindacati per andare a spiegare ai dipendenti le ragioni di un consenso.

Alla partecipazione nei Consigli di Amministrazione si potrebbe facilmente aggiungere (e imporre di aggiungere) la partecipazione ai Comitati Strategici (diversamente denominati a seconda delle imprese), dove veramente si decidono i piani di medio (2-3 anni) e lungo periodo (5-10 anni). Sono quelle le istanze decisionali dove si fa la scelta tra opzioni diverse e si entra nelle cifre tra costi e ricavi. Per esempio, su una decisione pro o contro una delocalizzazione si deve trovare l'equilibrio fra costi e margini. Concretamente: se facciamo produrre in Cina abbassiamo il costo del lavoro e manteniamo i margini che ci consentono di investire in ricerca per i prodotti a venire che assicurano la perennità dell'azienda. Se i rappresentanti dei lavoratori del Comitato Strategico optano per la non delocalizzazione dovranno contribuire a trovare le riduzioni di costo in loco e tra queste qualcuna toccherà certamente l'organizzazione del lavoro e gli stipendi. Da tale cogestione non possono venire che strategie condivise dall'insieme dell'impresa e quindi rafforzarla. I tedeschi insegnano.

Un secondo pregiudizio negativo è che la cogestione sia adatta solo alle grandi aziende. Niente di meno vero, come ha potuto constatare l’altro autore. Chi, fuori dall’Italia, ha avuto l’opportunità di dirigere aziende di media dimensione (diciamo 80-120 dipendenti) sa che i rappresentanti dei lavoratori si riuniscono con la dirigenza in media ogni bimestre. Queste istanze decisionali sono un formidabile momento di verifica e dialettica con interlocutori competenti (chi meglio dei lavoratori conosce i problemi quotidiani, le opportunità e i rischi dell'attività?) e sempre profondamente preoccupati di preservare il futuro della loro azienda (in fondo spesso il dirigente è di passaggio ‒ 4/5 anni al massimo –, mentre i dipendenti ci devono finire la carriera). Certo, ci sono eccezioni conflittuali, ma, appunto, sono eccezioni.

Infine si dice che con la cogestione non si può scegliere il management, mentre nel concetto di “democratizzare l’impresa” si dovrebbe mettere nelle mani dei dipendenti la scelta dell'Amministratore Delegato. Ricordiamo che l’Ad è responsabile davanti agli azionisti che lo nominano. È bene che lo resti. Sono gli azionisti che avanzano i soldi per lanciare l'impresa. Che si prendano loro la responsabilità di decidere chi li rappresenta a capo della stessa. Ci sono altre strade da percorrere per non farne un tiranno. Tra queste, imporre l'accesso all'azionariato dei dipendenti non appena l'azienda ricorra a un qualunque strumento di sostegno dello Stato. In tal modo i dipendenti/azionisti partecipano alla scelta dell’Ad. Si deve poi imporre un tetto alla remunerazione della Dirigenza, che non possa eccedere x volte lo stipendio più basso dell'impresa stessa. Negli anni ’90, in Francia scoppiò uno scandalo perché l’Amministratore Delegato della Peugeot, Jacques Calvé, percepiva una remunerazione 30 volte superiore a quella di un suo operaio. Carlos Ghosn, prima di finire in prigione, percepiva da Renault-Nissan 860 volte la remunerazione di un suo operaio, in un'azienda detenuta dallo Stato francese ! Vogliamo dire che ci si deve accontentare di 100 volte? Significherebbe che, in Francia, per un'azienda dove il salario più piccolo è allo Smic, cioè 1220 euro al mese, il patron deve accontentarsi di guadagnare 122.000 euro al mese.

Vaste programme? Non poi così tanto. La crisi economica del dopo-Coronavirus ci offre delle opportunità per fare dei passi avanti. Cerchiamo di cogliere e di farli i passetti, invece di inseguire chimere e... ritrovarci come prima.

Stefano Casadio e Pier Luigi Quaregna

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