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 474 - «Uno scandalo che dura da diecimila anni»

 

Come (non) si insegna la storia

Anche ai miei tempi, quand'ero ragazzo, a scuola c'era una materia che si chiamava «storia». Nelle elementari avevo appreso che il Duce aveva, qui e ora, restaurato l'impero romano. Presente e glorioso Passato si incontravano e si identificavano.

Poi, quando fu evidente che l'Impero non c'era più, l'insegnamento della storia si fermava a fine Ottocento. E c'era stato poco prima il Risorgimento, epoca zeppa di eroi. In seguito ci sono stati, per fortuna, parecchi cambiamenti. Ma confrontando la materia "storia" come si dovrebbe insegnare oggi, con quella che si insegnava ieri, sembra si tratti di discipline completamente diverse. Le informazioni e le riflessioni che seguono sono in gran parte tratte dal testo di Guarracino e Ragazzini Storia e insegnamento della storia (Feltrinelli 1980).

 

Eroi e povera gente

«Uno scandalo che dura da diecimila anni»: così Elsa Morante definiva la storia nel romanzo intitolato La storia, in cui il racconto della tragica vicenda di povera gente era intervallata, ogni tanto, da poche pagine in cui, in modo volutamente sintetico, si esponevano i fatti di quegli anni, come venivano presentati dalla storia ufficiale. Si intendeva così rovesciare la scandalosa prospettiva che pretendeva di relegare i "poveri" come delle semplici comparse, rotelline nell'ingranaggio mosso dalla Storia "vera".

In che cosa consisteva la cosiddetta storia tradizionale? Schematizzando, possiamo dire: 1) veniva operata una selezione molto limitata di «fatti», quasi esclusivamente riguardanti guerre e trattati, alta politica e diplomazia; 2) venivano privilegiate le vicende di alcuni «personaggi», trattati come veri e propri protagonisti di storie appassionanti; 3) la storia tradizionale riversava spesso la sua energia creativa sull'analisi dei documenti, in particolare «fonti scritte», soprattutto quelle ufficiali; 4) si attribuiva un ruolo privilegiato all'entità «Stato». Dal XIX secolo gli storici abituarono i loro lettori all'idea che i veri protagonisti delle vicende umane fossero gli Stati-Nazione.

Legittimamente, dovremmo invece domandarci: «Come vivevano i nostri "antenati", persone comuni le cui vicende non sono ricordate da documenti ufficiali? Da dove traevano i mezzi per vivere? Uomini e donne, non "grandi personaggi". Non protagonisti di sensazionali avvenimenti. Individui in carne e ossa, non il "Signor Stato"». Sono state certe domande a spingere a cercare nuove fonti, a trasformare in fonte ciò che giaceva inutilizzato. Cercando anche fonti "non intenzionali", cioè ciò che non è stato prodotto con la consapevolezza che più tardi sarà esaminato dagli storici. Lo studio degli archivi parrocchiali, ad esempio, ha consentito di far venire alla luce un'immensa quantità di informazioni sulle strutture demografiche delle società europee. Gli archivi notarili e quelli delle grandi famiglie di proprietari terrieri ci informano sulla natura dei rapporti di produzione vigenti e sulle condizioni di vita dei contadini. Fonti preziose sono anche i testamenti, gli inventari di biblioteche e di mobili e oggetti d'uso, le ricette mediche, l'inventario di una farmacia, le ricette di cucina. Possiamo così sapere come vivevano, si nutrivano, si ammalavano, morivano gli uomini di altri tempi, che cosa leggevano, che cosa temevano, che cosa immaginavano, che cosa giudicavano raffinato o volgare.

Cercando di rispondere alle domande poste dagli storici, la tecnica ha fornito nuove fonti. La fotografia aerea, l'analisi dei pollini, la datazione al carbonio 14, le tecniche della climatologia storica, l'analisi chimica dei metalli, ci restituiscono larghi settori del passato che sembravano fino a poco tempo fa perduti per sempre o perfino inimmaginabili. L'avanzare o l'arretrare dei campi coltivati di fronte al bosco o alla palude ci dicono sull'Europa dei secoli bui più di quanto possano rivelarci i cronisti dell'epoca. L'analisi chimica delle parti in metallo di un aratro o di una spada aprono alla nostra indagine interi scenari della storia della tecnologia.

 

Gli insegnamenti di un vaso da notte

Insegneremo la «storia dei re» o «la storia dei cavoli»? Cioè ci informeremo sui grandi fatti e sui personaggi famosi, oppure, per esempio, su come si alimentava la "gente comune"? Fu notato che l'umanità avrebbe certamente fatto a meno dei re ma non dei cavoli. Dunque: cavoli o re? Si tratta di una falsa alternativa. Anche la "storia dei cavoli" può ridursi a semplice "curiosità", non meno nozionistica della storia dei re. Occorre invece fare in modo che i fatti che possono apparire umili e insignificanti facciano valere i loro diritti. Le meschine e ripetitive pratiche lavorative di un qualunque contadino sono un fatto storico se riusciamo a scorgere in esse la diffusione di una innovazione agricola, il lento processo di dissodamento di un territorio. Mettersi a tavola all'ora del pranzo è davvero soltanto cronaca? Non è detto. Se stiamo osservando un processo di innovazione delle pratiche alimentari, come l'introduzione della patata in Europa, abbiamo a che fare con qualcosa di più sostanzialmente storico che l'essere inviati dal re a prendere parte a una guerra.

Un fatto, qualunque fatto, non è in sé né cronaca né storia; ma un fatto, anche se sembra "importante", diventa cronaca quando è ridotto a puro elemento di cronologia nella quale non troviamo né vita né passione. Consideriamo invece un piccolo fatto riportato da un cronachista dell'epoca: la storia di un vaso da notte vuotato sul capo di un passante il 16 agosto 1610. Proviamo a inserire tale fatto nella sua realtà. Esso avvenne a Saint-Germain-des-Prés, borgo parigino assorbito dall'espansione della capitale in crescita troppo rapida. Ma le abitudini dei parigini non erano ancora le più adatte a tale agglomerato urbano; il concetto di antigienico era ancora lontano dal nascere e anche la più semplice idea di ripugnanza verso lo "sporco" stentava a essere condivisa. Come risultato, sappiamo che Parigi era devastata da epidemie di ogni genere. Tuttavia «il documento sul vaso da notte» è significativo perché indica una trasformazione in corso. Se l'episodio increscioso è menzionato in un documento, vuol dire che non passa più tanto inosservato, che ci si comincia a preoccupare delle condizioni sanitarie della città. Presto comincerà a svilupparsi un sistema di fognature. E la peste gradualmente tenderà a scomparire. Così un piccolo fatto si collega a un intrico di fenomeni demografici, urbanistici, medico-sanitari, psicologici, culturali: attraverso tali procedure un evento umano, in sé e per sé fatto dell'esistenza, della vita quotidiana, fatto psicologico, diventa realmente fatto storico.

Seguendo vari filoni di ricerca, forse riusciremo a capire qualcosa del fenomeno di fissazione al suolo di bande di nomadi. È una trasformazione tante volte ripetutasi nella storia, a partire dalle invasioni della Mesopotamia sumerica fino agli Unni, agli Ungari, ai Turchi. La sedentarizzazione vede giocare variabili demografiche, geografiche, tecnologiche, culturali: un processo lento che richiede almeno un paio di generazioni. Eppure noi studiavamo (o studiamo?) sui libri solo la data della battaglia di Lech (10 agosto 955) con la quale Ottone di Sassonia avrebbe spazzato per sempre l'aggressività degli Ungari (che in verità avevano già avviato il processo di sedentarizzazione). È naturale che il carattere fulminante dell'avvenimento battaglia colpisca di più l'attenzione e la fantasia. Ma lo storico deve saper andare più a fondo, non tanto perché sa già come sono andate le cose dopo l'avvenimento, ma perché dovrebbe essere in grado di mettere in opera un orizzonte temporale più largo, tanto verso il passato che verso il futuro.

Per ogni periodo storico, per ogni orizzonte geografico preso in esame, occorre porci continue domande. Per tentare di rispondere alle più diverse domande occorre saper padroneggiare strumenti statistici, penetrare nelle tematiche antropologiche, esaminare le diverse strutture come, ad esempio, le strutture di un villaggio rurale. Più che imparare «fatti», occorre «ricostruire» questi fatti, sapendo compiere tutte le operazioni tecniche e mentali idonee. I materiali offerti all'analisi e al lavoro, compresi gli événements, si qualificano soprattutto per la loro capacità di riempire le caselle che andiamo ordinando.

 

Il passato e il futuro prossimo

«Gli uomini nel presente si abbaruffano, si arrabattano in un'ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre invece, guardando al passato, i "fatti" non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: che vi ci potete adagiare. Ammirando come ogni effetto segua obbediente alla sua causa, con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolga preciso e coerente in ogni suo particolare. Il piacere, il piacere della Storia, insomma, che è così grande!» (da Pirandello, Enrico IV). Pirandello distingue un passato, fissato per sempre, e un presente, teatro di un'angosciosa agitazione. Eppure abbiamo visto che, nella nostra percezione, il passato non è affatto «fissato per sempre» e può parlare a noi in modo sempre nuovo.

E in questa perenne novità come potremmo noi, nel 2020, essere visti e ascoltati dalle persone del 2100? È molto difficile, forse impossibile, rispondere a una tale domanda. C'è il rischio di cadere in una fantastoria, nella futurologia. Ma non possiamo evitare il problema. Altrimenti porremmo nuovamente una frattura tra passato e presente. Un presente in cui è difficile orientarci, in quanto caratterizzato da vertiginosi cambiamenti e allargato in un orizzonte sempre più "mondiale". Lo stesso Guarracino fa osservare criticamente che «la nouvelle histoire ha mostrato scarso interesse per la storia dei secoli XIX e XX, prediligendo il periodo XIV-XVIII secolo, prolungato spesso indietro, di rado in avanti».

Dovremmo invece prediligere il presente e il passato più recente. Dovremmo mobilitare fantasia e coraggio per incontrare, anche negli aspetti apparentemente banali e insignificanti, uno stimolo per una maggiore comprensione del tempo in cui viviamo. Sappiamo pure che una maggiore comprensione del passato, come del presente, può essere raggiunta soprattutto in quei settori in cui il processo storico si manifesta con tempi lunghi, attraverso strutture durature. È possibile individuare oggi nelle trasformazioni strutturali in atto, mutamenti che i nostri posteri saranno forse in grado di scoprire, maneggiare, padroneggiare? Potremmo, con cautela, suggerire tre filoni: l'andamento demografico, i cambiamenti climatici, la corsa agli armamenti. Ma davvero solo gli uomini del 2100 saranno in grado di comprendere a fondo tali fenomeni? Quando forse sarà troppo tardi...

Dario Oitana

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