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editoriali
Per fortuna i lettori non se ne sono accorti. Nei mesi precedenti le vacanze del 2022, quando ancora il covid dava gli ultimi colpi di coda, le discussioni all’interno della redazione hanno assunto toni anche molto accessi. Il punto in discussione era precisamente il futuro di questo foglio ultracinquantenario. Due pezzi da novanta della redazione ci avevano lasciato da più di un anno, e quasi non passa redazione settimanale che non venga ricordata la loro assenza ‒ «assenza più acuta presenza». Sì, perché il foglio è anzitutto un piccolo gruppo che si trova ogni settimana a discutere. Il covid ci ha messo dietro agli schermi, come tutti. Ma poi è anche una rivista. Il rischio di non riuscire a chiudere il numero non era remoto. Bisogna riempire otto pagine, possibilmente con testi pensati. Sia Aldo Bodrato sia Dario Oitana avevano scritto per decenni quasi ogni mese un articolo frutto dei loro studi e delle loro letture. Venivano a mancare due pagine. Non è uno scherzo. Eppure poco per volta altri redattori, prima più “silenti”, hanno cominciato a scrivere più frequentemente, alternandosi anche negli editoriali. Qualche altra nuova voce si è affacciata. Ma anche il resto della redazione non veleggia verso l’eterna giovinezza. L’età media dei redattori è… molto avanzata. Siamo consapevoli dei nostri limiti. Ce lo ricordano anche le lettere e mail dei lettori che dismettono l’abbonamento perché non riescono più a leggere la rivista: lamentano il rimpicciolimento dei caratteri, ma sono gli occhi che si affaticano sempre più. Non siamo eterni. Un ricambio generazionale non è possibile ipotizzarlo. Molte riviste “simili” alla nostra stanno chiudendo: pensiamo al «Tetto» di Napoli… (e vedi articolo a p. 7 sul «Margine»). Uno di noi dopo tanto, forse troppo cincischiare, un giorno pone l’aut aut: o ci poniamo un obiettivo realizzabile, oppure questa avventura non ha più senso. Decidere di smettere quando ancora sembra (ci si illude?) di potercela fare non è facile. Ma fino a quando? Un altro di noi, ispirato dalla raccolta dei numeri della rivista, propone un’idea: arriviamo fino al numero 500. Il numero ha certo un valore simbolico (dobbiamo portarli a rilegare!), ma è allo stesso tempo un passo possibile, salvo cataclismi. Una meta che ci mette d’accordo. A volte tra noi, per scherzo, la chiamiamo «eutanasia», una buona morte. C’è chi non ha più voglia di tenere i conti, chi di fare i verbali, chi di andare in posta, chi di mandare le copie arretrate ‒ per lo più sono le faccende pratiche quelle che pesano di più. Ora che abbiamo deciso, gli animi sono pacificati, dopo la discussione a volte anche esasperata la decisione che i lettori hanno letto nel breve avviso del mese di novembre ci fa di nuovo “lavorare” sereni. Possiamo arrivare fin lì, lo diciamo ai lettori, capiranno. Ci piacerebbe ora che siamo in dirittura di arrivo sapere dai lettori cosa pensano, che cosa ancora si aspettano da noi. Scriveteci; non possiamo negare che ci fa piacere avere un riscontro, perché difficilmente chi scrive sa esattamente come arrivano ai lettori queste pagine. Siamo impegnati ora a capire come andare avanti oltre la rivista cartacea, con altre modalità. Su questo non abbiamo ancora le idee chiare. Stiamo anche pensando a un eventuale incontro con i lettori della rivista ad aprile. Come avete capito, abbiamo ancora tante cose da dirci. Anzi: proprio questa guerra cominciata un anno fa ha provocato nella redazione “vivaci” discussioni sulla risposta delle armi. Ma la discussione è vita. Solo i morti tacciono. E almeno per ora noi siamo ancora molto vivi. □
In Ucraina è trascorso il primo Natale di guerra da 77 anni in Europa. Neanche una breve tregua ha avuto luogo e questo è gravissimo, anzi si sono avuti bombardamenti indiscriminati e vittime civili anche in quel giorno. Il linguaggio dell’aggredito sembra sempre di più a quello dell’aggressore. Entrambi proclamano il raggiungimento dei loro obiettivi (per nulla chiari e comunque inconciliabili). Alcune voci autorevoli chiedono una pace giusta. Nei confronti della Russia vorrebbe dire ritiro delle truppe, riconoscimento dell’aggressione, pagamento dei danni e magari processo per crimini di guerra (Vittorio Emanuele Parsi). Sarebbe una pace giusta? Certo. Ma se la pace è il risultato di una trattativa, con concessioni reciproche, non si farà mai. E si continuerà a morire. «Ogni pace è sempre impura»: ha ragione Emmanuel Macron. Ciò che colpisce di più della ribellione in Iran è il suo carattere nonviolento opposto alla più brutale violenza del potere costituito (teocrazia sciita), che opera in nome di Dio e perciò ancora più ripugnante. «Polizia morale», «impiccagione dei nemici di Dio» e altre simili farneticazioni. Le organizzazioni dell’islam dialogante pare mantengano un preoccupante silenzio. È anche noto che gli Emirati del Golfo Persico, politicamente vicini a Teheran, finanzino abbondantemente molte organizzazioni islamiche che agiscono in Europa, a partire da quelle della ex-Jugoslavia. Insomma c’è qualche problema non da poco. Ed è forse il caso di dire che l’opportuna separazione della religione dalla politica (faticosamente iniziata tre secoli fa con l’illuminismo) è stata una grande conquista non dell’Occidente ma di tutta l’umanità e che è ora che anche il mondo islamico faccia veloci passi avanti in tale direzione. Discorso analogo vale per l’Afghanistan, dove in nome della religione (teocrazia sunnita), si distruggono le intelligenze e le prospettive di vita di milioni di donne, ridotte in condizioni di semischiavitù. «Mancava un tetto al contante, e noi l'abbiamo portato a casa» è la battuta amara che circola a proposito della corruzione che vede protagonisti alcuni membri del Parlamento europeo. Esponenti di sinistra, o sedicenti tali. Il prestigio delle istituzioni di Bruxelles è fortemente intaccato, tanto più perché le riteniamo portatrici di buon governo e di tutela dei diritti. Resta il fatto che in una democrazia gli scandali e il malcostume emergono ad opera di una magistratura che non ha funzioni semplicemente ancillari rispetto al potere politico, come accade nelle autocrazie. Russia e Cina ne sono un esempio preclaro. In queste lo stesso tessuto sociale è basato sulla corruzione, ma la mancanza di trasparenza e di contrappesi istituzionali fa sì che nulla emerga. Se pensiamo che, come ha recentemente fatto notare Gianni Cuperlo in un’intervista radiofonica, citando Freedom House, «i cittadini del mondo che vivono in una democrazia compiuta sono scesi negli ultimi 16 anni dal 46% al 20%”», non c’è proprio da stare allegri. Il discredito, poi, può dare fiato alle trombe del più pericoloso nazionalismo. Occorre prestare la massima attenzione e ricordare con Angela Merkel che «la riconciliazione tra nazioni che sono state ostili per secoli va sostenuta (con ogni mezzo). Altrimenti i pregiudizi torneranno presto». Venendo infine alle miserie di casa nostra, mentre il 27 dicembre si è solennemente ricordato il 75° anniversario della promulgazione della Costituzione, il Presidente del Senato Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, ha pensato bene di ricordare anche il 76° della fondazione del Movimento Sociale Italiano (26.12.1946), partito composto dai reduci della repubblica di Salò. Dimenticando di esercitare le sue funzioni in base a una Costituzione antifascista che esplicitamente alla XII disposizione transitoria prescrive: «È vietata la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Si è molto discusso se il MSI rientrasse o no nella previsione della c.d. Legge Scelba (20.6.1952, n. 645), attuativa della disposizione transitoria. Di certo invece era fascista l’organizzazione Ordine Nuovo, diretta da Pino Rauti (fondatore e fiancheggiatore del Msi) e per la quale il magistrato Vittorio Occorsio chiese l’applicazione. Pagando con la vita, in circostanze non ancora del tutto chiarite, questo suo grande atto di coraggio. Va da sé che la figlia di Rauti, ora sottosegretaria alla Difesa, si sia prontamente associata a La Russa. E bene ha fatto la presidente delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni a precisare che non basta deplorare, con parole forti, le leggi razziali del 1938 (recente discorso di Giorgia Meloni), perché esse non furono che il punto d’arrivo di un percorso di violenze e sopraffazioni, iniziate nel “biennio nero” 1921-22 che portò alla presa del potere il 28 ottobre del 1922, con la c.d. marcia su Roma. Da parte della Presidente del Consiglio si tenta di deplorare gli aspetti più odiosi del regime fascista, senza una chiara condanna complessiva. Operazione scaltra ma culturalmente miserabile. Mentre nel logo del suo partito continua a essere presente la fiamma tricolore di mussoliniana memoria. □
Dunque, è al governo in Italia la destra-destra. È una parte reale dell'Italia, che esiste, è sempre esistita lungo la storia della Repubblica, e questa volta, anche per un sistema elettorale deformante, e per la diserzione degli indifferenti e dei troppo sfiduciati, si è affermata. Quale spirito rappresenta questa destra? Specialmente nei tempi incerti, la tradizione, anzitutto in forma retorica, dà sicurezza. I tempi veloci della società tecnologica, liberista a tutti i livelli, dall'economico al sessuale, può galvanizzare, ma anche inoculare incertezza, paura di questo futuro arrembante, corto e improvviso, senza prospettive lunghe, senza orizzonti. Si aggiunga, tutto insieme, pandemia, guerra, paura climatica, crisi psicologiche. La destra non ha formule migliori di altri, non ha cultura e competenze più rassicuranti, ma neppure gli altri danno molta sicurezza, e l'incertezza profonda, angosciante, gioca a favore di chi propone: «Cambiate pilota, fate fare a noi, ricordate chi siamo, le nostre tradizioni più sicure, i nostri valori, vi assicuriamo da invasioni e avventure spericolate. Anche la religione tradizionale, chiara, è con noi, non deve proporvi ricerche nuove. Altre culture non valgono la nostra, superiore. La nostra identità ci rassicura, e noi la difendiamo. Ci sono novità che la snaturano: gender, pluralismo culturale, internazionalismo. Avrete con noi modernità e stabilità, non confusione e violenza, combatteremo con efficacia la criminalità. Affermiamo la sovranità nazionale». La verità ideale, nel pensiero di destra, non è poliedrica, ma compatta e certa. Ci sono valori non negoziabili, non componibili. L'Italia è chiamata soprattutto «nazione», cioè quello che siamo per nascita: fisiologia più che convivenza. E dunque «patria» piuttosto che popolo. La parola popolo dice l'aggregazione attuale, con gli stessi problemi e risorse. Il cittadino, a destra, è chiamato piuttosto «patriota», quando invece viene da «città» (polis), e dice la pluralità, la convivenza di varietà individuali naturali e culturali, ciò che costituisce l'arte e l'etica della politica: vivere tanti insieme. La pace interna e vicinale, è solida quando rispetta il pluralismo, ed è «convivialità delle differenze» (Tonino Bello, vescovo). Se l'accento ideologico è sull'omogeneità, dal nazionalismo nasce la sovranità: «superiorem non recognoscens». Storicamente è stata anche fattore di libertà, ma nel mondo ormai unificato materialmente, e bisognoso di un cosmopolitismo democratico, dei diritti umani universali, «la sovranità è belligena» (Antonio Papisca), spezza e contrappone, e si impoverisce umanamente. La democrazia «può anche suicidarsi» (Bobbio): la regola della maggioranza va rispettata, ma la maggioranza può sbagliare, e persino farsi oppressiva: De Toqueville mette in guardia dalla «tirannia della maggioranza», perché la democrazia umanistica tutela le minoranze di ogni genere, a garanzia della correggibilità di ogni sistema. □ Pagina: Indietro 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 Prossima |
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