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 473 - REGISTRO DI CLASSE 2019-2020 / 6

 

STORIA DI UN’ACCOGLIENZA FINITA MALE

15 ottobre 2019

Un caso difficile. La storia di Enrico, un allievo con ritardo cognitivo che ci ha dato tanti problemi, mi ha lasciato l’amaro in bocca. È complesso riassumere questo “caso” che ci ha fatto tanto discutere e litigare: ma riguarda un punto che ha rilievo costituzionale, cioè l’effettiva uguaglianza o, se si vuole, l’inclusione di tutti i cittadini.

Ho capito quali sono le difficoltà che si incontrano e come sia difficile lavorare in sicurezza. Io non avevo mai avuto prima un allievo disabile in classe, però sono abituato a trattare, anche al di fuori della scuola, con persone di vario tipo: dai malati terminali di Aids ai minori stranieri non accompagnati di San Salvario; questo patrimonio di esperienze mi ha "vaccinato" da un eccesso di ingenuità.

 

Una decisione combattuta. Enrico arriva nella nostra quarta a febbraio dell’anno scorso; con lui c’è sempre un insegnante di sostegno o un educatore, 18 ore sulle 18 in cui frequenta. Nel novembre precedente aveva buttato per terra con un cazzotto un'insegnante, che poi è stata parecchio tempo in malattia. Perciò era stato lasciato a casa e nessuna classe voleva più accoglierlo. Verso la fine di gennaio il preside si è attivato per cercargli una sistemazione. Chiede alle classi del liceo linguistico (anche se il ragazzo veniva dalla sezione tecnica della nostra scuola), nella convinzione che una classe prevalentemente femminile e di tipo liceale forse più facilmente lo avrebbe accolto. Ottiene risposte negative. Ma un intelligente insegnante di sostegno, che è anche filosofo e giornalista, Flavio, ha un’intuizione: nella classe in cui insegno anche io ci sono alcuni allievi che hanno mostrato una sensibilità particolare per i problemi sociali e per il disagio; forse, “partendo dal basso”, si riesce a convincere anche il gruppo dei docenti. Sentiamo l’obbligo morale di fare qualcosa: è l’ultima chance. A me sembra davvero la cosa giusta, anche se una parte delle energie verranno dirottate su di lui. Con l’assicurazione che il ragazzo sarà seguito personalmente per tutte le ore che starà in classe, accettiamo. Enrico ha 18 anni, è grande e grosso, puzza, spesso parla a sproposito, ha l’età mentale di un bambino; diventa facilmente irascibile anche perché non sempre prende i farmaci prescritti (calmanti).

 

Le prime esperienze. Lo vedo poco, perché raramente le sue ore coincidono con le mie. Ma riesco a instaurare con lui un buon rapporto: non mi fa “paura” e non ho il timore che possa aggredirmi. Dapprima procedo con cautela, poi vedo che capisce. I colleghi esperti ci dicono che la cosa più importante di tutte è non farlo sentire diverso. Quel che fanno gli altri, lo fa anche lui. Segue con un quaderno davanti, prende appunti, a modo suo. Svolgono un compito? Lo svolge anche lui, sempre a modo suo. Certo, non possiamo pensare a progressi intellettuali, ma la cosa importante per lui è stare bene in un ambiente con ragazzi come lui. Alcune ragazze avevano paura di lui fisicamente, oltre ad essere imbarazzate sia perché non è un campione di pulizia e di eleganza, sia perché a volte “ci prova” e si incolla al banco di qualche compagna. Del resto viene da una situazione domestica degradata: la madre con problemi mentali lo ha abbandonato, il vecchio e malandato padre vive con una prozia molto anziana. Ce l’ha coi comunisti («i professori sono tutti comunisti!»), coi preti, coi dipendenti statali, coi negri, coi "froci", con il mondo intero. È evidente che riversa a scuola i discorsi che sente a casa. Fa sorridere in questo contesto fargli leggere un’ottava di Torquato Tasso. Eppure l’ha fatto, ed era giusto così, anche se poi non ha compreso. Alla fine della quinta non prenderà un diploma, ma un attestato di frequenza.

 

Progressi e discussioni. Il padre di Enrico ce l’ha a morte con Flavio, responsabile del suo caso: in più di un’occasione lo tratta male. La scuola però risulta il luogo migliore dove può stare, anche perché serve a tenerlo distante da quel padre zotico e a fargli respirare un po’ di aria buona. Siccome in classe la situazione sembra sotto controllo, Flavio propone, come iniziativa ad experimentum su base volontaria, che gli insegnanti disponibili tengano Enrico nella loro lezione qualche ora in più delle 18 in cui è coperto. Enrico dovrebbe insomma stare in classe senza collega di sostegno. Ma l'iniziativa scatena un ridda di discussioni all’interno del Consiglio di classe.

 

Nuovi problemi. All’inizio di quest’anno Flavio ha avuto la cattedra sulla sua materia e ha smesso il compito di insegnante di sostegno. Questo cambiamento non poteva che essere foriero di problemi: nessuno come lui sapeva gestire i rapporti tra tutte le persone coinvolte in una situazione così complessa. Ma alla fine anche Enrico ha ricominciato a frequentare. Gli vengono assegnati nuovi insegnanti di sostegno, ma si sente la mancanza di qualcuno che si senta responsabile del “caso”. C’è un po’ di tensione in più, anche perché in quinta i ragazzi sono più protesi alla meta, ed Enrico a tutti gli effetti è un ostacolo. Lui è smaliziato, e si accorge a un certo punto che i compagni stanno più ore di lui (18 ore sono solo una parte dell’orario normale), chiede di rimanere più a lungo a scuola, perché lui – dice – «sta bravo, non fa niente di male». Col senno di poi, la sua richiesta suona come un grido di dolore, ma anche come un riconoscimento del senso ultimo del nostro lavoro: se non "ci siamo" per allievi con Enrico, per chi "ci siamo"? E così ogni giorno si ripete la stessa scenetta: terminato il suo orario ridotto, viene accompagnato, dall’insegnante di sostegno o da uno o due compagni (i due allievi che di fatto si sono accollati l’onere di stargli dietro: Lucia e Davide), al cancello della scuola, ma il padre non arriva: lo fa apposta e, quando arriva, a volte urla, anche contro la scuola, e lo istiga a rimanere. La tensione sale. Un giorno che Enrico proprio non se ne voleva andare, una collega, passando nel cortile mentre c’era una discussione, è intervenuta per farlo uscire fuori del cancello, (forse) apostrofandolo maldestramente. Lui ha reagito, gettandola a terra. Inutile descrivere le scene di panico che ne sono seguite, con l'arrivo di autoambulanze e volanti.

 

L'estromissione. Da quel momento l’unico imperativo è diventato: sicurezza, sicurezza. Dopo quell’episodio, grave, non è più stato possibile ripristinare la situazione precedente. Ricordo le prime parole del preside quando incontrò il nostro Consiglio di classe: «È nostro dovere di scuola pubblica accogliere tutti», e sottolineò con la voce il «tutti». Il mio consenso con lui non è mai stato più alto. Discussioni infinite tra allievi, anche durante le ore di scuola, tra docenti della classe, e perfino tra gli altri docenti a tutela della sicurezza dei lavoratori. Nei giorni seguenti Enrico si presentava al cancello e se ne stava ore ad aspettare. Il preside aveva avvertito le forze dell’ordine che, in caso avesse provato ad entrare, dovevano intervenire. La situazione è andata avanti così fino al giorno in cui, a seguito di un intervento deciso del preside per indurlo a tornare a casa, Enrico lo ha inseguito attorno alla scuola e gli ha tirato addosso un vaso di cemento. Sfiorato sulla caviglia, il preside è andato a farsi fare un controllo in ospedale.

 

La diffida. E così alla sicurezza è stato sacrificato ogni altro fine, e l’intento iniziale di accogliere tutti si è perso per strada. Questo brutto clima, infatti, ha portato a una riunione straordinaria del Consiglio di classe aperto a tutti, allievi e genitori: erano tanti, più del solito, e preoccupati. Ci furono anche gli interventi dei due allievi che più si erano dedicati a Enrico. Davide va diritto al punto, a costo di essere sgradevole: «Io ero contrario ad accoglierlo. Ma, dato che quella era l’unica soluzione possibile, pur contrario, ho cercato di fare tutto quel che ho potuto per aiutarlo. Non così gli altri: a parole erano favorevoli, ma poi di fatto lo hanno abbandonato al suo destino». Sguardi atroci delle compagne. Lucia esordisce con una frase che sembra venire da un altro tempo: «Il sistema è sbagliato, non funziona». Ovviamente Lucia si dichiara contraria alla diffida, e di fatto è l'unica a farlo. Ha ragione: se il “sistema” non permette di tenere a scuola uno come Enrico, non va bene. Per accogliere tali allievi dovrebbero essere investite migliori e maggiori energie; la funzione degli insegnanti di sostegno è pesante, a volte, e delicatissima: ma non basta una laurea per essere preparati; servono competenze professionali e relazionali non comuni. Da questo punto di vista la scuola non è pronta. Alla fine il Consiglio di Istituto ha ratificato ufficialmente la diffida a Enrico dall’entrare a scuola.

 

L’impotenza. Progressivamente Enrico è scomparso dalla nostra vista. Sono poi venuti altri guai: il Covid19, il lockdown, durante il quale alcuni di noi si sono chiesti con angoscia: che ne sarà di Enrico? Penso a quando il padre di Enrico mancherà. Chi lo accoglierà? Come sarà possibile contenere le sue forze fisiche? Passerà la vita a fare la larva?

Mi pare che la vicenda porti a fare due considerazioni. La prima è che tutti abbiamo dentro una paura congenita del “diverso”. Tutto ciò che non è come me potenzialmente mi fa paura. Una persona intellettualmente scarsa o disturbata nel comportamento, più ancora dell’handicap fisico, mi fa paura, indipendentemente dal resto. È una paura, non di quello che l’altro fa, ma di quello che l’altro è. Poi, certo, il fare diventa manifestazione dell’essere, ma è l’essere in sé che destabilizza e mette in questione l’essere che io sono. Ci vuole poco a capire che siamo fatti della stessa sostanza. E questo è come minimo un brutto pensiero. Se poi si aggiungono, e non è difficile, fatti incresciosi come quelli raccontati, allora dalla paura alla fobia, all’enfatizzazione della sicurezza come orientamento unico ed esclusivo della nostra società (lo vediamo in altri contesti), il passo è breve. La seconda considerazione ‒ ancora più angosciante, almeno per me, di sicuro per Lucia, forse per Flavio ‒ è constatare in modo sempre più consapevole che non possiamo “salvare” il mondo, e accettare questo non è facile. La “salvezza” del mondo non è (solo) questione di moralità, o di cuore. Anch'io cado nella trappola (moralistica?) di dire: avremmo potuto fare meglio; i compagni e i colleghi di sostegno potevano fare di più; alcuni colleghi di materia dovevano essere meno ottusi o anche offensivi; io stesso potevo fare di più. Davvero la vicenda di Enrico non avrebbe potuto finire diversamente? Ma non possiamo rassegnarci: dobbiamo «lottare per un mondo migliore», come dice Lucia. Dobbiamo agire come se tutto dipendesse da noi, – dice sant’Ignazio di Loyola – e pregare come se tutto dipendesse da Dio.

Antonello Ronca

(I nomi dei ragazzi sono ovviamente di fantasia)

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