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 465 - Germania, il passato che non passa

 

Il lato oscuro delle belle parole

 

Di questi giorni ho ritrovato un vecchio dattiloscritto, trascrizione della prima lezione tenuta dopo la fine della guerra, nel febbraio del 1946, da mio nonno materno, a Berlino, e dedicata a Omero (il nonno era grecista).

Il nonno esprime gratitudine e stupore. Sembrava un miracolo poter ancora, o di nuovo, insegnare, leggere, studiare, condividere, imparare, dopo tanta distruzione, tante colpe, tanto orrore. E di poter incominciare, iniziare di nuovo. Incominciare di nuovo, certo. Aveva visto una intera generazione di studenti morire nella guerra, e tanti colleghi allontanati...

Non è assolutamente stata mia intenzione ingombrare o tediare con la implicazione prussiana e protestante, profondamente tedesca, intrisa di un profondo senso di colpa e forse ipocrita, di questo slancio. Volevo semplicemente condividere, e ricordare, la sensazione di quanto sia fragile e prezioso, e per nulla scontato, il dono di poter incominciare di nuovo ad insegnare e studiare, con gratitudine, con gioia, con stupore.

Ma forse ipocrita. Due frasi di questo bellissimo discorso del nonno materno continuano a tormentarmi, e farmi rabbrividire: Wir waren ja seit Jahren aus aller geistiger Arbeit herausgerissen (Da anni siamo stati strappati da qualsiasi lavoro intellettuale) scrive, e poi: Oder: wir haben doch wenigstens in den letzten Jahren eine Welt zusammenbrechen sehen (abbiamo comunque visto un intero mondo crollare).

Ma di quale lavoro, e di quale mondo, continuo a chiedermi, parla veramente? Vorrei tanto potermi illudere, e intendere quel lavoro solo come studio del mondo e delle lingue classiche, di testi omerici, e quel mondo come il Mondo di ieri, come lo chiama Stefan Zweig, che si era suicidato in esilio dopo aver dedicato la sua ultima opera a quel mondo, illusione forse anche quello, una Europa cosmopolita, colta e raffinata sepolta da due guerre.

Ma proprio qui, per l’appunto, mi assalgono i dubbi.

La fine. Fine della guerra. La cosiddetta seconda guerra. Berlino. La città, dicevo, sembrava un sito archeologico. Il professore attraversa questi canyon di macerie in bicicletta. La nonna e le bambine sono da qualche parte in campagna, lontane dalle bombe. Della casa, solo più una parete e una vasca da bagno sospesa nel nulla in alto al quarto piano. Libri e scritti andati in fumo. Il periodo 1933-45 cancellato. Ma stranamente, mi diceva la nonna, dopo, non sembrava una perdita, anzi. Ci si sentiva, diceva, come sollevati dal peso del passato.

Il peso del passato. Cosa intendeva? La domanda resta aperta. Verso la fine degli anni 30, e durante la guerra, questo mio nonno materno era stato anche uno degli editori di una rivista, intitolata Die Antike, organo di studi classici nel Reich. E quando il nonno inizia a curare questa rivista, pubblica una dichiarazione, mettendo i studi completamente a servizio della “Nuova Germania”. La Nuova Germania, erede della Grecia classica...

1933. Il nonno materno, il filologo, insegna all'università di Friburgo. A Friburgo insegna anche Heidegger. Era già un guru, e il nonno lo venera. E mentre bruciano i libri, Heidegger paragona questo sublime momento agli inizi della filosofia greca. Due volte soltanto, spiega, la umanità ha vissuto un tale risveglio, uno con l'inizio della filosofia greca, il secondo ora con l'avvento della Nuova Germania. Intanto viene vietato qualsiasi impiego pubblico, compreso l'insegnamento, ai non ariani. Il professore che ha la cattedra di greco a Friburgo, molto stimato anche dal nonno, non lo è, ariano. Il nonno gli consiglia di lasciare il paese, sarebbe più prudente in questo momento, e intanto tiene un emozionato discorso sulla Nuova Germania agli studenti. Fiaccolate notturne, libri bruciati. Il collega perde il posto, lascia il paese, va ad Oxford, dove si suicida. Il nonno prende il suo posto.

Bisognava pur insegnare ai giovani tedeschi, spiega dopo, i valori del patrimonio classico, del metodo scientifico, della cultura ellenica. Già, la cultura ellenica. E non dimentichiamo, come scrive speso in questi anni, e ancora qualche volta dopo, non dimentichiamo che gli Elleni erano un popolo di stirpe nordica... Cosa intendeva dunque veramente quando parlava di opera intellettuale, e di un mondo crollato? Domande che restano aperte.

Il nonno paterno raccontava tutta un’altra storia. Erano due mondi diversi, forse opposti. Il nonno materno, borghese, protestante, accademico, filologo e drammaturgo, colto, carismatico, vanitoso, dedicando tutta la sua vita alla cultura omerica e esaltando anche il suo aspetto eroico e guerresco, convinto dei così detti valori della cultura occidentale, venerato in famiglia e in pubblico come grande umanista, e l'altro, il nonno paterno, comunista, bigliettaio, soldato, grossista, imbianchino, guardarobiere, ferroviere e addetto al cimitero municipale, che ha vissuto sulla propria pelle tutte le disastrose conseguenze della funesta ideologia condivisa e propagata dal nonno materno.

Mentre un nonno pubblica un libro su Omero e la guerra di Troia, l’altro, di nuovo soldato a quarantaquattro anni, fa di tutto per non essere mandato al fronte. Sembra quasi una trama da Brecht.

Ma non è così semplice. Il nonno paterno l'ho conosciuto e amato, e ha potuto raccontarmi la sua storia. Del nonno materno ho solo conosciuto l'enorme vuoto che ha lasciato nella vita di mia madre e della mia nonna materna, che parlavano continuamente di lui, delle sue idee, di quanta gente importante avesse frequentato e cosi via, e l'ho ammirato tantissimo per tanto tempo. È sempre stata una figura mitica, remota e stranamente ingigantita da questa distanza, sfidando le leggi della prospettiva. E anche adesso, avendo poco per volta scoperto i lati oscuri di quello che una volta ammiravo, la sua figura rimane distorta da sensi di colpa, da dolore e vergogna. Da domande che rimangono aperte.

Mentre il nonno materno scrive un libro sulla guerra di Troia, quello paterno tenta di tutto per non essere dichiarato idoneo al servizio, beve cenere di sigarette diluita nell’acqua, qualcuno gli ha detto che questo provoca scompensi del battito cardiaco. Il verdetto è: Lei ha il volto del soldato Tedesco. Dunque di nuovo in divisa. Dopo la esperienza della prima guerra, adesso il suo unico scopo è di non essere mandato al fronte. Si offre volontario per qualsiasi incarico, da il bianco affermando di aver fatto l'imbianchino per anni, poi fa la maschera in un night, accompagna ufficiali con le loro signore ai loro tavoli. Piace con il suo sguardo malinconico. Diventa assistente capostazione nella stazione di Dresda. Deve coordinare il movimento dei treni... Treni che vanno a est e verso la morte, pieni di soldati mandati al fronte russo, e deportati diretti verso i campi della morte.

Almeno a questa domanda, ho finalmente avuto una risposta. Il fatto che ho avuto questa risposta solo ora, da un padre ottantenne, e quasi ottant’anni dopo l’orrore, e forse sintomo del male tedesco, del nostro silenzio, della nostra vergogna, del nostro passato che non passa. Testimonianza passatami quest’estate da mio padre. Pare che questo nonno paterno, quando ha visto il suo primo treno diretto verso i campi della morte fermarsi nella stazione di Dresda, sia corso dal suo capo. Sconvolto. Un treno da bestiame, colmo di persone! Donne e bambini, grida,ma questi hanno bisogno di acqua, di soccorsi, subito, dobbiamo fare qualche cosa! Il capo lo fissa, immobile, poi risponde lentamente: Tu non hai visto proprio niente. Non puoi aver visto niente. Questi treni non esistono. Un treno fantasma. E la risposta del nonno non poteva essere altra che battere i tacchi, e tentare un: Jawohl! Zu Befehl! Spero, o forse mi illudo, di vederlo almeno sgranare incredulo e inorridito tristi occhi da Charlot.

Nel caso del nonno materno invece, nessuna risposta. Mia madre non ha mai veramente voluto, né potuto affrontare le mie domande, né il mio silenzio. Le domande che non ho mai veramente osato fare. Rimangono il dubbio, il buio, il pozzo nero del passato.

Bernhard Arnold

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