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Avvertenza

 

Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.

Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale.



 493
Mikail Gorbaciov non era un sognatore né un profeta ma un politico realista, intelligente ed appassionato. Dal suo osservatorio privilegiato di Segretario generale del Partito Comunista e poi Presidente dell’Unione Sovietica, aveva capito il grave pericolo che l’umanità correva continuando con le vecchie politiche di confronto, contenimento, logoramento tra Stati ereditate da secoli passati in cui però non erano presenti armi di distruzioni di massa. Aveva anche ben presente la lezione degli ultimi disastrosi conflitti mondiali (in cui il suo paese aveva pagato un prezzo altissimo): lo scontro tra grandi potenze per l’egemonia era sfociato in un bagno di sangue e in distruzioni senza precedenti. Cosa sarebbe successo se si fosse combattuto con armi termonucleari? La guerra non era più uno strumento accettabile per risolvere i contenziosi tra Stati. Occorreva impostare una politica nuova basata su un accordo globale tra grandi potenze e sulla fiducia reciproca, per regolare in modo razionale e politico tutti i contenziosi presenti e ridurre in modo bilanciato gli armamenti, in particolare quelli nucleari. Da un discorso che Gorbaciov tenne nel 1986 al Parlamento indiano, in cui cita una massima di Buddha, traspare chiaramente lo spirito che lo animava: «Una vittoria può definirsi tale soltanto se tutti in egual misura sono vincitori e nessuno è vinto. Queste parole sono a voi note da più di due millenni e mezzo, ed oggi si rivelano di grande utilità. Nel secolo dell’arma nucleare l’unica vittoria possibile è la vittoria della ragione. Impariamo a lottare insieme per essa» (da «bozze 87»).

Conseguentemente a questa filosofia, Gorbaciov ha cercato di modificare radicalmente la politica dell’Urss e di impostare in modo diverso i rapporti con gli Usa. Ma era ormai troppo tardi. L’Urss era un paese sull’orlo della bancarotta, dove gli uomini al vertice del potere si accingevano a spartirsi le spoglie dello Stato. Il suo è stato recepito come un segno di debolezza (questo è quello che pensa immediatamente chi ragiona in termini di forza) e ci si è preparati ad approfittarne. Oggi possiamo vedere le nefande conseguenze di questo tragico fraintendimento.

Intanto un altro confronto sta crescendo: quello con la Repubblica Popolare Cinese. La Cina è un paese in rapida crescita, sempre più cosciente della sua forza e dei suoi interessi vitali. Non si accontenta più del ruolo che l’Occidente gli ha riservato. E la Cina non è come l’Urss di Gorbaciov una Stato in disfacimento. Ha tutte le caratteristiche della grande potenza in ascesa. È evidente che la politica di contenimento messa in pratica dall’Occidente nei suoi confronti alla lunga non può funzionare e porterà inevitabilmente a uno scontro diretto. Occorre dunque ritornare agli anni ’80 e alle sagge proposte di Gorbaciov ed evitare i tragici errori di allora, perché è adesso che si decide il futuro: da come oggi l’Occidente imposta i rapporti con la Cina dipenderà la pace o la guerra, la vita o la morte di domani.

 492
Su 945 parlamentari eletti nel 2018, ben 283 (il 30% per cento) hanno cambiato partito nei quattro anni successivi. E nella legislatura quel parlamento non ha saputo esprimere al suo interno un presidente del consiglio (entrambi i capi di governo che si sono succeduti non si erano presentati alle elezioni), né indicare un nuovo presidente della repubblica: ha ‘pregato’ quello uscente di rimanere, nonostante avesse detto chiaro e tondo di non volerne sapere.

Ma c’è di più. In presenza di una pessima legge elettorale - che apriva la strada a un parlamento dei ‘nominati’, senza consentire all’elettore di scegliere le persone, e risultava tanto più inadeguata a sèguito del taglio dei parlamentari, al punto che ai tempi del referendum tutti si impegnavano a modificarla – non si è nemmeno avviato l’iter per un suo cambiamento. E da ultimo, la campagna elettorale è iniziata con i risibili ‘colpi di teatro’ di piccoli leader, guidati dai sondaggi nel marketing dell’ennesimo partitino personale.

Date queste premesse, difficile stupirsi dell’astensionismo. Quanto poi al dibattito in corso – scriviamo a fine agosto ‒ vede prevalere la demagogia e scarseggiare l’analisi e le proposte concrete. Il centrodestra appare come sempre capace di lanciare messaggi chiari, semplicistici e divisivi (stop immigrazione e flat tax) e di passare sotto silenzio le divisioni interne: quasi ci si dimentica che in questi due anni Meloni era all’opposizione e Lega e Forza Italia nel governo. Sorprende maggiormente che nel confronto abbiano un peso secondario tematiche come la sanità pubblica o la pace in Ucraina. Eppure la pandemia e questa guerra sono tragedie epocali, destinate a segnare drammaticamente il nostro futuro. Certo, sono temi che esigono uno sforzo di riflessione e non si risolvono con le battute dei talk show: ma è sconcertante la superficialità con cui vengono trattati nella discussione preelettorale. E lo stesso può dirsi dell’altra grave emergenza dei nostri tempi, forse la maggiore di tutte, quella climatica e ambientale.

Una novità rilevante è che la coalizione di centrodestra ha fatto propria all’unanimità la proposta di una riforma istituzionale basata sul presidenzialismo, impegnandosi a portarla all’approvazione – anche in modo unilaterale – in caso di vittoria. Ciò ha destato motivate preoccupazioni: il rischio di uno stravolgimento della carta costituzionale è dietro l’angolo. Da più parti sono venuti appelli a una larga alleanza in difesa della Costituzione, resa impossibile dalla rottura tra PD e M5S e dai protagonismi del ‘centro’.

Ma il centrosinistra, purtroppo, non ha concordato un progetto di riforma elettorale e continua a diffidare del proporzionale con ‘preferenze’: con la conseguenza che anche qui si limita a giocare in difesa. E tanto più in difesa in quanto il Rosatellum consente alla coalizione vincente di ottenere tra il 60 e il 65% dei seggi con il 45% dei voti, avvicinandosi alla maggioranza dei due terzi, ovvero alla possibilità di riscrivere la Costituzione senza referendum.

Guardando al lungo periodo, una tendenza è evidente: con la prospettiva di un governo trainato dalla destra-destra abilitato a cambiare le istituzioni giungerebbe al pieno compimento la parabola iniziata trent’anni fa con la crisi della prima Repubblica. Con il prevedibile corollario di un ulteriore smantellamento dello stato sociale.E con una straordinaria necessità – nel prossimo futuro - di ricostruire le basi di una credibile alternativa: attraverso un rinnovato impegno civile, che restituisca ragioni di speranza dove oggi prevalgono la paura, i risentimenti e la frustrazione.

 491

Solo poco più del 20% degli aventi diritto ha partecipato al voto del 12 giugno per i 5 referendum sulla giustizia. Mai si era toccata un’affluenza così bassa. Molti sono i motivi che hanno portato a questo risultato. La causa principale è sicuramente la difficoltà dei quesiti: era molto complicato anche per un esperto del ramo comprendere fino in fondo cosa sarebbe successo con una vittoria del SI. Infatti tra gli astenuti una quota importante è certamente stata quella di coloro che intendevano protestare contro questo uso distorto del referendum, trasformato in uno strumento di propaganda e visibilità, anche se si sa in partenza che non potrà raggiungere in nessun caso il quorum. Tra gli astenuti, c’è anche stato chi, volendo consapevolmente far vincere il no, sapeva che era meglio non partecipare al voto.

Un’altra causa non secondaria dell’astensione è che la richiesta è venuta da Consigli Regionali di centrodestra invece che attraverso la raccolta di cinquecentomila firme. I fautori dei referendum hanno risparmiato soldi e tempo, ma hanno anche rinunciato alla possibilità di spiegare nelle piazze agli elettori gli scopi che volevano raggiungere. Infine c’è la stanchezza per i troppi referendum che vengono richiesti a grappolo.

Questo declassamento di uno strumento di democrazia diretta è un vero peccato, ed è grave che chi propone i referendum, in particolare il partito radicale, non se ne preoccupi e continui ad usarlo in modo improprio. Sarebbe necessario invertire questa tendenza. Si potrebbe forse introdurre al posto di questo referendum abrogativo uno costitutivo, pur con tutti i problemi che pone. Temiamo però che i tempi per una simile modifica della Costituzione non siano favorevoli.

L'altro evento giuridico del mese di giugno è stata la promulgazione nella domenica di Pentecoste della riforma della Curia romana, in cui spicca la strategia della «declericalizzazione anticarrieristica» (mandati di cinque anni). Infatti qualunque fedele potrà essere a capo di un «dicastero», con la motivazione “epocale” che «la potestà di governo nella chiesa non viene dal sacramento dell'ordine, ma dalla missione canonica» (in genere conferita dal Papa o dal vescovo); sulla base del principio innovativo che il potere è slegato, disconnesso dai ministeri ordinati. Non vale solo della curia romana, ma anche di quelle diocesane: significa, se abbiamo ben capito, che anche un laico o una donna potrà ad es. essere vicario generale della diocesi.

Qual è allora la funzione specifica del sacramento dell'ordine? Soprattutto nei territori di missione viene di fatto ad essere quella di amministrare due sacramenti, l'eucarestia e la penitenza. Il missionario passa mensilmente, se non addirittura annualmente, in comunità rette da laici, laiche, suore. Ma la prossima innovazione potrebbe essere: perché non conferire, soprattutto per l'Eucarestia, il sacramento dell'ordine a questi “dirigenti”?

In tal modo si arriverebbe a ricongiungere la potestà governativa e l'ordinazione, ma in una concezione radicalmente nuova: tutti i battezzati, uomini e donne (sposati o celibi che siano), potranno accedere al governo delle chiese da ministri/e ordinati/e, ovviamente con la dovuta preparazione, competenza e adeguatezza per la delicata funzione. È così difficile da capire che l'esiguità delle vocazioni cosiddette “consacrate” è un falso problema?

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