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 461 - Elezioni europee

 

Un’altra Europa era possibile

 

Dai più remoti promontori rocciosi dell’Atlantico fino alle pianure della Russia sarebbe sorta una lunga siepe di monumentali Totenburge (rocche funerarie).

Sedi di onoranze ai morti in operazioni belliche, ma soprattutto monito e intimidazione al mondo e segno di una svolta storica. Costruiti in pietra viva e in stile classico, sotto la guida del prof. Wilhelm Kreis, responsabile fin dal 1940 del Comitato per la creazione dei cimiteri di guerra tedeschi. Quelli sulla costa Atlantica saranno rivolti verso ovest, perpetuo ricordo alla liberazione del continente dalla sudditanza alla Gran Bretagna e all’unificazione dell’Europa sotto la guida del popolo tedesco, che ne costituisce il cuore. Eredi di Atene e di Roma, i tedeschi sono barriera invalicabile alle forze caotiche e disgregatrici che, in ogni tempo, provengono dall’Asia.

 

La pax germanica

Così Joachim Fest in Hitler. Una biografia (Garzanti 2005), opera monumentale di approfondimento psicologico, oltreché storico, delinea un’Europa postbellica normalizzata con la pax germanica (pp. 980 sgg.). Un culto di morte, quella da dare agli altri, ma anche della propria morte. Nello scontro titanico non ci sono vie intermedie: o la vittoria con l’annientamento del nemico, o il disastro con la distruzione di se stessi. (p. 970). E così appunto finirà, nel Bunker di Berlino il 30 aprile 1945. Era anche previsto nel Generalplan Ost un grande insediamento di popolazioni tedesche nelle pianure russe. Gli abitanti locali avrebbero dovuto accettare una loro emarginazione, o andare incontro al puro e semplice sterminio, già programmato in ogni particolare. Era questo il “Giardino dell’Eden” previsto da Hitler per le terre dell’Est (p. 947). Le etnie sarebbero state rigorosamente gerarchizzate in Uebermenschen e Untermenschen e anche il popolo tedesco sarebbe stato organizzato secondo rigidi criteri di casta.

 

Juliek, il violinista di Varsavia

Negli stessi mesi dell’inverno 44-45 in cui il capo del nazismo, ormai completamente avulso dalla realtà, ripensava queste farneticanti prospettive, un giovanissimo Elie Wiesel viveva il disperato trasferimento da Auschwitz a Buchenwald insieme al padre che non sopravvivrà. «Restammo tre giorni a Gleiwitz… senza mangiare e senza bere. “Papà come ti senti ?” – domandai. “Bene!” – rispose una voce lontana, come se venisse da un altro mondo – “Cerco di dormire” … Si poteva dormire lì? Non era pericoloso allentare la propria vigilanza, anche solo per un istante, quando la morte in ogni momento poteva abbattersi su di noi? Riflettevo così quando sentii il suono di un violino … nell’oscura baracca dove dei morti si ammucchiavano sui vivi … Doveva essere Juliek, il ragazzo di Varsavia … Suonava un frammento di un concerto di Beethoven. L’oscurità era totale. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio. Suonava la sua vita. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Non so per quanto suonò. Il sonno mi vinse e quando mi svegliai, vidi Juliek di fronte a me, ripiegato su se stesso, morto. Accanto a lui giaceva il violino, pestato, schiacciato, piccolo cadavere insolito e sconvolgente» (La notte, pp. 92-94).

 

Uomini di frontiera

Il profilarsi di questo tipo di unificazione europea era cominciata il 1 settembre 1939 con l’aggressione tedesca alla Polonia e la rapida entrata in guerra di Francia e Gran Bretagna. E continuò a essere plausibile per oltre tre anni. Se infatti Mario Rigoni Stern giustamente ricorda che il primo rovescio militare fu inflitto ai tedeschi dai reparti siberiani, guidati dal generale Georgij Zukov, nell’autunno del 1941 (L’ultima partita a carte, pp. 69-70), la vera svolta a favore degli Alleati si ebbe solo tra il novembre 1942 (El Alamein) e il gennaio 1943 (Stalingrado). Del resto il recente film L’ora più buia rende bene il clima drammatico di quel maggio 1940 in cui pareva imminente l’invasione tedesca dell’Inghilterra con la sua probabile riduzione in uno stato simile alla Francia di Vichy. Resistere, come sosteneva Churchill, o trattare, come suggeriva Lord Halifax? Col senno di poi si può concordare con la rischiosa scelta di Churchill, anche perché gli Usa, le cui banche avevano robustamente finanziato il riarmo tedesco, avrebbero deciso l’entrata in guerra soltanto alla fine del 1941, dopo Pearl Harbor. A metà del 1942 tutta l’Europa continentale, eccetto la Svezia e la Svizzera, era direttamente o indirettamente egemonizzata dalla Germania e Hitler vedeva avverarsi il suo sogno di reincanare Carlomagno o Napoleone.

Dopo il 1945, con l’intera Europa ridotta ad un cumulo di macerie, alcuni statisti lungimiranti, uomini di frontiera (il renano Adenauer, il francese Schuman, nato a Lussemburgo, il trentino De Gasperi e alcuni altri) propongono un altro tipo di Europa. Non fu un movimento di popolo, ma un’iniziativa di élite. I pregiudizi non furono pochi, specie tra i francesi: «Ma come? Dovremmo costruire l’Europa con due Paesi vinti (Italia e Germania) e tre stati da operetta (il Benelux)».

 

La “morte” dell’Europa?

Il cammino fu lento e faticoso, a partire dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950. Furono create le prime istituzioni comuni fino all’Atto unico europeo (1986) che riordinò i trattati e diede agli organi comunitari l’assetto che attualmente conosciamo. Dopo di allora il processo d’integrazione sostanzialmente si bloccò essendo gli stati restii a cedere ulteriori poteri. Lo stallo politico fu aggirato nel 1992 con il trattato di Maastricht e l’introduzione della moneta unica. Chi sostiene che si doveva fare prima l’integrazione politica, dimentica che si scelse di fare una basilare scelta economica proprio perché non si riusciva nell’intento dell’integrazione politica. E per quanto sembri paradossale Maastricht segnò la «morte dell’Europa», si invertì cioè il senso di marcia (cfr. Sergio Fabbrini, Sdoppiamento, una prospettiva nuova per l’Europa, Laterza 2015). Negli anni successivi infatti venne meno proprio questa convinzione che era stata di Jean Monnet come di Jacques Delors, che l’economia avrebbe portato – inevitabilmente - una più stretta unione politica. Non solo ma, come osservò per prima Barbara Spinelli, il percorso dell’unificazione non fu più considerato irreversibile. Dopo il 1992 si è tornati a privilegiare la gestione intergovernativa dell’Unione, accentuando funzioni e poteri del Consiglio dei capi di stato e di governo rispetto alla Commissione, benché nel frattempo qualche rilevanza in più sia stata data al Parlamento. E con la bocciatura popolare, in alcuni paesi, dei nuovi trattati, la via verso uno stato federale si è completamente bloccata.

Negli ultimi dieci anni poi, in molti paesi, si è intensificata la rinascita dei nazionalismi, divenuti in alcuni casi forze di governo. Si sono moltiplicate le richieste di un’ Europa “minima”, poco più di un’unione doganale, e di un ritorno di sovranità (a partire da quella monetaria) ai singoli stati, se non di un’uscita tout court dall’Unione stessa. A onor del vero, dopo le convulsioni istituzionali e politiche che hanno afflitto il Regno Unito negli ultimi mesi più di un euroscettico ha ripensato criticamente alla prospettiva di seguire l’esempio inglese.

 

Un esempio per il mondo

Tuttavia questo è il quadro poco rassicurante nel quale siamo chiamati a rinnovare il 26 maggio prossimo il Parlamento Europeo. E per quanto l’Unione, proprio in conseguenza del ritorno agli egoismi nazionali, venga percepita quasi soltanto come un occhiuto controllore economico, è del tutto banale osservare che andrebbe ripreso al più presto il cammino verso la federazione. Cominciando dall’esigenza di una difesa comune e da un comune sistema fiscale e di bilancio, e ripartendo magari dai primi sei stati fondatori. Senza  mai dimenticare che cosa l’Unione ha significato per diverse generazioni, cioè pace e benessere crescente, come ha rilevato giustamente un saggio poco noto di Serena Zoli (La generazione fortunata, Lo speciale destino toccato a chi è nato tra il 1935 e il 1955, Longanesi 2005). John Kerry, Segretario di Stato con Barak Obama, spesso ci ricordava : «Voi europei non vi rendete conto di cosa avete fatto dal dopoguerra ad oggi, siete un esempio per il mondo» (cfr. Vera Zamagni, Perché l’Europa ha cambiato il mondo, Il Mulino 2015). Mentre un gruppo di intellettuali e storici francesi invita a non dimenticare la storia («Pour construire l’Europe, il faut reconstruire son histoire»), è assolutamente necessario evitare un ritorno al passato, scelta perdente e suicida. Certo è bello e giusto auspicare un’Europa più umana, tenendo però presente che avremmo potuto avere un’Europa molto meno umana di quella in cui abbiamo avuto la fortuna di vivere. Scoperchiato il vaso di Pandora dei nazionalismi, tutto diventa di nuovo possibile. Ci sono voluti settant’anni per costruirla, potrebbero bastare sette mesi per distruggerla.

Pier Luigi Quaregna

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