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 351 - Lettera dai paesi arabi mediterranei

 

DI CHE COSA PARLATE QUANDO PARLATE DI DONNA ARABA?

 

Ho quasi trent’anni. Se vivessi lì da voi sarei una giovane donna, ma non qui, in questo paese arabo progressista e in pieno sviluppo. Seguo con interesse quanto accade nel cosiddetto Occidente e in particolare in Italia dove sono anche stata qualche volta.

Premetto subito di essere «comunista» (almeno nell’accezione che il termine ha da noi e quindi non necessariamente nella vostra) e «femminista» (anche per questo termine vale la precisazione di prima). Aggiungo di fede musulmana per tradizione. Mi sono laureata, con il massimo dei voti, e lavoro nel giornalismo.

Bene, ciò detto vengo al perché di questa mia lettera che vuole mettere in evidenza come il modello socio-economico, verso il quale anche noi ci siamo incamminati, abbia un maggior peso sulla condizione femminile qui che lì. Dico questo non per una questione esclusivamente personale ma per presentare un aspetto che, per quanto conosco, non viene dibattuto da voi quando si parla della condizione della donna araba. Credo di poter dire che spesso vengono dette tante, troppe, parole da parte di chi discute della realtà vivendola da privilegiato, spesso due volte, perché uomo e intellettuale, senza conoscere la vita di tutti i giorni.

Così la precarietà del lavoro (anche da noi ormai un’assunzione a tempo indeterminato rappresenta una meta irraggiungibile) se per i giovani rappresenta un serio problema per noi donne ha conseguenze ben più gravi. Ancora oggi, nonostante i passi fatti in avanti, forse più apparenti, nella liberazione della donna, i venticinque anni rappresentano l’età entro la quale una giovane deve prendere marito. Il non farlo comporta l’essere guardata con sospetto non solo dai vicini di casa ma persino dalle persone che ti sono accanto. Se si vuole godere di una certa libertà occorre essere economicamente indipendenti. Solo così ti viene concesso dalla famiglia e dalla società quello spazio che ti serve per vivere. Ma se dipendi dalla famiglia allora ricadi nel legame tradizionale che, comunque sia, resta estremamente vincolante. Vorrei sapere di cosa parlano i tanti esperti che vedo in televisione (la parabola oggi ha allargato il nostro sguardo sul mondo) quando discutono dei problemi della donna araba, magari alla luce degli insegnamenti del Sacro Corano. La realtà è un’altra cosa. Lo sanno che ci sono non poche donne che aspettano di andare in pensione dal lavoro in un ente pubblico per potersi velare [Ndr. in alcuni uffici pubblici è vietato l’uso del velo]? Lo sanno che se vuoi rientrare in famiglia devi sottostare a quella che è la tradizione che si riteneva appartenere ad un lontano passato? Questo significa che se dipendi dai parenti allora ti viene cercato un marito. Una volta ti era imposto, ora puoi rifiutarlo. Ma non più di tanto. In genere è comunque un uomo che non hai incontrato e conosciuto tu. Ci sono donne poco più che trentenni che dovranno sposarsi con il “buon partito”, magari vedovo e con figli. Per dire “no, io non accetto questa imposizione” devi andartene di casa per vivere da sola tra mille difficoltà e sempre sotto l’occhio attento e severo della collettività. Via impossibile da percorrere se il tuo lavoro è precario e così la giovane donna araba non può non essere esposta al ricatto famigliare. Scusate se la lettera ha preso questo taglio ma è stata scritta di getto. Ci si stanca a sentire chi, oggi come ieri, parla senza conoscere le cose.

E adesso: il «comunismo», o «sinistra». Forse qui non dirò niente di nuovo. Come ho già detto non sono così dentro alla politica da poter fare analisi rigorose. Aderisco (sarebbe forse meglio dire nel mio caso riservo la mia «simpatia») ai suoi principi, ai suoi valori, in una sola parola «idealità», ferma restando la condanna per tutto il male che è stato fatto in suo nome. Ma qui da noi ogni giorno si deve prendere atto di come i valori dell’eguaglianza (fratellanza), vengano calpestati. I «nuovi padroni», che si dichiarano e sono riconosciuti di sinistra, sono e restano ingordi imprenditori come gli altri. Sono (ma potrei sicuramente dire siamo) molto delusa in questo momento. Mi sembra che tutti i valori in cui ho creduto (il sacrificio, lo sforzo, la dignità del lavoro, la libertà, la volontà, ecc) non abbiano nessuno senso oggi.

Qualche volta mi torna in mente un verso della canzone dei Nomadi che ascolto di tanto in tanto. Dice: «io voglio vivere ma sulla pelle mia». Già, sulla pelle mia. Per questo ci sono giorni in cui mi chiedo se sia ancora possibile fare la propria strada con dignità in questo mondo di capitalismo, di individualismo e di opportunismo. Posso assicurare che i valori di sinistra da noi non sono più di moda. Almeno nel passato qualcuno ci ha creduto e per quei valori è morto. Noi giovani che abbiamo sognato un mondo migliore ci troviamo con la mediocrità dappertutto. Non c’è niente di rivoluzionario in quello che dico. C’é solo un’esistenza soffocante da vivere.

Certo quanto ho scritto non rappresenta alcuna analisi profonda e compiuta della condizione femminile in un paese arabo. Per questo ci sono le tavole rotonde di quelli che sanno. La mia è solo una testimonianza terra a terra. Quella terra su cui noi, bene o male, dobbiamo vivere. Tutti. Anche noi donne arabe.

[Questa lettera è stata scritta sulla base di comunicazioni avute via internet con giovani donne arabe residenti in paesi dal bacino del Mediterraneo]

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