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 3 [dicembre] - I RACCONTI DELL’INFANZIA 4/5

 

CONCLUSIONI E RIFLESSIONI FINALI

È un problema colossale per il Nuovo Testamento (come per tutta la Bibbia): dopo tutti questi sviluppi, livelli diversi, dislivelli, aggiunte, riletture e interpretazioni differenti, che cosa dobbiamo tenere, ritenere, mantenere?

Che cosa dobbiamo scegliere, se siamo costretti a scegliere? E non è detto che si debba sempre prendere l’ultima redazione, l’ultima versione del testo, soprattutto quando quest’ultima sembra annullare o minimizzare il resto!

Ma forse esiste un’altra via, che è quella di distinguere e di tenere distinti i vari livelli, e quindi prendere dal singolo livello il suo significato ed insegnamento; avremmo quindi un livello/significato/insegnamento 1, un livello/significato/insegnamento 2, e così via. A questo punto, e solo a questo punto dopo aver fatto tutto il lavoro d’analisi comparativa, è possibile (e pure giusto per la propria spiritualità ed esperienza di fede vissuta) quasi prescindere dalle discrepanze evidenziate.

Ecco alcuni esempi concreti:

 

1)   La pericope del paralitico in Marco 2,1-12: dopo aver distinto i due livelli (quello della guarigione, e quello temporalmente successivo del perdono dei peccati) accogliere entrambi i significati ed insegnamenti. Il primo è relativo alla guarigione del malato (l’attività storica di Gesù guaritore), e poi il secondo relativo al perdono dei peccati; in questo caso abbiamo una indubbia positiva integrazione, ma pure un rischio da evitare. La salvezza operata e portata da Gesù non è tanto, o non è solo un fatto fisico di “salus” ma pure spirituale (di perdono, di conversione) volto al fiorire della vita in tutti i suoi aspetti (i due significati si integrano, non essendo per nulla in contraddizione).

L’indubbio rischio (e qui bisogna tenere i due aspetti rigorosamente distinti), è quello di insinuare pericolosamente un rapporto di causa-effetto tra peccato e malattia, come se l’infermità fosse un castigo per i peccati vuoi del paralitico, vuoi dei suoi genitori (relazione duramente contestata da Gesù almeno due volte esplicitamente: in Lc 13,1-5 e Gv 9, nel racconto del cieco nato: «Né lui né i suoi genitori hanno peccato…»).

 

2)   La parabola del seminatore: abbiamo il primo livello della parabola sulla bocca di Gesù, che non è per nulla un’allegoria, ma fa perno sulla progressione verso il meglio (un’idea unica, tipica delle parabole),e significa sbrigativamente: come il seme arriverà a produrre frutto, e frutto in abbondanza (trenta, poi sessanta, poi cento per uno), nonostante gli insuccessi, le dispersioni e le difficoltà iniziali, così sarà, diciamo, del regno di Dio, dell’annuncio e del messaggio evangelico.

Abbiamo inoltre un secondo livello (quello della/e comunità primitiva/e), di stampo chiaramente allegorico (messo in bocca a Gesù ma non di Gesù) che paragona i vari terreni alle varie categorie degli uomini a seconda del loro accogliere o meno la Parola. Il fatto stesso che si parli di “persecuzioni” è un segnale inequivocabile che il Sitz im Leben (l’ambiente di vita, il contesto vitale ed esistenziale) da cui è nato il testo, è quello della comunità primitiva e non quello relativamente tranquillo di Gesù che coi suoi discepoli percorre le strade e i villaggi della Galilea intorno al mare di Tiberiade.

Anche se Gesù percorreva i villaggi della Galilea (la cui bellezza è descritta dallo stesso G. Flavio, nel meraviglioso splendore delle valli, delle colline e delle campagne fertili e ricche di pascoli, con alberi da frutta e di ogni tipo, il sole, l’aria tersa) e disdegnava la grande città, è tuttavia sorprendente che Sefforis e Tiberiade, le due più grandi città della Galilea, non siano mai menzionate nei vangeli (questo la dice lunga sul fatto che i vangeli non siano delle biografie della vita di Gesù…).

Abbiamo pure un terzo livello (quello redazionale), piuttosto imbarazzante e criptico, secondo cui Gesù parlerebbe in parabole perché «ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano…».

 

a)   Primo livello/significato/insegnamento: un’iniezione di fiducia sul fatto che il Regno, il messaggio e l’opera di Gesù arriveranno a produrre frutto.

b)  Secondo livello/significato/insegnamento: le varie categorie di uomini, e soprattutto coloro che accolgono la Parola e la mettono fruttuosamente in pratica. Si tratta di un significato collaterale, parallelo al primo (senza alcuna contraddizione), anzi abbiamo una vera e propria integrazione, perché le difficoltà e le dispersioni del seme sono dovute anche e soprattutto alla mancata o insufficiente accoglienza umana.

 

c)      Terzo livello/significato non saprei dire quale possa essere l’insegnamento,  date le difficoltà interpretative; ma, ahimé, questo è il caso in cui un livello posteriore è in contraddizione almeno col primo livello/significato, perché Gesù parlava in parabole proprio per farsi capire dai pescatori, pastori, seminatori illetterati della Galilea, i quali però coglievano al volo l’idea unica, centrale e semplice della parabola, proprio perché abituati a tale genere letterario raccontato. Dovevano solamente alla fine effettuare un semplice trasferimento-ponte (uno solo finale, e non 6/7 come nell’allegoria), alla portata anche di un analfabeta, per capire che Gesù non voleva fare affermazioni sulla semina ma parlare di se stesso, meglio della fecondità procrastinata della sua opera, missione, causa, messaggio…

È vero che non avrebbero mai potuto comprendere da soli (se nessuno glielo avesse spiegato) la sofisticatissima allegoria da intellettuali secondo cui i vari terreni rinviano metaforicamente alle varie categorie di uomini, e men che meno avrebbero potuto afferrare il terzo livello; ma questi ultimi non sono di Gesù, anche se glieli mettono in bocca.

 

Proviamo ora ad applicare queste assunzioni metodologiche ai racconti dell’infanzia: abbiamo sostanzialmente due livelli/significati/insegnamenti, quello (I°) della versione iniziale sul Messia davidico, e quello finale (II°) della concezione verginale. In pratica abbiamo da una parte una prima stesura dei vangeli (dell’infanzia) di Luca e Matteo, e dall’altra il Luca e Matteo finali; non è molto diverso dal fatto che Marco sostenga una cosa, e Paolo e Giovanni un’altra.

 

Superiamo tutte le discrepanze rilevate fra i due, prendendoli separatamente uno ad uno, tenendoli rigorosamente distinti, quasi isolandoli metodologicamente l’uno dall’altro.

Premettiamo solo una digressione sul racconto dei Magi; ci asteniamo, come già detto, dalla questione della storicità. Ci teniamo però a ribadire un dato/fatto metodologico fondamentale: in questo caso, come per i miracoli della natura (ma non di altre parti, e non del vangelo in toto), la fede prescinde costitutivamente dalla loro storicità: il che significa che è credente/cristiano colui che crede al significato del racconto; dopodichè è credente sia colui che li considera storici, e sia colui che non dovesse considerarli tali (non è un miscredente, o un cristiano di serie b). Questo sicuramente per i miracoli sulla natura o per le profezie della passione e del rinnegamento di Pietro; per quanto concerne invece la concezione verginale esiste un problema certo di ortodossia, perché si andrebbe contro un dato tradizionale e contro certe prese di posizione del magistero. Si va comunque contro il magistero, non contro il dato biblico (che di per sé è aperto ad entrambe le possibilità). Vale anche per la strage degli innocenti e la fuga in Egitto: anche se (ma è solo il mio parere, qui ribadito peraltro con forza) considerarle storiche è, come già detto, un suicidio intellettuale.

Noi abbiamo inteso affrontare sostanzialmente il problema letterario, e non tanto quello storico.

 

La stella dei Magi

 

Nell’ambito dei racconti dell’infanzia ce n’è forse anche un’altra in Matteo, relativa alla stella che guida i Magi provenienti da Oriente; in tutta l’area del vicino e antico Oriente, Asia minore e anteriore, dall’Anatolia alla Persia è stata per parecchi secoli molto in uso la scrittura cuneiforme, una scrittura (non una lingua) che, con i suoi valori fonetici sillabici [ad un segno corrisponde una sillaba come ad es. ba, mi, ru (consonante + vocale), o ad, ir (vocale più consonante) oppure bar, kid, lum (cons., vocale, cons.)], può servire ed è di fatto servita per annotare varie lingue: sumerica, accadica (assiro-babilonese), elamitica, ittita, antico persiano ecc.; è come una nostra tastiera (che è però alfabetica e non sillabica, ma la sostanza non cambia) con cui possiamo scrivere in numerose lingue europee.

 

Ad. es. i testi ittiti erano cosparsi di parole e frasi accadiche (assiro-babilonesi). Un testo ittita contiene degli elementi che appartengono a tre lingue: logogrammi sumerici, parole e frasi accadiche, e naturalmente parole ittite. Abbiamo ad es. la parola wa-a-tar (acqua), praticamente identica all’alto-tedesco watar; come pure nei documenti ittiti è attestata la radice “da” che, rispetto al latino “dare”, ha il significato opposto di “prendere”. Ritornando all’esempio della tastiera, su cui potevo già scrivere in lingue diverse, la faccenda si complica ancor di più: è come se io cospargessi il mio testo in italiano con parole e semifrasi in altre lingue (ad es. francese e tedesco), ma non come citazioni fra parentesi bensì al posto delle parole italiane.

Si tratta quindi di sistemi doppiamente misti: a volte sistemi misti di lingue diverse, e quasi sempre sistemi misti di scrittura, in cui ai valori fonetici si univano anche ideogrammi/logogrammi (cioè raffigurazione della cosa) come nei geroglifici egiziani. Ora nei sistemi misti, per evitare certe ambiguità, si usano, oltre ai segni fonetici ed a quelli ideografici, i segni determinativi (o associati), come è avvenuto sia in Egitto che nel cuneiforme: è un segno posto davanti/prima di una parola, muto nel senso che non deve essere pronunciato, per segnalare i notabili (re, imperatori, dei), i toponimi (per chiarire che si tratta di un luogo/montagna/fiume…), gli antroponimi (un cuneo verticale per indicare una persona od un mestiere maschile, un uovo od una vagina per indicare una persona od una professione femminile), ma anche i “teonimi”, per rinviare a caratteristiche divine. Questi determinativi (come pure tutti gli ideogrammi) sono identici in tutte le scritture cuneiformi, sono indipendenti dalla lingua sottostante, anzi si possono riconoscere anche se la lingua è sconosciuta. Ora l’immagine della stella, in tutte le lingue espresse dalla scrittura cuneiforme, è il logogramma del cielo; ma tale segno stellare è anche il logogramma del dio, per cui la stella diviene un “teonimo”: significa che il soggetto che segue è un dio oppure ha tratti divini o a che fare col divino, ovvero ha subito un processo di divinizzazione. Ora per il fatto i Magi vengano dall’oriente più o meno lontano (con reminiscenze antico-persiane), dove hanno visto sorgere la stella, può significare che il soggetto, sulla cui casa la stella arriva e si ferma, ha tratti divini, rinvia e guida a Dio…  

Se loro hanno avuto la fantasia di utilizzare la stella, segno determinativo usato in tutte le scritture cuneiformi e nelle lingue connesse, anche noi dobbiamo avere la stessa fantasia per dire in modo nuovo, con linguaggio e parole nuove, le stesse cose…

 

Tradizione betlemita   (meglio messianica)

 

Già ci chiedevamo in sede di analisi cosa potesse ancora dire all’uomo odierno tutta questa tematica che sembra valere ed essere comprensibile solo per un’ottica ebraica (e per di più del passato). È sintomatico il fatto che un salvatore ebreo, messia-re davidico, rientri perfettamente in un’ottica ebraica, tanto che avrebbe potuto stendere questi testi anche una mano ebraica, non necessariamente cristiana. Basti pensare ai paralleli di Qumran, alle continue citazioni bibliche di Matteo, al Benedictus (il Dio d’Israele), al Magnificat (Israele suo servo), ed al Nunc dimittis, che non presuppone fra l’altro una vita ultraterrena. Anche Filone di Alessandria interpreta in senso verginale il concepimento di Isacco da parte di Sara.

 

Possiamo tranquillamente lasciar perdere la monarchia davidica ormai irrilevante, anacronistica, per non dire fastidiosa. Betlemme (dove Gesù non è nato, e quasi sicuramente non è mai stato) è un fatto escatologico-messianico di primaria importanza, che non deve essere annacquato dalla Sacra Famiglia tra il bue e l’asinello. Bisogna concentrarsi sul messianismo escatologico, sul messia e sul regno (asse centrale e portante del messaggio gesuano): il problema è che occorre riuscire a farlo in modo assolutamente nuovo in un linguaggio secolarizzato, non più mitologico, lasciando perdere la Betlemme geografica e i suoi ritualismi sacrali tuttora perduranti (tutto quello che si celebra nella basilica della Natività avviene in un luogo in cui Gesù non è mai stato!); tanto più che tale tradizione si trova solo nei racconti dell’Infanzia, meglio solamente nei capitoli secondi dei rispettivi vangeli. Infatti Betlemme (attenzione solo Betlemme come già detto nella premessa iniziale A, perché la discendenza davidica e più in generale la messianicità regale è pluri-attestata nel NT) si trova soltanto nei racconti dell’Infanzia, meglio solamente nei capitoli secondi, per essere poi totalmente ignorata nel prosieguo d’entrambi i vangeli. Betlemme inoltre è sconosciuta a Marco, a Paolo e persino al tardivo quarto vangelo, come abbiamo visto a proposito di Gv 7,40-52.

 

Concentrandosi troppo sulla concezione verginale si rischia di perdere la visuale d’insieme: ossia la nascita-dono di un bimbo che avrà da adulto una missione. Chi è veramente arrivato nel nostro mondo?  C’è ancora? O si è perso, fermato da qualche parte? Sicuramente è stato insabbiato a Roma. Stiamo prendendo un fantasioso spunto da Cristo si è fermato a Eboli (Einaudi), ma invertendone, capovolgendone il significato: Cristo si è fermato non a Eboli (cioè non nella “societas christiana”), bensì proprio nella Lucania descritta da Carlo Levi (ivi confinato dal regime fascista a svolgere l’attività di medico), tra quei poveri (pastori) contadini che avevano i campi lontani dalla loro dimora, costituita come a Nazareth o a Betlemme da grotte scavate nella roccia (tipo i sassi di Matera). Ma si trattava di un “monolocale” (diremmo noi) dove di sera e di notte i piccoli animali stavano/dormivano per terra (veniva ad essere già una semi-stalla), le persone quasi tutte nel medesimo letto, e i neonati sospesi in una culla nell’aria con le cordicelle attaccate al soffitto in modo da venirsi a trovare adiacenti al letto dalla parte della mamma, per poter essere soprattutto dondolati (oltre che allattati).

Prima abbiamo ironizzato sul bue e l’asinello..; ma, vista in positivo, tale iconografia popolare esprime l’identificazione della povera gente, la cui unica risorsa sembra qualche animale con cui convivere e forse un lembo di terra, col Cristo crocefisso (la cosiddetta processione del Cristo morto il Venerdì Santo è quella più popolare, voluta dalla gente, e quasi imposta al clero, diversamente dalle altre processioni quasi imposte dal clero alla gente…), o con Gesù più in generale (bambino nella sua impotenza/fragilità e adulto nella sua debolezza e nel suo immane dolore finale con la crocifissione/morte).

 

La tradizione betlemito-messianica è più temporale (meno greca), più dinamica e più biblica nella sua valenza storico-escatologica e soteriologica (salvifica). Si tratta della «salvezza davanti a tutti i popoli, della luce per illuminare le genti…», «oggi vi è nato un salvatore nella città di Davide, il Cristo del Signore» (Lc 2,11). Il tutto è reso plasticamente dalle bellissime figure ad es. di Simeone ed Anna, dei Magi, oltre che dai meravigliosi cantici quali il Benedictus e il Magnificat; ed è imperniato sull’adempimento della parola di Dio. Tale salvatore è ovviamente il Gesù adulto (senza perdere la poesia e il significato dell’infanzia), il Cristo crocefisso e risorto.

 

Tradizione verginale

 

La concezione verginale è di tipo più grecizzante, statica, spaziale (quasi metafisica). Anzitutto per quanto concerne l’inserimento di Gesù nella figliolanza divina è una fra le varie possibili, accanto ad altre; ad es. accanto all’adozione a figlio a partire dalla resurrezione (formula di fede di Rom 1, 3-4), o all’essere intronizzato quale figlio di Dio a partire dal battesimo. Tutto il nostro lungo lavoro di analisi non è stato inutile: tale concezione è assente in tutto il resto del NT (fatta eccezione forse solo per la lettura al singolare di Gv 1,13). È presente solo nel capitolo primo (non nel secondo) di entrambi gli evangeli, e per di più si tratta di un’ultima aggiunta di un ultimo redattore/scriba; sconosciuta quindi a Mt e Lc stessi (intendendo con queste due sigle gli autori principali, originari o “centrali”, anche in senso cronologico, degli evangeli).

Ancor di più: l’estremo inserimento forzato (e tutto sommato maldestro) della concezione verginale viene a trovarsi a volte in contrasto, in tensione con altri dati neotestamentari, sia nei racconti d’Infanzia medesimi che fuori di essi. Tali discrepanze, dirette o collaterali/derivate, non vanno misconosciute, anche se oltrepassate.

  

Perciò quelle verginali vanno lette come affermazioni non biologiche ma cristologiche, in linea possibilmente col resto del NT. Più in dettaglio: anzitutto non sono affermazioni biologiche, e riguardano il Gesù adulto più che il bambino. L’asserto è perciò cristologico, non mariologico: sono affermazioni su Gesù, e non tanto su Maria e Giuseppe. Quindi, dal punto di vista pastorale, voler imporre ad es. ad un simpatizzante del cristianesimo (ad uno che si sta avvicinando alla fede) il “dogma” (che fa senz’altro parte della tradizione, ma mai definito formalmente) della concezione verginale intesa in senso fisico-biologico, è a dir poco da irresponsabili, qualora ciò costituisse un impedimento (lo “scandalo” in senso evangelico), un inciampo per il suo cammino di fede.

Essendo nato da Maria, il Gesù adulto è pienamente e integralmente uomo, nella sua radicale e completa umanità: per cui ad es., come già sostenuto in maniera convincente da Karl Rahner, non conosce e non può conoscere il futuro (nel senso della chiaroveggenza), perché componente fondamentale (e non secondaria) dell’umanità è la non conoscenza del futuro, che permette ad es. di progettare, rischiare e desiderare, in pratica l’esercizio della libertà: il libero arbitrio sarebbe annullato nella conoscenza del futuro. Infatti che senso avrebbero ad es. il progettare e il desiderare, se uno sa già come va finire? Quindi, se così fosse, Gesù non sarebbe più un uomo, figlio dell’uomo, ma un’altra cosa (facciamo addirittura fatica a pensare come potrebbe essere la vita di un individuo con la chiaroveggenza del futuro, sempre che ciò sia possibile).  

E qualsiasi cosa si trovi di tal genere nei Vangeli (profezie della passione, del rinnegamento di Pietro e così via), sono comunque retroproiezioni post-pasquali, “vaticinia ex eventu”, senza alcun valore storico: cose che Gesù non ha mai detto, così come ci sono cose che Gesù non ha mai fatto: le guarigioni sì, ma non ad es. i cosiddetti miracoli della/sulla natura (tempesta sedata, camminare sulle acque, trasformazione dell’acqua in vino a Cana, moltiplicazione dei pani ecc.). Proseguendo nella linea tracciata da Karl Rahner, Cristo è nato, vissuto e morto da uomo, e lo rimane per sempre. E nella scia di E. Jüngel (Dio, mistero del mondo, Queriniana-Brescia 1982, BTC 42), l’umanità di Dio è ciò che la teologia deve finalmente imparare! Dio in Cristo si è dato un futuro; non ha voluto essere se stesso, venire a se stesso e vivere la propria vita senza l’umanità, e senza sperimentare sulla propria pelle cosa significa essere uomini!

C’è anche quella che potremmo chiamare una seconda componente, a due stadi (come nella formula di fede di Rom 1,3-4, che è sì antica ma non così ingenua e primitiva come potrebbe apparire a prima vista): il primo stadio non è tanto quello del fanciullo “divino” della storia delle religioni, ma semmai quello dell’adulto “divino”: c’è un’ipostasi preesistente, che è stata donata a Gesù-figlio dell’uomo a partire dall’unica sua esistenza storica; in questo figlio dell’uomo di stampo marciano (non ancora divinizzato e glorificato) c’è già tuttavia l’identità soteriologica-escatologica-ermeneutica col Padre, ed è quindi già figlio a tutti gli effetti anche nello stadio terreno, in quanto maestro di sapienza, profeta escatologico, esegeta-ermeneuta di Dio-Padre, portatore dello spirito di Dio nonché annunciatore di un messaggio di salvezza che si concretizza nei suoi gesti. Il Gesù-figlio è quello in cui lo Spirito di Dio (ancora prima della concezione verginale) dimora “senza misura”, in cui Dio è peculiarmente presente fra noi uomini.

 

Il secondo stadio è quello del risorto, il Signore (Kurios) glorificato e innalzato che subisce un parziale processo di divinizzazione alla greca; ma anche qui occorrono parole nuove ed un modo nuovo (nella scia di Bonhöffer) per dire questa seconda componente all’uomo odierno secolarizzato, sia per evitare le trappole della vecchia metafisica e sia per scongiurare un’insignificanza quasi cinica: cosa vuol dire oggi un Signore innalzato e glorificato di fronte alle tragedie della nostra storia? Cosa vuol dire una concezione verginale di fronte al dolore del mondo? La tradizione betlemita-messianica, invece, non ha questo tipo di problemi perché ancorata e immersa nella storia con tutto il suo carico (anche tragico) di dolore, perché strutturata in senso soteriologico ed escatologico (come lo è costitutivamente il messaggio di Gesù di Nazareth, tutto centrato sul Regno di Dio che è in gran parte infra-storico).

 

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