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 490 - UNA RIFLESSIONE CHE PARTA DALL’ASCOLTO

 

Attenti al gender!

Tra i temi difficili da trattare oggi, quello del gender è scivoloso come pochi altri, tanto che non si sa da che parte prenderlo. Proviamo allora a iniziare dai giochi che compriamo ai nostri figli quando sono piccoli: bambole per le bambine e pistole per i bambini.

Un gesto che sembra tanto abituale quanto affettuoso e che non solleva il minimo dubbio quanto al messaggio implicito che questi veicolano. Gli studiosi fanno partire il marchio di genere dalle tutine rosa e azzurre per neonati per proseguire con i libretti per bimbi e bimbe, in cui le donne si occupano del lavoro domestico e gli uomini guadagnano. Piccole storie che facilitano l’identificazione della bambina nella futura mamma e angelo del focolare, e del bambino nell’uomo responsabile, creativo ed eroico dalle avventure fantastiche. Storie rafforzate dal mondo infantile in cui li rinchiudiamo, un mondo fatto di cucine, scope e Barbie da una parte e supereroi, costruzioni e soldatini dall’altra. Inutile, forse, dire come contribuiamo a creare modelli di donne madri e badanti, ma insieme oggetto di desiderio (sull’ideale di un corpo impossibile), e di maschi invitati a esaltare forza e aggressività, oltre a legittimare la violenza (cfr. La pubblicità di giocattoli. Una riflessione sopra i suoi disvalori e sul suo contributo alla disuguaglianza di genere in «Ricerche di Pedagogia e Didattica» (2009), 4, 2).

Che le mamme stirano e cucinano, mentre i papà lavorano e leggono è ribadito anche dai libri di grammatica delle elementari («Corriere della sera», 26 febbraio 2019), tanto per proseguire con gli stereotipi. E che di stereotipi si tratta bisogna spiegarlo ogni volta, perché semmai si percepisse la questione si faticherebbe a coglierne cause e conseguenze. Per quale ragione la domanda sul genere sia emersa solo negli ultimi decenni a questo punto inizia a diventare più chiaro. Seppure ai nostri figli e figlie abbiamo regalato Bratz e Jack Sparrow, i modelli familiari non erano già più quelli che la mia generazione ha conosciuto. Noi donne siamo laureate, lavoriamo fuori casa e viviamo con gratificazione anche la vita non familiare. I nostri mariti non sempre, ma pian piano, si stanno abituando a collaborare alla vita domestica. Questo significa che non viviamo più negli stereotipi che, inconsapevoli, continuiamo a trasmettere. Ed è per questo che tanti non percepiscono il problema che è esploso in modo prepotente con i nostri giovani.

 

La Chiesa è quella che dice no

Per loro fortuna i miei studenti liceali non conoscono il Responsum della Congregazione per la dottrina della fede (intendo quello relativo alle benedizioni delle unioni di persone dello stesso sesso) e io mi sono sempre guardata dal renderglielo noto. L’associazione tra la Chiesa cattolica e le tante rigidità nei diversi ambiti della sessualità è una delle poche certezze che tutti loro possiedono in campo di dottrina. Quel che resta del catechismo infantile è a sua volta mistero della fede, ma tutti sanno almeno che la Chiesa cattolica è quella che dice no.

Questo non significa che, ligia al mio compito di insegnante di religione, io non abbia parlato loro della valorizzazione del corpo e di un corpo destinato alla resurrezione. Forse, mi dico, un giorno recupereranno qualcosa della bellezza del cristianesimo e dunque è bene seminare con abbondanza le cose buone. Ma per me, che ho sulle spalle in media quattro decenni di vita in più, le cose belle e buone sono anche i loro volti e le loro domande. Quindi il mio compito è di raggiungerli là dove si trovano e spingerli a guardare oltre. Questo non vuol dire frequentare i loro luoghi, come tik-tok o instagram, che non per boria non avrei il tempo di consultare, neppure per interesse “sociologico”. Ma rientra nell’ascolto, che è tanta parte del mio lavoro, anche apprendere i loro modi di comunicare, informarsi, riempire il tempo vuoto.

Una volta entrati in sintonia, non è troppo difficile trovare dei punti di contatto, persino per i temi più ostici – per loro e per me. Ma indubbiamente se c’è un tema che cattura la loro attenzione è entrare nelle questioni di genere. Una studentessa di terza (anno in cui tratto le problematiche che ruotano attorno al concetto di persona) quando un mese fa ho introdotto il discorso mi ha detto che lo aspettava dalla prima. Certo non è da tutti, ma in terza non c’è nessuno tra i miei studenti che non sappia di che cosa si tratti. Si potrebbe dire lo stesso per gli adulti? I più lo confondono con l’omosessualità e molti non ne hanno mai sentito parlare. Questo, tra le altre cose, significa che i figli non ne parlano con i genitori (che tanto non capirebbero) e che, quando in una famiglia occorre affrontare il caso con urgenza, non si sa da dove iniziare.

 

Una domanda degli ultimi decenni

Le questioni di genere ci interrogano profondamente su che cosa si debba intendere per maschile e femminile, come interpreto io il mio essere donna o uomo oggi. Essendo cadute, nei fatti ma non sempre nelle aspettative, le categorie di virilità e dolcezza, forza e remissività, e così via, che cosa resta del genere tradizionale nel nostro essere persona sessuata? Stando così le cose infatti nella configurazione del proprio modo di essere, femminile o maschile, non confluiscono solamente fattori biologici o genetici, ma anche molteplici elementi relativi al temperamento, alla storia familiare, alla cultura, alle esperienze vissute, alla formazione ricevuta, alle influenze di amici, familiari e persone ammirate. Non per ultimo il sistema di aspettative sociali a esso collegate.

Il maschile e il femminile non sono qualcosa di rigido. Ma questo è qualcosa che sappiamo solo nei fatti e che per lo più ci rifiutiamo di elaborare. Che cosa succede però se un nostro figlio o figlia, un nostro studente o studentessa, un nostro amico o conoscente, si dichiara gender fluid? Siamo stati cresciuti con l’idea di un codice binario, al massimo con la casualità minoritaria di un desiderio rivolto a persone del proprio sesso, ma di fronte alla fluidità di genere siamo spiazzati, sconcertati, riluttanti fino al ridicolo. Slegato dal corpo sessuato e collegato agli stati interni del soggetto, il genere finisce per includere un numero indeterminato di varianti. Tra queste figurano le identità agender o di nessun genere, neutre, androgene o di altro genere, bigender, pangender o di tutti i generi, gender fluid.

Che bisogno c’è di tanta originalità? Perché dichiarare a tutti i costi il genere se basta il sesso? Mica sulla carta d’identità chiedono il genere? Le resistenze sono tante anche tra gli intellettuali, che pur conoscendo la questione la rifiutano senza possibilità di appello. Perché l’inclusività è una bella parola se non ti tocca troppo da vicino, se ad esempio ci si limita a parlarne a proposito della classe di scuola elementare di tua figlia in cui è stato inserito un bambino disabile o tutt’al più, se non sei troppo razzista, di una bambina marocchina che non conosce una parola di italiano.

 

Una distinzione acquisita

Se invece scegliamo di iniziare a inoltrarci nella questione, scopriamo che in ambito scientifico e culturale la distinzione tra sesso e genere è acquisita da anni. E che il termine genere investe di fatto il versante sociologico e culturale, ovvero l’insieme dei significati che il contesto attribuisce alle categorie di maschile e femminile. Dal sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si evince che: «genere si riferisce alle caratteristiche di donne, uomini, ragazze e ragazzi che sono socialmente costruite. In quanto costruzione sociale, il genere varia da società a società e cambia nel tempo». Che il genere sia un costrutto culturale non dovrebbe stupirci: basta guardarci attorno (o anche solo in noi stessi) per constatare quale gamma di interpretazioni ciascuno di noi fornisca del proprio essere maschile e femminile. Scomparsi quindi i ruoli tradizionali, quali caratteri ci connotano ancora come uomini o donne?

A questo primo dato va aggiunto quello non meno significativo dei tanti che non desiderano alcuna connotazione di genere, vuoi per una difficoltà a riconoscersi in categorie prefabbricate, vuoi per fattori biologici e psicologici che si manifestano in una incongruenza o disforia di genere (transgender). Consapevole di non esaurire il ventaglio delle possibilità, mi limito a segnalare come in questo secondo caso si tratta di esperienze psicofisiche impegnative, intense e dolorose, spesso aggravate dall’incomprensione e rifiuto dei pari ma ancor più delle famiglie, impreparate come detto ad affrontare il fatto di un figlio o figlia che vive con disagio il proprio corpo sessuato. Il malessere nutrito può essere tanto grave da spingere al suicidio, ma i segnali premonitori non mancano se solo scegliamo di prendere coscienza della questione invece di escluderla dal nostro campo concettuale.

Ci piaccia o meno, lo si comprenda con poca o tanta fatica, questo fenomeno esiste e la nostra presa di coscienza si fa urgente. Pena la sempre maggiore separazione tra generazioni, la creazione di nuovi ghetti mentali in cui segregare l’inaccettabile. Meglio allora accostarsi in punta di piedi, ascoltare, com-patire. E di patire con l’altro e accanto all’altro c’è sempre bisogno, perché molto spesso è appunto presente un disagio, sebbene la sua espressione possa assumere forme “gridate” che si rendono inafferrabili. C’è bisogno di aprirsi alla novità dell’altro che ci sta di fronte. C’è bisogno di amore per l’altro. Il resto (paure, resistenze) è di troppo.

Maria Nisii

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