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 500 - OLTRE LA CRONACA

 

Di orsi e di uomini

Nei giorni successivi alla vicenda dell’orso (o dell’orsa) che ha ucciso un ragazzo sulle montagne trentine, ho sentito l’esigenza di approfondire la questione.

Il punto di partenza è stata la lettura di interventi di persone stimate e che hanno un rapporto solido con la montagna trentina: reclamavano, giustamente, la propria sicurezza in montagna, evidenziando quanto questa fosse antropizzata, e dunque come l'abbattimento di orsi pericolosi fosse necessaria alla loro quotidianità. Ecco quella che avvertivo come una legittima richiesta di quiete per sé e i propri cari mi spingeva a cercare un rapporto con il mio desiderio che l’orso, anche quello che aveva ucciso il ragazzo, sopravvivesse. Le parole irresponsabili e demagogiche del presidente della provincia autonoma di Trento Fugatti che si appellava agli istinti più barbari sobillando una caccia all’orso hanno fatto il resto.

 

L’intervento di Cognetti

Il primo passo è stato rifugiarmi in una comfort zone: ovvero ho cercato le parole di Paolo Cognetti pensando che avrebbero aiutato le mie a prendere una direzione. E non solo perché è uno scrittore che ha scritto, per me, alcune delle pagine più belle della letteratura di montagna, ma perché mi pareva che la sua opera letteraria nascesse da uno sperimentato contatto con gli uomini e le donne che la montagna la vivono non come ospiti, come abitanti occasionali, ma in una dimensione totale e viscerale.

Un suo articolo apparso su «Repubblica» mi sembrava che fornisse alcuni elementi di particolare interesse: «Nel nostro Paese così urbanizzato l'habitat degli animali selvatici, ovvero il bosco, occupa 11 milioni di ettari, circa un terzo della superficie totale. È come dire che due terzi dell'Italia sono usati dall'uomo, e un terzo è a disposizione dei selvatici. Questa superficie è più che raddoppiata dalla metà del Novecento a oggi. Quella fu l'epoca in cui il bosco e i suoi abitanti raggiunsero il minimo storico: la legna si usava per scaldarsi, gli animali per sfamarsi, e la maggior parte dei mammiferi era praticamente estinta, sulle Alpi e sugli Appennini. Poi nel Dopoguerra cominciò un'inversione di tendenza: la montagna si spopolò rapidamente (in molte valli si parla di un esodo dell'80% in trent'anni), il tenore di vita aumentò, la pressione antropica sui boschi diminuì di conseguenza. L'uomo va via e subito le piante riconquistano terreno. […] Il ritorno degli animali ha una storia più confusa e meno spontanea. Lo stambecco, per esempio, era sopravvissuto soltanto nel Parco del Gran Paradiso, in quanto ex riserva di caccia dei Savoia. Da lì fu reintrodotto in tutto l'arco alpino: significa proprio che gli esemplari venivano addormentati, catturati e trasportati altrove, dove un po' confusi si svegliavano e riprendevano la loro vita (pensate se lo facessero a voi). Il cervo è stato reintrodotto allo stesso modo, dall'Est e dal Nord Europa. E così il daino, il camoscio e il capriolo, a volte da riserve faunistiche simili ad allevamenti. Alcune altre, come il lupo, si arrangiarono da sole. Il lupo sopravvissuto nel Parco Nazionale d'Abruzzo iniziò nel Dopoguerra la sua risalita: negli anni Settanta raggiunse l'Appennino Tosco-Emiliano, nei Novanta le Alpi Marittime, e con il nuovo secolo chiuse il cerchio, incontrando da qualche parte delle Alpi i suoi simili che arrivavano dai Balcani. Trovò anche abbondanza di ungulati da cacciare: cinghiali e caprioli soprattutto, altrimenti quella strada non avrebbe potuto farla. Poi ci sono animali che ci sono sfuggiti di mano: è il caso dell'ibridazione tra cani randagi e lupi. […] O i cinghiali immessi per gioco e ormai diventati un animale a metà tra il domestico e il selvatico, da cassonetto dell'immondizia: che mutazioni sono i cinghiali di Roma?E infine l'orso con cui abbiamo giocato col fuoco: e adesso che dobbiamo riparare ai nostri errori facciamolo almeno nella maniera più indolore per lui, portandolo dove abbia spazio per vivere in pace».

L’intervento di Cognetti mi sembrava l’approdo a due riflessioni: la prima è che l’orso è stato reintrodotto in una montagna altamente antropizzata. Ora, almeno che i promotori del progetto Life Ursus avessero come immaginario Yoghi o l’orso amico di Masha (lo dico per paradosso), se si introduce un animale selvatico di quel tipo si accetta un rischio. Minimo, perché comunque l'orso è meno pericoloso dei fulmini e ancor meno delle automobili: in quest’ultimo caso accettiamo un pericolo serio (la vita stessa) in nome della libertà di movimento.

 

Una questione di educazione

La seconda questione era la necessità dell’educazione: come avviene per la macchina, anche la convivenza con gli orsi necessita di una “patente”. Reintrodurre animali selvatici in luoghi antropizzati dove vivono uomini non abituati alla loro presenza richiede non solo l’accettazione della possibile fatalità, ma soprattutto la dotazione di strumenti e di una formazione che minimizzi il rischio. E dico questo sperando che nelle mie parole non appaia in alcun modo sminuita l’immane tragedia di un ragazzo che perde la vita in quel modo o peggio, che nessuno avverta una minima nota d’accusa, rispetto al comportamento di un giovane che faceva una cosa normalissima: correva in un bosco.

Ora non conosco nel dettaglio il progetto, né gli errori o le sottovalutazioni commessi, ma mi sembra emergere in maniera piuttosto distinta che la preparazione della cittadinanza alla presenza di orsi che fatalmente si comporta da orsi sia stata trascurata. E invece questo elemento è decisivo per il prosieguo del progetto in un territorio dove uomini e orsi si trovano improvvisamente fianco a fianco. Perché gli uomini non possono vivere nella paura costante che le aggressioni si succedano, né gli orsi possono essere sottoposti a minaccia costante di abbattimento o trasferimento. Si deve decidere ora se gli orsi debbano restare o essere addormentati e portati dove vi sono spazi sterminati nei quali possano condurre la loro vita da orsi lontano dagli uomini. E di conseguenza si deve stabilire se il nostro modello di montagna è quello di una convivenza tra specie, in spazi, per quanto possibile, separati, o se in Italia l’unica funzione possibile perle Alpi e gli Appennini (per non parlare poi dei contesti marini) sia quella di essere il parco dei divertimenti dell'uomo, a cui nulla deve essere interdetto (compreso il diritto di sciare a 1000 metri di altezza). Perché convivere con altre specie (non in un'ottica di sterminio) comporta necessariamente un ridimensionamento della libertà del proprio raggio di azione, sia quando queste specie sono aggressive sia quando non lo sono.

 

Un’umanità scissa

Mi sembra dunque che vi sia un fattore culturale sul quale ragionare: ovvero quello che spinge l'uomo a immaginare la fauna selvatica come sua estensione, come brivido, come elemento suggestivo, ma subordinato alle sue esigenze esperienziali ed economiche e non come mondo a parte, indisponibile.

Vi è però in questa vicenda un secondo aspetto che trovo benaugurante. L’etica delle società occidentale, che nella maggior parte dei casi avevano fatto il loro ingresso nel Novecento legittimando la pena di morte e suscitando una enorme carneficina negli stessi boschi oggi ripopolati dagli orsi, oggi si interroga sulla liceità di uccidere un orso e addirittura vede numerosi cittadini adoperarsi legalmente e scientificamente, producendo perizie e controperizie, per scongiurare la morte di un esemplare. Qualche decennio fa, l’uccisione di un plantigrado non avrebbe generato cinque minuti di dibattito. Oggi muove emozioni e abita le pagine di giornali, social, televisioni. Si colloca dentro una generale sensibilità ambientalista che si è accresciuta, soprattutto tra le nuove generazioni che più delle precedenti avvertono con urgenza e angoscia la necessità di mutare il rapporto suicida instaurato dalle precedenti generazioni con la terra, proprio in quello stesso Novecento in cui si è acuita la sensibilità verso il dolore e verso la morte degli animali.

Al tempo stesso emerge tuttavia un’umanità scissa: che ritiene necessaria alla sua sopravvivenza il rispetto dell’ambiente, ma non vuole subire limitazioni al proprio dominio, che vive il dolore a velocità diverse: prova una pietà somma per un cane o un gatto sofferenti, ma accetta paciosamente la privazione della dignità di uomini, donne e bambini stipati in barche ignobili, solo perché provenienti da altre nazioni. Tuttavia la mobilitazione per scongiurare l’abbattimento dell’orsa contiene una speranza: la possibilità di una pedagogia del dolore che sconfessi la violenza che lo provoca tanto verso l’uomo quanto verso l’animale.

                                                                                                                            Marco Labbate

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