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Avvertenza

 

Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.

Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale.



 461

Forse rischia di esserci un po’ di paternalismo da parte di alcuni nel sospettare che i più giovani non sappiano che nella questione climatica sono in gioco anche gli stili di vita (di una parte di mondo, perché un’altra è ecocompatibile per forza). Intervistato su «La Stampa» Giacomo, 15 anni, dice che occorre fare un’opera di sensibilizzazione, affinché «tanti cambino abitudini sbagliate», e Gaia, 17 anni, sostiene che da quando frequenta le superiori ha preso decisioni in merito al proprio modo di vivere, convinta che «piccole cose facciano grandi differenze». Quindi forse alcuni ne sono al corrente, anche se certo non tutti saranno come Greta, Gaia e Giacomo e gli adulti dovranno spiegargli bene alcune azioni da mettere in pratica ‒ il problema peraltro è che moltissimi adulti, a partire da quelli che li hanno allevati, sono i primi a non voler cambiare stile di vita e a non pensarci proprio.

D’altra parte, insistere solo sugli stili di vita individuali e scaricare sulle singole persone il peso della questione ambientale, senza aggiungere altro, ci sembra una posizione parziale e poco convincente. Ognuno deve cominciare a fare il suo, Gandhi, come si sa, diceva: sii tu il cambiamento che vuoi veder avvenire nel mondo. È quando si fa in prima persona, e non si predica solo, che si è credibili, infatti Gandhi o san Francesco erano credibili, perché mettevano in pratica quel che predicavano agli altri. Ma anche se tutti, o molti, avessimo stili di vita meno distruttivi difficilmente questo basterebbe, comporterebbe un bel miglioramento certo, ma forse non sarebbe sufficiente senza l’altra componente; ci sono azioni dei governi e scelte di politica industriale nelle quali sono le istituzioni e il mondo politico a dover agire, ed è quindi giusto che queste azioni e queste scelte siano sollecitate... Costantemente sollecitate. Fino a pochi anni fa chi parlava di questione climatica veniva preso per un contestatore radicale o comunque per uno che esagerava dicendo sciocchezze. Oggi, almeno formalmente, questi temi sono entrati nelle agende di molti governi, anche se poi dall’agenda di qualcuno sono usciti in tutta fretta.

Quindi le direzioni sono due, o almeno due, e si influenzano reciprocamente: le scelte individuali di molte persone possono condizionare le scelte politiche (e imprenditoriali) istituzionali, e le decisioni di governi e istituzioni, comprese naturalmente quelle attinenti alle pratiche educative e formative, contribuiscono a indirizzare le nostre abitudini individuali. Non se ne sottolinei solo una o solo l’altra, a seconda delle convenienze.

Non sappiamo se è giusto dire che è un nuovo ’68 o meno, come ha sostenuto Carlo Petrini, e francamente ci interessa poco. In genere le rivoluzioni le fanno i più giovani, e la componente emozionale e di entusiasmo è fondamentale per la loro riuscita. Poi ogni rivoluzione fa storia a sé, tutte di solito sono il portato di novità che premono e il cui affacciarsi è alla lunga difficilmente evitabile – come, in questo caso, il rapporto tra il nostro modo di produrre e le esigenze “naturali” del pianeta (tra virgolette, perché la natura non è di per sé un dato stabile e immodificabile). Ma le rivoluzioni contengono anche un tasso più o meno alto di semplificazioni, ingiustizie, strumentalizzazioni, approcci sbrigativi, lo sappiamo e per quanto possibile bisogna cercare di contrastarli. Una cosa però non ci è concessa: il paternalismo appunto, l’atteggiamento di chi più anziano tende a pensare: «Eh beh, però, una volta era un’altra cosa».

«Tanto serve solo a perdere ore di scuola a niente», si è sentito ripetere ad alcuni adulti che commentavano l’iniziativa. È difficile talvolta entrare in sintonia con gli adolescenti, ma da lì possono arrivare riserve di ossigeno indispensabili al nostro spirito, da non guardare dall’alto in basso di una maturità che si vuole più saggia o più disincantata. Questa della lotta ecologista ci pare proprio una simile riserva di ossigeno. Del resto ha ragione chi ci fa notare che in questo caso, e in quel che dice Greta è abbastanza chiaro, i più giovani non si limitano a scendere in strada contro il mondo degli adulti per rivoltarlo, come spesso è accaduto in passato, lo rimproverano sì, ne sottolineano le mancanze, ma chiedono anche la sua collaborazione, domandano un aiuto, si appoggiano a quanto sostengono “certi” adulti. Allora per quanto le forze siano poche, residue o drammaticamente declinanti, una mano bisogna cercare di dargliela.

 460

Quando queste pagine arriveranno nelle mani dei lettori, i venezuelani o saranno ostaggi di una difficile mediazione internazionale per indurre a ragione due intrattabili aspiranti al governo autoritario del paese o staranno già contando i morti da vendicare, i feriti da curare e le macerie da sgomberare, i palazzi e le case da riedificare, frutto di una guerra civile priva di prospettive e di imprevedibile durata.

Alternative, almeno per ora, non sembrano realisticamente possibili. Proprio per questo, ben coscienti dei limiti conoscitivi, informativi e operativi di questa riflessione la proponiamo alla comune attenzione.

L’«affare» Venezuela, lo scontro tra Maduro e Guaidò non può più essere trattato come una questione interna di quel grande paese e neanche come l’occasione per la riaffermazione (a cori contrapposti) di principi etici assoluti. È diventato un problema di politica internazionale e, in quanto tale, implica la ricerca personale e comunitaria di una soluzione concordata tra tutte le parti coinvolte. Infatti nessun governo di una nazione del nostro mondo, che in qualche misura abbia relazioni con quel popolo e quella terra, e nessun adulto responsabile, che faccia parte di tali nazioni, può fingere di ignorare la potenziale tragedia che sovrasta gli abitanti dei paesi che si affacciano sul Mar dei Caraibi e, a raggiera, quelli di tutti gli stati con questi in relazione.

La guerra civile, alimentata e foraggiata da spregiudicate potenze straniere, pronte a intervenire per espandere il loro raggio d’azione e di controllo, tanto sulle risorse naturali dei singoli territori, quanto sulle ricchezze prodotte dal lavoro umano altrui, sta già dispiegando al vento le sue bandiere. Per rendersene conto basta evidenziare la prontezza con cui Trump e Putin hanno preso posizione a favore dell’uno o dell’altro contendente; esaminare i proclami di Maduro e di Guaidò, i loro appelli ai sostenitori a scendere in piazza per confrontarsi, l’invito reiterato ai militari a prendere posizione accanto all’uno o all’altro dei due se-dicenti Presidenti. L’uno eletto Presidente del Venezuela a seguito di una consultazione popolare viziata da presunti brogli e irregolarità, l’altro nominato alla guida della Camera dalla maggioranza di un’Assemblea Nazionale frutto di elezioni, contestate da Maduro ma validate dalla Corte Suprema, appena insediata dall’Assemblea stessa e subito finita in esilio. Al suo posto, infatti, in seguito a ulteriori contestatissime elezioni di un’Assemblea Nazionale filomaduriana, ha visto la luce una Corte bis, con tutto ciò che ne consegue e che i fans delle “destre” e delle “sinistre”, e forse anche quelli di centro e di ogni altro possibile schieramento più o meno ideologico, si troveranno concordi nel definire un grave, gravissimo colpo di stato del fronte avverso, inevitabile premessa di una sanguinosa, lunga guerra civile dagli esiti incerti, ma sicuramente nefasti per tutti.

Sappiamo bene che per un mensile, minuscolo, ma socialmente e culturalmente impegnato come il nostro, nonostante l’enorme difficoltà a orientarsi in questo groviglio di contraddizioni e di ambiguità, tacere può essere considerato timore di esporsi e di eccessiva prudenza, se non di indifferenza. Al tempo stesso, però, ci è chiaro che chi considera la pace una necessaria premessa al bene comune non deve cadere nella trappola degli schieramenti, per ora non militari, ma destinati a diventare tali.

È bene che né Guaidò né Maduro si sentano incoraggiati, da pronunciamenti fatti a loro favore da governi o gruppi politici e di opinione esterni stranieri, a restare cocciutamente fermi sulle proprie posizioni. Piuttosto sarebbe opportuno che i due venissero coralmente invitati a fare un passo indietro e ad accettare un arbitrato internazionale.

Se dovessimo firmare un appello o un documento è in questa direzione che ci orienteremmo. Infatti, anche se di norma tendiamo a dare più credito a chi a una certa carica è giunto attraverso elezioni, sia pure sospette, che a chi pretende di ricoprirla per autoproclamazione, riteniamo che anche lo stesso eletto a quella carica debba prendere atto che di fronte a una contestazione tanto massiccia e al rischio che il confronto tra i suoi sostenitori e quelli che chiedono le sue dimissioni si trasformi in guerra civile, «per il bene del Venezuela» debba accettare lo svolgimento di nuove elezioni presidenziali e parlamentari sotto il controllo dell’Onu o di altra autorità neutrale concordata.

Detto ciò non possiamo che giudicare deleteria l’ingerenza di uno o più stati nelle questioni interne di un paese, soprattutto quando tale intervento rischia di diventare armato o di favorire una guerra civile. Al tempo stesso in politica estera nessuno stato di media grandezza può agire da solo. Se vuol dare al suo intervento una qualche efficacia, senza sottostare alle ambizioni egemoniche dei potentati continentali, deve cercare accordi e alleanze con quelli a cui si sente strategicamente, economicamente e culturalmente più affine.

[Sulla base di principi etici e ideali utopici, in sé più che rispettabili, possono, anzi in molti casi debbono, agire i singoli, individualmente o per mezzo delle loro associazioni. Questo al fine di influenzare l’opinione pubblica, senza pretendere di accollarsi titoli di superiorità morale e di preveggenza storica e sociale indiscutibile. Ma anche evitando di elargire insulti a chi opera scelte diverse od opposte alle loro, accusandoli di adesione, intenzionale o bovina, a diabolici complotti altrui.]

 

 459

L’arresto di Cesare Battisti non può che essere un motivo di soddisfazione. Ma a Salvini la soddisfazione non bastava: ha detto per l'ennesima volta che «la pacchia è finita». E Battisti, che «ovviamente dovrà marcire in galera fino all'ultimo dei suoi giorni», è stato indicato dal figlio del neopresidente del Brasile Bolsonaro come «un regalo» per Salvini. Anche se criminali conclamati, gli esseri umani non possono essere trattati come pacchi-dono: nessuno può regalarli o riceverli come regalo.
Ma non basta. Il ministro Salvini, con la ormai solita divisa della polizia, e il ministro Bonafede sono andati insieme ad aspettare Battisti all’aeroporto di Ciampino, per vedere il catturato che arrivava e controllare se era umiliato. Come si faceva ai tempi dei romani, quando i prigionieri durante i trionfi erano portati in catene perché tutti vedessero che non potevano più nuocere. Ciascuno di loro vuole annettersi il risultato dell'arresto di un delinquente che elude da quasi quarant'anni la cattura per intascare il dividendo al momento del voto. E il ministro della Giustizia (sic), con la divisa della Polizia penitenziaria, per non essere da meno del collega, il giorno dopo ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un video con i momenti salienti dell’arrivo dall’atterraggio alla reclusione in carcere, compreso il momento del rilievo delle impronte. Avrebbero fatto bene a tener conto di quel che ha dichiarato Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso nel 1979 in una sparatoria in cui lui stesso rimase ferito e perse l'uso delle gambe: «Non trasformiamolo in un orco. Mi aspetto che venga trattato con tutti i diritti e il rispetto che deve avere un detenuto».
Invece un'operazione di polizia si è trasformata in parata di regime. La maniera cialtronesca con cui una parte di questo Paese, alcuni giornali e alcune istituzioni, hanno reagito all'arresto di Battisti è squallido. E ci sarebbe da riflettere sul come Battisti sia diventato il simbolo di una stagione e come quella stagione sia oggi resa con un linguaggio al confine tra il pettegolezzo e il film d'azione.
Dall’altro lato, tuttavia, anche una parte della sinistra ha le sue ombre: nel 2004 molti intellettuali ed esponenti della cultura firmarono un appello per la liberazione di Battisti. Non si doveva cedere a quella ingenuità ideologica per cui la violenza di sinistra, anche quando è brutale e immotivata, va considerata migliore per il fatto di essere di sinistra. Nulla del comportamento di Battisti, che non risulta essersi mai dissociato ? né umanamente né politicamente ? da un movimento violento che ha causato vittime, meritava una simile compromissione.
Due sono i piani di riflessione che ci suggerisce il caso Battisti. Esso deve anzitutto farci riflettere sulle cose gravi, che implicano molti e diversi valori, molti e diversi pericoli. La ricerca di giustizia senza violenza (sia giustizia sociale, sia giustizia correttiva) è uno di questi terreni. La passione per gli oppressi, contro gli oppressori, è facile che armi il cuore e la mano. Vivere quella passione con cuore puro da odio e vendetta, è grande impresa umana. Nel movimento di Gandhi, apostolo di questa impresa, ci furono anche violenti e azioni violente. Gandhi, in quei casi, appena poteva imporre la propria autorevolezza, fermava l'azione e la rinviava a dopo la cura del cuore violento. Che la sinistra abbia prodotto violenze folli, fa più dolore che sorpresa. Che la ricerca di una sinistra sociale attiva e nonviolenta sia ricerca di pochi, è povertà di umanità, di noi tutti. Che la giustizia correttiva (cfr. art. 27 della Costituzione) sia ancora largamente vendicativa e infligga dolore per dolore, è un ritardo di umanizzazione, di noi tutti, e di immaginazione.
Il secondo piano è quello storico. L’impressione è che questo Paese debba ancora finire di fare i conti con gli anni Settanta, perché questo significherebbe anche andare a toccare quel nodo doloroso e complesso che lega una parte delle istituzioni, delle forze dell'ordine ed estremismo di destra che invece hanno steso su connivenze e depistaggi una coltre d'oblio e di reticenze. Sarebbe stato bello assistere a uno Stato che avesse manifestato la propria condanna al terrorismo, stringendosi attorno al ricordo di Guido Rossa, operaio comunista dell'Italsider, nel quarantennale del suo assassinio, il 24 gennaio 1979.


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