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35 anni del foglio
Bonhoffer ci scrive Il 9 aprile del ’45 Dietrich Bonhoffer moriva impiccato a Flossenbürg le sue lettere dal carcere, pubblicate a Monaco nel ’51, venivano tradotte in italiano (Resistenza e resa, Firenze 1969). Quando nel febbraio del ’71 è nato il nostro mensile, alcuni di noi, che allora avevamo dai trenta ai quarant’anni, le lette da poco e ne eravamo stati profondamente segnati. Se non ci fosse stato il Concilio (1962-65) non ci sarebbe stato il foglio, ma, se non fossero mai stati pubblicati gli scritti di Bonhoffer, di Primo Mazzolari, di don Milani (Lettere ad una professoressa è del 1967), questo abbozzo di rivista, nel bene e nel male, non sarebbe quello che è. Ecco perché apriamo questo numero de il foglio, giunto alla conclusione del suo 35° anno di vita, con uno dei testi più vivi, profetici e problematici del celebre teologo, resistente e martire. In questa ricorrenza, che non può certo essere celebrativa, pensiamo, infatti, doveroso interrogarci sul nostro futuro a partire da chi ci è stato guida dai primi passi del nostro cammino editoriale. Si tratta di pensieri scritti da Bonhoffer nel maggio del ’44 e dedicati al nipote D.W.R. per il giorno del suo battesimo. Tolti i riferimenti strettamente personali e familiari, chi è nato in quegli anni e chi è, a sua volta, figlio o nipote le ha sentite e le sente come a lui rivolte. Sappiamo che i tempi sono cambiati, che molte delle considerazioni e delle previsioni adombrate in questa sorta di testamento spirituale, attualissime per gli anni ’40-80 del secolo scorso, oggi sembrano superate o almeno bisognose di molte correzioni e di rigoroso aggiornamento. Ma sappiamo anche che la loro verità profonda non esaurisce la sua attualità nell’arco di un ventennio e che la loro forza spirituale, come ogni grande parola di universale sapienza profetica, mantiene la sua vitalità ben oltre le contingenze dei flussi e riflussi della storia. Lo mostrano adeguatamente gli articoli raccolti nel numero speciale di Testimonianze, al nostro dedicato (n. 443-444, dicembre 2005), e lo mostreranno, speriamo, quelli che daranno vita ai prossimi 35 anni de il foglio, a cominciare da questo numero, che nelle pagine seguenti inizia il dialogo sui nostri tempi e sui nostri impegni per il futuro con significativi interventi di due dei redattori presenti fin dalla prima riunione organizzativa. (Il testo che pubblichiamo, stralciato e con titoletti redazionali, è preso dalla 1ª edizione italiana sopra ricordata).
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Se volessimo (la più assurda delle ipotesi) fondare un partito, potremmo lecitamente, per finanziarlo, aprire un negozio, una impresa, o una cooperativa, alla luce del sole. I simpatizzanti favorirebbero i nostri onesti affari per finanziare il partito. Alla luce del sole. Con affari puliti. Non ci sarebbe nulla contro l’etica e la correttezza. Se poi affidassimo la nostra impresa o cooperativa ad amministratori che si rivelano disonesti, o avventurieri, o avidi, o scorretti, o truffaldini, dovremmo, per salvare l’onestà politica del nostro partito, dissociarci al più presto da quella gestione, e il nostro sarebbe stato solo un errore umano, non politico, né un reato. Tanto più se il nostro partito volesse avere un programma per l'onestà economica e la giustizia sociale. Se manchiamo di avvedutezza, o cerchiamo di trarre ancora qualche vantaggio da un'amministrazione scorretta, facciamo anche un male politico alla nostra causa. Se poi Berlusconi, che da vent’anni fa affari grazie alla politica (Craxi) e fa politica per fare affari (forte aumento del patrimonio personale durante il proprio governo) e per evitare le sanzioni della legge (leggi su misura dell’utile personale), denuncia la nostra commistione tra politica e affari non chiari, allora è come se Dongiovanni o Casanova facessero l'elogio della castità. E questo potremmo dirlo, persino da imputati e da colpevoli. Ma, soprattutto, se volessimo che il nostro partito tenesse alta la bandiera e l’onore di un programma e un’azione di giustizia, dovremmo anteporre alla nostra difesa personale la limpidezza della sua immagine. La politica ha bisogno anche di denaro, ma separare per tempo la propria politica dalla ricerca accanita e senza scrupoli di denaro è necessario per evitare errori gravi e per poter ancora dire «una parola di sinistra». *** La grave malattia del premier israeliano Sharon ripresenta il dramma umano dell’uomo pubblico. Quando i limiti della vita e dell’attività lo restituiscono alla precaria condizione comune, il sistema di potere che egli gestiva e che anche lo usava, continua a trattenerlo e trattarlo come cosa propria, prima di espellerlo come inutile. L’abbiamo visto in una quantità di casi, da dittatori a papi, che non possono cedere e morire, quando è naturale. Essi che, quasi tutti, hanno rischiato la morte violenta durante l’attività pubblica, meno di tutti noi (già tutti minacciati di accanimento terapeutico) possono morire in pace. Questa riflessione sull’uomo ci pare che debba precedere il giudizio storico sul politico Sharon. Giudizio, al solito, piegato all’uso politico. Elogiativo quello delle voci ufficiali: militare convertito alla pace, coraggioso nel ritiro unilaterale da Gaza, rende possibile lo stato palestinese. Severo quello della sinistra israeliana: non uomo di pace, credeva nella forza in modo eccessivo; ha deciso tatticamente il ritiro da Gaza senza trattare coi palestinesi, ignorati. Sabra e Chatila non si possono dimenticare, come la provocazione della seconda intifada (violenta, perciò assai più debole della prima) con la passeggiata sulla spianata nel 2000, e l’aumento dei coloni nella Cisgiordania (12.500 in più nel solo 2005), e il muro di annessione e divisione più che di protezione, e gli omicidi mirati, tanto più condannabili perché extra-giudiziali ed extra-territoriali. Davanti al limite di una vita personale, si devono perdonare le azioni, ma i nodi storici restano. La lunga sistematica politica (precedente a Sharon) di insediamenti in terra palestinese e di dura occupazione manu militari, è stata condotta forse pensando di stabilizzare quella disuguaglianza, ma ben sapendo che erano e sono l'ostacolo più grosso e radicato alla pace tra i due popoli di quella terra, ostacolo superabile solo con sacrifici di Israele più difficili che se gli insediamenti non ci fossero stati. Chi ha fatto questo, non ha fatto il bene del popolo d’Israele. Quei due popoli che si tormentano e ugualmente soffrono, hanno bisogno di guide che credano alla pace concordata e giusta, più che alla pacificazione imposta o alla cacciata dell’altro; alla parola umana in dialogo più che alla forza inumana delle armi e degli attentati; alla parità dei rispettivi diritti, senza miti di destini superiori né di distruzione dell’altro. Mentre soffre e declina un uomo in vista, dobbiamo saper vedere e sentire con la stessa pietà gli invisibili dolori, artificialmente prodotti da guerra, dominio, violenze, di una quantità di oscuri bambini, donne, uomini. Davide non poté costruire il tempio perché guerriero feroce, e solo poté Salomone. Così costruiranno la pace per Israele, insieme alla Palestina, guide sapienti, cioè pacifiche, che speriamo Dio e l’intera famiglia umana aiutino a sorgere tanto nel popolo odierno di Israele, quanto nel suo vicino.
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