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Il passo randagio e le spalle oppresse

 

Alcuni allievi della scuola elementare accarezzano affettuosamente la pietra d'inciampo che, tra poco, sarà fissata nel marciapiede.

Abitava qui in Piazza Statuto, aveva 24 anni e lavorava in una salumeria che confezionava salami d'oca. Apparteneva alla comunità ebraica. Claudio Pescarolo, classe 1920, arrestato in strada, forse per delazione il 22 giugno del 1944, deportato ad Auschwitz, non è più tornato. Quelle carezze sulla fredda targa di ottone gli restituiscono un po' di umanità negata e soprattutto ne fanno memoria. Da numero anonimo, Claudio Pescarolo torna ad essere persona: un nome, un cognome , una casa in cui ha abitato. Grande merito dell'iniziativa dell'artista tedesco Günter Demnig è quello di fare a ritroso il percorso dei nazisti, le cui vittime erano ridotte da persone a Stücke, pezzi numerati. In Europa sono ormai più di 90.000 le Stolpersteine, a Torino oltre 150. Ogni anno se ne aggiungono alcune, talora di vittime di cui si era persa memoria, anche tra i parenti, col passare delle generazioni. L'importanza della scuola, la sensibilità dei docenti e la conoscenza della storia risultano essenziali nel mantenere vivo il ricordo. Non sempre accade. Parafrasando R. Musil: «Se uno viene cancellato dalla schiera dei mortali, non entra subito al suo posto un altro, per far dimenticare il defunto, ma resta un vuoto dov’egli manca…».

 

Prosperità, disgrazia, morte

C’è un’altra strada per riandare al passato tragico della deportazione e dello sterminio. Ed è quella degli archivi fotografici famigliari. Ben Torah, nome di antichi ebrei spagnoli, gli studiosi, i figli della legge, in italiano diventa Ventura. Ed è della famiglia Ventura che Paolo Ciampi ricostruisce la memoria dal 1927 al 1945, nei quattro capitoli del libro Una famiglia (Giuntina 2010).

Anna Terracina e Luigi Ventura si sposano a Roma, il 22 maggio 1927. Sono una bella coppia. «Di quella bellezza che emerge dalla pulizia e dalle speranze di un’età ancora acerba». Lui, pisano è laureato in chimica, lei di famiglia romana, è maestra d’infanzia. Famiglie di ebrei profondamente italiani. Il padre di Luigi ha parenti che si chiamano «Palermo, Milano, Torino ed Emilia in omaggio al Risorgimento». Famiglie benestanti, non a caso il primo capitolo è intitolato Prosperità. Il fascismo è all’anno V e Luigi ci ha creduto da subito, si è iscritto e ha partecipato alla “marcia su Roma”. Del resto in quel frangente di ebrei ce n’erano 350 e tra i “martiri fascisti” della prima ora, morti ammazzati, tre erano ebrei. Ma la speranza che Mussolini rimettesse in sesto l’Italia dura poco, arriva il disincanto e una certa indifferenza. La sua attenzione piuttosto è attratta da quel che accade in quegli anni in Palestina.

La carriera di Luigi procede con diversi datori di lavoro e nascono Miriam e Saul. L’entrata in vigore delle leggi razziali trova Luigi alto dirigente della Zecca di Stato. Licenziato in tronco il 10 novembre 1938. È l’inizio del piano inclinato verso l’abisso, il primo passo della discesa agli inferi. Si pensa all’estero. In Svizzera ha amici, ma non conclude nulla. In Francia ha altri amici. Luigi parte per Parigi dove riesce a trovare un buon posto in un’industria automobilistica. Cerca casa per l’arrivo della famiglia. Intanto sono nati Daniele ed Emanuele, ma l’Italia aggredisce la Francia e Luigi resta coinvolto nel caotico esodo da Parigi dovuto all’occupazione tedesca. Come nel grande affresco di Irène Némirovski, in Temporale di giugno, anche Luigi Ventura, con grande fatica e con i mezzi più diversi riesce a tornare in Italia. Disgrazia è il secondo capitolo. Si stabiliscono a Milano, dove avevano abitato in tempi felici, fino ai grandi bombardamenti dell’autunno 1942, quando sfolleranno verso il comasco. Ma il cerchio si stringe. La costituzione della Repubblica Sociale li coglie in Lombardia, ormai quasi in povertà. Saul fa il garzone di un falegname e poi di un calzolaio. La Carta di Verona è chiara: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Il 30 novembre 1943 i prefetti ricevono l’ordine che prevede l’internamento di tutti gli ebrei. Casualmente il giorno successivo Anna rientra nella casa di Milano per prendere alcune medicine per curare la madre. Due carabinieri l’arrestano. San Vittore, Fossoli, Auschwitz (con lo stesso treno che trasporta Primo Levi e i suoi amici). Non tornerà. Fino a quando potrà scrivere ai suoi, cercherà di rassicurarli e incoraggiarli con parole affettuose e struggenti: «Carissimi, salute ottima, morale altissimo». Queste le sue ultime parole, vergate su una cartolina, che una mano pietosa raccolse lungo i binari e spedì da Ponte Gardena.

A Pisa l’ospedale è quasi privo di medicine e Luigi si offre di fare la spola con Milano per portare qualche rifornimento, lo accompagna il figlio Saul. Sono viaggi pericolosi e lenti. I treni sono pieni di soldati italiani e tedeschi, i controlli frequenti e le valigie pesantissime. Il 20 maggio 1944 la ferrovia è interrotta, una corriera la sostituisce. Bersaglio ideale per il mitragliamento a bassa quota di un aereo alleato. Luigi è ferito, ma, sembra, non gravemente ed è ricoverato a Pisa. Muore invece nella notte. Aveva 44 anni. Morte è il titolo del terzo capitolo.

Sono rimasti i ragazzi. Miriam 16 anni, Saul 14, Daniele 7 e Emanuele 4: senza genitori, affamati, senza una casa, braccati dai volonterosi carnefici di Hitler. Come le figlie della Nemirovski, nascoste nelle grotte vicino a Bordeaux.

 

Rinascita

Ridotti allo stremo, i quattro orfani tra code al mercato per raccogliere qualche avanzo e al convento per una ciotola di minestra, vivono nel pericolo continuo di essere riconosciuti e Miriam trova pure il tempo di fare la staffetta partigiana, distribuendo i volantini che riportano i comunicati di radio Londra. Giunge infine il 2 settembre 1944, giorno in cui la prima pattuglia americana entra a Pisa.

Mancano ancora 8 mesi alla fine della guerra, ma Miriam e i suoi fratelli pensano già alla Rinascita (quarto e ultimo capitolo) che ha un nome, Palestina. Si spostano a Firenze, dove lavorano con varie organizzazioni ebraiche e si preparano ad emigrare. Un viaggio in treno li porterà nel 1945 a Brindisi per l’imbarco. Lasciano una patria che avevano amato e che li aveva rinnegati, emarginati, uccisi. Possiamo immaginare e guardare con profondo rispetto e ammirazione allo spirito che spingeva questi ragazzi, precocemente maturi, verso la “terra promessa”. Daranno luogo a numerosa progenie, alcuni torneranno a rivedere l’Italia, altri no.

Ma anche in queste vicende la storia è andata in una diversa direzione. «Abbiamo amato in loro la memoria del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi», diceva Natalia Ginzburg parlando dei sopravvissuti allo sterminio («La Stampa», 14.9.1972) e aggiungeva: «Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo Paese, inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria».

Pier Luigi Quaregna

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