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editoriali
Avvertenza
Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.
Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale. |
Dobbiamo chiudere una prima riflessione sull'elezione presidenziale francese, senza poter aspettare il risultato del ballottaggio, che tutti danno prevedibile. Nel primo turno Emmanuel Macron, che rappresenta il centrismo, ha superato Marine Le Pen, alfiere della demagogia nazionalista, quella che serpeggia in popoli europei contro altri popoli umani e vuole indurire i confini. L'effetto dei ripetuti attentati jihadisti che hanno colpito la Francia ha spinto i francesi a votare, ma non li ha spinti nelle braccia della candidata nazionalista e islamofoba, che diceva: «Je suis la candidate du peuple». Tuttavia la Le Pen ha fatto il record dei propri voti, e il gemello italiano Salvini esulta. Riteniamo che la coscienza europea debba vigilare sul veleno della de-politicizzazione: “polis” vuol dire “molti insieme”, sapendo convivere mediante l'arte politica della “tessitura” (Platone), della composizione dei diversi interessi e prospettive umani compresenti nella società. E questa arte si esercita esprimendo e confrontando senza violenza le attese e le volontà, non consegnando le decisioni a leaders sostitutivi. Pare che questa elezione rappresenti la fine dei partiti storici, che avevano questa funzione democratica, la quale dovrà in qualche nuovo modo essere ripresa, senza le ideologie fisse, ma non senza idee e culture più ampie e internazionali. Ci si può chiedere se l'affermazione di Macron “né di destra né di sinistra” (lo diceva anche Mussolini nel '19) sia solo uno svincolarsi da schemi passati, o se non sia l'illusione di non dover comporre, come sempre, la libertà con la giustizia. Questo era essenzialmente il problema destra-sinistra, e non si vede come possa non ripresentarsi sempre. Inoltre, la sconfitta sonora dei partiti tradizionali conferma la tendenza personalistica, a-ideologica (non è del tutto un bene), delle scelte politiche, ristrette sulle alternative brevi, esposte alle influenze immediate. La politica ha bisogno di ideologia (non è una parolaccia), nel senso di una cultura dell'umanità e della storia, delle alternative grandi e lunghe. La politica dipende dalla filosofia di vita di ogni elettore, di ogni democrazia. I partiti tradizionali indicavano le grandi alternative ideali-pratiche della società. Proponevano una unità sociale a valle della soluzione dei gravi problemi di divisione. Ogni proposta politica proponeva una unità (o tendenza maggioritaria all'unità) intorno al proprio valore primario (giustizia; libertà). Oggi le alternative reali sono "sfumate", prevalgono le scelte grossolane: sicurezza/paura, isolamento/federazione; sovranità/federalismo e internazionalismo. La politica è stretta sull'unità negativa, piccola: «Partito della nazione» (Renzi); un troppo generico «En marche» (Macron). La tentazione nazionalista del separatismo-sopraffazione, alla fine vorrebbe dire guerra: economica, sociale, culturale, se non militare. Però è un segno positivo che i popoli non cedano alla violenza di fatto, strutturale, delle oligarchie economiche non elette da nessuno. I popoli sono stanchi, arrabbiati, disorientati in buona parte, e tentati dalla proposta nazional-egoista, contraria ad una storia inter-umana e umanizzante, come richiede ormai la realtà interdipendente del pianeta umano e dell'ambiente vitale. È compito del dibattito culturale, della autorappresentazione delle società, e delle coscienze personali, prospettarsi una politica composita del locale e del planetario, bisognosi l'uno dell'altro. La linea culturale-politica che ci appare sempre più necessaria è il cosmopolitismo democratico, l'amicizia tra le culture e le religioni (che sono culture profonde, cioè cosmologie e antropologie radicate, nonostante gli sconvolgimenti delle forme), la parentela civile tra i popoli (diritto universale di movimento e jus soli: tu sei cittadino della comunità-popolo dove sei, dove vivi e collabori con ragionevole stabilità, e non sei selezionato per il sangue, la pelle o l'origine). Si tratta di un lavoro culturale molecolare, al di sotto dell'informazione rumorosa e delle immagini imperative. Le Pen ha vinto soprattutto a sud-est e a nord-est. A ovest ha vinto persino Melenchon in alcuni posti. L’elettorato di Le Pen sarebbe diviso a sua volta: a nord est nelle zone industriali in crisi l’hanno votata gli operai abbandonati dalla sinistra socialista liberista (vedi Trump nelle zone ex industriali). A sud-est, invece, l’elettorato sarebbe la più tradizionale classe ricca, clericalreazionaria, possidente, e farebbe riferimento soprattutto all’altra Le Pen, la nipote. Al solito le estreme destre nascono e fanno abboccare le masse di disperati, disagiati, arrabbiati. Quando poi vanno al potere fanno gli interessi degli altri. Certo, se i socialisti facessero i socialisti non si porrebbe il problema degli operai che votano destra. Macron ha prevalso grazie alle grandi città. Le campagne avrebbero votato Le Pen. In Usa Trump è stato eletto nelle provincie, battuto nelle città. In Gran Bretagna le città erano per rimanere in Europa. L'aria della città rende liberi? I poteri di fatto comandano di più dove minori sono scambio dibattito, incontri? E di più dove arriva l'informazione standardizzata? Il rapporto umano libero e critico funziona di più nella città di massa e meno nelle comunità, che pure si direbbero a misura più umana? La cultura civile critica ha dunque bisogno di istituzioni e reti, e non basta il contatto diretto privato a dare libertà di pensiero? Sono domande. Rimane l'incertezza delle elezioni parlamentari in giugno, ma la prevedibile presidenza di Macron prospetta una politica francese europeista. Bene. Ma occorrerà ricordare che l'Unione Europea ha bisogno di una mutazione umanistico-sociale, superando l'economicismo che la governa: sovrani non siano il denaro e i commerci, ma le persone e i popoli di persone, per avvantaggiare gli svantaggiati, e non viceversa. L'umanesimo sociale che continuamente propone Francesco, vescovo di Roma, è sostenuto dalla fede, ma non dipende dalla fede, è laico, universalista. Francesco – una reale guida politica, che anima e non accaparra e non sostituisce orientamenti politici umani - è venuto dall'America Latina a ricordare all'Europa la sua anima, è venuto dal continente che l'Europa conquistò violentemente (anche nel nome e nelle lingue parlate), ma al quale, dopo secoli, chiese pane per i propri emigranti. Francesco, figlio di emigranti, è figura attuale di cittadino del mondo. Eletto da qualche decina di vecchi cardinali, si rivela una buona scelta. Votare tutti è giusto e necessario. Votare bene è ancora meglio.
□ I primi atti della nuova amministrazione americana di Trump sono stati scioccanti per l’Unione Europea: molti suoi componenti sono “amici” della Russia di Putin e i discorsi programmatici del presidente sono stati ricchi di attacchi all’Europa, all’euro, alla Germania come cuore dell’Unione, al ruolo che gli alleati europei svolgono nella Nato; infine l’accoglienza trionfale a Theresa May e l’esaltazione della Brexit presentata come esempio per altri paesi. Dopo questo inizio scoppiettante, i toni e gli interventi sono diventati più diplomatici e improntati a una maggiore cautela, ma ormai il campanello d’allarme era suonato molto forte e annuncia una probabile profonda modifica della politica della prima grande potenza.
Dalla fine della seconda guerra mondiale possiamo considerare questa la terza fase della politica estera americana. La prima è stata il confronto globale di sistema con l’Urss, confronto mortale nel quale il ruolo dell’Europa nella Nato era centrale, tanto che gli americani erano pronti, come nelle due guerre precedenti, a morire per la sua difesa. Col crollo del sistema comunista gli Usa, rimasti l’unica grande potenza, hanno tentato di imporre la propria egemonia globale esportando l’economia di mercato, la democrazia e il proprio stile di vita al resto del mondo. Il ruolo dell’Europa per la nuova strategia era meno vitale che nel precedente scenario: quello di potenza locale che, sotto la direzione strategica americana nella Nato, si doveva occupare dello scacchiere mediterraneo e del vicino oriente. Questa politica imperiale però è ben presto fallita perché si è dimostrata nei fatti troppo ambiziosa e costosa e anche perché l’Europa è stata incapace di sostenere il ruolo a lei assegnato, per carenza di coesione politica e difetto di potenza militare e gli Usa sono stati costretti a intervenire sempre in prima persona (da qui la critica di Trump). Ora gli Stati Uniti devono ridefinire la loro strategia mondiale e, da quanto detto in campagna elettorale e dai primi interventi ricordati, Trump sembra intenzionato a riposizionare gli Usa come prima grande potenza, pronta a difendere fino in fondo i propri interessi di fronte ad altre potenze di grado inferiore. Questa nuova politica spiazzerebbe completamente l’Europa che da stretta alleata si troverebbe improvvisamene come una sua concorrente. E una delle più pericolose in quanto la sola dotata di un sistema monetario in grado di scalzare l’egemonia del dollaro. Insomma l’Europa si potrebbe trovare nelle condizione di un forziere pieno di ricchezze con una difesa inadeguata. La tentazione per Usa e Russia di mettersi d’accordo per servirsi abbondantemente di queste ricchezze sarebbe veramente troppo forte. Per ora questa alleanza è resa molto difficile dalla guerra in Ucraina, che però è molto più pericolosa per l’Europa che per gli americani, e per la Russia chiuderla potrebbe essere un prezzo non troppo caro da pagare in vista di un’intesa globale con loro. Per questo alcuni paesi, approfittando delle celebrazioni del sessantesimo anniversario del Trattato di Roma istitutivo della Cee, hanno deciso di dare un’accelerazione all’Unione, eliminando il diritto di veto, in modo che i paesi che sono d’accordo possano fare passi avanti nell’integrazione, mentre gli altri potranno aggiungersi più avanti, via via che si sentiranno pronti. Si comincerà da una politica economica e sociale più incisiva, per passare poi a un maggior coordinamento militare. Il passo decisivo però sarà darsi una politica estera comune, l’Europa cioè deve scegliere che ruolo vuole giocare tra le altre potenze, uscendo infine dal cono d’ombra degli Stati Uniti in cui è vissuta, comodamente, dal dopoguerra. Per ora un’unione più stretta è frenata da una parte dei paesi dell’est che, usciti da poco dal dominio comunista, sono gelosi della ritrovata indipendenza. Ma, seppure per tappe, è necessario progredire perché l’Unione Europea potrebbe essere un fattore decisivo di stabilità nel mondo. Come infatti nel secolo scorso le discordie tra europei hanno contribuito a scatenare due guerre terribili con decine di milioni di morti e distruzioni mai viste prima nel suo stesso seno, ora l’unificazione potrebbe portare le altre potenze intorno a un tavolo per cercare di dare un governo alla globalizzazione ed evitare così che le contraddizioni sempre più forti che si stanno accumulando minacciose esplodano in una guerra in cui verrebbe messa in pericolo la stessa sopravvivenza della nostra civiltà.
□ Il 25 marzo saranno 60 anni dal Trattato di Roma, che diede vita alla Comunità Economica Europea, diventata poi con Maastricht, nel 1992, Unione Europea. Si spera che la ricorrenza non si limiti a esaltazioni retoriche del passato, ma affronti con coraggio un presente poco rassicurante e un futuro ancora più incerto. Di fronte al prepotente ritorno dei nazionalismi è possibile uscire dalle pericolose secche in cui si è incagliato da tempo il processo di unificazione? Senza alcuna illusione o ridicola pretesa di completezza proviamo a indicare qualche tema che potrebbe essere sviluppato per avere più integrazione, e non meno, come chiedono molte forze politiche che mirano alla liquidazione dell'Unione stessa.
Primo: la messa in comune del debito pubblico. Cioè la creazione di un ministro del Tesoro europeo che possa emettere buoni del tesoro federali, garantiti dall'Unione, sottoscritti, almeno in parte, dalla Banca centrale e successivamente messi a disposizione dei bilanci dei singoli stati. Una graduale sostituzione del debito nazionale con un debito europeo.
Secondo: far emergere partiti europei con leader europei, superando le gabbie nazionali che impoveriscono e limitano le rappresentanze democratiche e favoriscono il consolidarsi di burocrazie autoreferenziali. Il Parlamento e la Commissione dovrebbero vedere rafforzato il loro ruolo, che in questi anni invece si è ridotto di fronte al prevalere di paralizzanti politiche intergovernative (decisioni prese dai capi di governo o dai ministri dei vari stati, pressati da interessi localistici).
Terzo: affrontare il problema della difesa europea, nella prospettiva di un esercito comune, con qualche primo esperimento, perché no?, di difesa nonviolenta. Riprendere il discorso interrotto nel 1954 adì opera dei francesi che impedirono la costituzione della Ced (comunità europea di difesa). De Gasperi ebbe la notizia a pochi giorni dalla morte: «Vedeva lucidamente le ripercussioni di lungo periodo che il no francese alla CED avrebbe avuto su tutto il processo d'integrazione...era in gioco non solo il progetto della Ced... Lui voleva che l'idea europea fosse un dato non aggiuntivo ma costitutivo della politica e identità italiana» (G. Sangiorgi, De Gasperi, uno studio, Rubbettino 2014, p. 17). Tema di grande attualità di fronte agli atteggiamenti di Putin, in verità provocati anche dall'espandersi della Nato verso est, e in rapporto alle recenti dichiarazioni isolazioniste di Trump. La costruzione di un esercito comune, oltre a mitigare la soggezione verso gli Usa, avrebbe anche il non secondario vantaggio di ridurre e rendere più efficienti le spese militari complessive dei singoli stati.
Quarto: l’immigrazione. Problema di durata indefinita, altro che emergenza. Che non si risolve con ambigui accordi con la Turchia e, più recentemente con la Libia, affinché facciano da argine preventivo al passaggio del Mediterraneo costringendo i migranti in lager disumani e probabilmente alimentando col flusso di aiuti, governi corrotti e malavita locale. Occorre invece dare finalmente concretezza a sistemi legali di immigrazione, cioè aprire quei corridoi umanitari di cui molto si parla, ma per i quali finora, se si eccettuano lodevoli eccezioni per numeri necessariamente limitati, come quelle della Chiesa Valdese e della Comunità di S. Egidio, nulla è stato fatto. «Abbiamo bisogno di canali d’accesso legali per le persone che necessitano di protezione», ha autorevolmente ribadito J. Gauck, presidente tedesco, in un’intervista, negli ultimi giorni del suo mandato.
È certamente anche possibile aiutarli “a casa loro”, se una casa ce l’hanno… con un’analisi molto accurata delle modalità di aiuto, perché le risorse non finiscano in mani sbagliate. Ma sapendo anche che la spinta a scelte disperate, al netto della povertà e delle guerre, è talora determinata dalla invivibilità di certi ambienti, divenuti tanto più insopportabili per effetto della comunicazione globale. Esistono stati, come l’Eritrea, da cui è impossibile uscire legalmente e in cui i maschi sono costretti a fare il servizio militare praticamente a vita e le femmine a sposarsi bambine. Si tollerano, se non si favoriscono, antiche usanze familiari e norme tribali. La scelta di fuggire, in tali casi, è incontenibile. All’arrivo si apre tutto il discorso della distribuzione tra i vari paesi, finora osteggiata, in vario modo e in diversa misura, dai governi nazionali e quello ancor più grave dell’integrazione (culturale e lavorativa), che non può avvenire proficuamente se non con una distribuzione di piccoli numeri nei vari territori. Per l’Italia si vedano, ad esempio, i criteri seguiti dalla regione Toscana.
Il discorso porterebbe lontano e la complessità aumenterebbe. Molto resta ancora da fare per l’integrazione culturale dei popoli europei, in cui dovrebbe affermarsi una lingua comune (che non può che essere l’inglese), insegnata in parallelo con le lingue nazionali, dalle scuole elementari, come avviene da molti anni nei paesi del nord Europa. È altrettanto necessario che il cammino unitario riparta dal cuore dei paesi fondatori, non necessariamente i sei iniziali, ma certo non molti di più. Forse i diciannove della moneta unica sono già troppi per pensare a un cammino proficuo in questi tempi.
È utopia tutto questo? Probabilmente sì. Ma l’alternativa è la disgregazione della costruzione europea, che non si fermerà al ripudio della moneta, ma ritornerà alle economie e agli stati nazionali aprendo il futuro a ogni più tragico scenario. Dobbiamo quindi fortemente sperare, con Mario Draghi, che euro money e European Union siano «irrevocable and irreversible».
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