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La vita spezzata della “signorina” Calabresi

 

Era nata a Ferrara, nel 1891. Una città generosa con il mondo e la cultura ebraica fin da quando, nel ’400, aveva accolto molti fuggiaschi perseguitati dalla penisola iberica, dalla Germania, ma anche da Roma e da Napoli.

Sorgono sinagoghe, scuole e cimiteri. L'intraprendenza dei membri della comunità li porta a una certa agiatezza e in genere a un alto livello culturale. Gli uomini e anche le donne frequentano l'Università, cosa rara nella società italiana tra ’800 e ’900. Si chiamava Enrica Calabresi. Dopo la licenza liceale, con un anno di anticipo al Liceo Ariosto, si trasferisce nel 1910 a Firenze, presso una vecchia zia che la ospita, per frequentare il Regio Istituto di Studi Superiori. Qui potrà seguire la sua passione per le scienze naturali. Prima ancora della laurea, ottiene un posto di assistente effettivo.

 

Il soffio leggero della felicità

Poco dopo si fidanza ufficialmente con Giovanni Battista De Gasperi, conosciuto all'Università ma nato ad Udine: gran montanaro e appassionato di viaggi ed esplorazioni. Ma la sua felicità è un soffio leggero. L'Italia entra in guerra e Giovanni è volontario. Ufficiale degli alpini, è un coraggioso e un temerario. Già nei primi giorni del giugno 1915 viene decorato con una medaglia d'argento. È lo spirito del tempo che non gli impedisce tuttavia di cogliere l'assurdità orrenda della guerra. Gli accade infatti di catturare un tirolese e di dividere il pasto con lui. Anche l'austriaco è un volontario, un alpinista, un naturalista. Si promettono di ritrovarsi dopo la guerra su quei monti a cui sentono di appartenere. Ma non accadrà. Nella primavera del 1916 scatta la Strafexpedition, per punire l'Italia della rottura della triplice alleanza e dell'entrata in guerra. Giovanni è in prima linea e muore il 16 maggio.

D'impeto Enrica chiede di andare al fronte come crocerossina e presterà la sua opera negli ospedali militari fino alla fine delle ostilità, toccando da vicino tragedie, dolore e morte. Non avrà altri uomini, vestirà solo abiti scuri, taglierà le magnifiche trecce tizianesche. Sulla sua scrivania la foto di un ragazzo in divisa. «Un amico morto in guerra», risponderà a chi le chiede chi fosse. Da allora sarà solo «la signorina Calabresi».

Gli anni tormentati del primo dopoguerra la vedono intenta a esami e concorsi, che vince agevolmente fino alla libera docenza. Ciò le consente di ricoprire incarichi annuali sempre riconfermati fino al 1933, quando lascia l’Università, apparentemente di propria volontà. In realtà la fascistizzazione degli studi superiori ha fatto passi da gigante e occorre far posto ai fedelissimi. Uno di questi è il conte Ludovico di Caporiacco, volontario in guerra, iscritto al partito dal 1921 e partecipe alla marcia su Roma. Quella “zitella” della Calabresi, garbatamente antifascista, cosa pretende? Viene accantonata perché ebrea? No. Non è ancora tempo, più probabilmente e semplicemente perché donna. Caporiacco, tra l’altro, sarà nel ’38 grande paladino delle teorie razziste.

Nella comunità ebraica di Firenze che Enrica non frequenta, come non va in sinagoga essendo sostanzialmente agnostica, prevale un atteggiamento filofascista. Persino il nuovo rabbino Kalmann Friedmann si iscrive al partito e le sedute del consiglio si aprono con il saluto al Duce. Si defila solo il gruppo dei sionisti e ciò contribuisce a far sì che la professoressa si avvicini alle loro idee. «Un luogo nel mondo in cui gli ebrei possano vivere liberi e in pace». Il lavoro scarseggia, con l’iscrizione al partito qualche porta in più si apre, e allora con disgusto la signorina Enrica fa questo passo nell’autunno 1933, anno in cui inizia a insegnare nelle scuole superiori, tecnici e licei. Avrà, tra gli altri, come allieva Margherita Hack, che la ricorda al momento dell’espulsione nel 1938 e si rammarica per non aver avuto allora il coraggio di manifestarle solidarietà.

 

La strada verso l’abisso

Tenta di ottenere un nuovo incarico all’Università di Firenze, ma il clima è peggiorato e le porte sono chiuse. Lo ottiene a Pisa. Intanto la vecchia zia è morta e lei si trasferisce, di pochi passi, in via del Proconsolo 11, dove sarà arrestata, da fascisti italiani, nel novembre del 1943. La strada verso l’abisso è segnata, ma vi si procede ancora a piccoli passi.

Enrica è anche poliglotta. Conosce bene il francese e il tedesco (allora la lingua dei chimici) e perfettamente l’inglese, cosa rara per quei tempi in cui la lingua colta per eccellenza è ancora il francese. Ciò le permette di frequentare agevolmente la comunità inglese di Firenze, la più numerosa d’Europa dopo Parigi e di leggere opere scientifiche e letterarie in lingua originale. Matura una grande ammirazione per il mondo anglosassone, ma non viaggerà mai. I suoi spostamenti si limitano a scavalcare l’Appennino, per recarsi d’estate a Gallo Bolognese, dove ritrova la famiglia d’origine.

Dopo la presa del potere di Hitler inizia la Judenreinheit o degiudaizzazione. Il periodico ebraico fiorentino «Israel» ne dà notizia e fin dal 1934 il «Corriere della Sera» titola Ebrei antifascisti al soldo dei fuorusciti. L’escalation, diremmo ora, è graduale ma costante fino all’agosto 1938, quando Enrica è licenziata in tronco sia dal Liceo che dall’Università. Ma anche gli alunni si trovano senza scuola e allora con straordinaria rapidità nel centro ebraico di via Farini si aprono classi elementari, medie e superiori ed Enrica sarà l’insegnante di scienze. Illustri docenti universitari di varie discipline impartiranno lezioni a bambini e ragazzi, che, come privatisti, a fine anno, in genere supereranno gli esami con ottimi risultati. Le classi sono piccole, ci si siede tutti attorno allo stesso tavolo. Enrica, mai assente, mai in ritardo, si prodiga senza risparmio. E gratuitamente, a casa sua, continua nel pomeriggio ad aiutare chi ha difficoltà. Una reazione di cultura e civiltà, da parte di tutta la comunità ebraica fiorentina, di straordinario livello.

Con le difficoltà crescenti provocate dalla guerra la vita continua comunque regolare fino alla sera del 25 luglio 1943, in cui pare che il regime ventennale crolli in una sola notte e la gente si riversi nelle strade in preda a incontenibile gioia. Dopo un’estate d’illusioni Enrica è colta dall’8 settembre ancora in vacanza a Gallo Bolognese. I suoi non vorrebbero lasciarla partire, ma il suo posto è a Firenze e vi ritorna nei primissimi giorni dell’occupazione tedesca. È un abbandonarsi al proprio destino. Penso ad altre figure, come Irène Némirovski che pochi giorni prima dell’arresto fa testamento e scrive al suo editore: «Le mie saranno opere postume, suppongo…». O a suo marito Michel Epstein che fa sempre preparare un posto a tavola per la moglie, in attesa del suo ritorno. Si rivolge senza successo al governo di Vichy. Anzi è arrestato anche lui con destinazione Auschwitz, via Creusot e Drancy. Avrebbero forse potuto salvarsi in Svizzera, ma non si muovono. O anche a Primo Levi e a una commovente, bellissima mostra presso l’Archivio di Stato di Torino il cui titolo faceva press’a poco «A noi toccò in sorte questo tempo», in cui erano esposti i ricordi di giovani appena laureati, al tempo dei programmi e delle illusioni, nella gioia sconfinata dei 20 anni.

 

Futuro rubato

Mentre la sua famiglia riesce a riparare in Svizzera, passando appena in tempo la frontiera tra Tirano e Poschiavo, Enrica a metà novembre è arrestata e rinchiusa nel carcere delle Murate. Da tempo porta con sé una fiala di veleno. Il panorama si chiude e le voci di “trasporti” in Germania si infittiscono. Il 18 gennaio compie il passo estremo. Dopo due giorni di agonia e di cure ormai inutili, Enrica muore nelle prime ore del 20. Meno di 7 mesi dopo Firenze è liberata. Ma soltanto nel luglio 1945, i suoi potranno raccogliere notizie sulla sua fine. Di lei si attenua ogni ricordo, anche della sua competenza scientifica di valente entomologa. Un passo leggero e discreto che svanisce nel nulla.

Solo dopo 60 anni la tenacia e la bravura di Paolo Ciampi, in un testo tanto ben scritto quanto mirabilmente documentato farà rivivere la vicenda umana di questa straordinaria persona. Rintraccia lontani parenti, consulta archivi pubblici e privati, ricostruisce ambienti con pazienza certosina (Un nome, Giuntina 2006). «Più che morta Enrica pare si sia dissolta, insieme a tutto quello che per oltre mezzo secolo ha sognato e desiderato…e mi viene da pensare che quello che con lei si è perso è sì tanto, ma è meno del futuro che le è stato rubato: un cumulo di potenzialità inespresse, di opportunità mai colte, di giorni che avrebbero potuto essere vissuti e goduti» (p. 209). Enrica è sepolta a Rifredi, alla periferia della sua amatissima Firenze. Una semplice lapide con la stella di David, i dati essenziali, in parte ormai illeggibili. E sotto una sola parola, in caratteri ebraici: Shalom.

Pier Luigi Quaregna

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