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editoriali
In modo improvviso e inaspettato, qualcuno direbbe sconsiderato, il nuovo Vescovo di Roma ha indetto per la fine del 2015 e tutto il 2016, «un anno Santo della misericordia», che non riguarda solo la sua diocesi, ma tutte le diocesi del mondo. Insomma il papa, senza apparentemente aver consultato nessuno, ha indetto il Giubileo. Proprio quel Giubileo che il grande e temibile Bonifacio VIII per primo indisse nel 1300. Davvero numerose e assai gravi sono le possibili, anzi doverose, critiche alla prospettiva di ripetere i chiassosi raduni di massa degli ultimi giubilei, mastodontici e caotici modelli di gran turismo religioso. Ne hanno scritto i giornali, parlato le televisioni. Ne abbiamo discusso tra noi. C'è chi se ne lamenta, chi se ne compiace. Temono i primi, sperano i secondi il ritorno ai consueti rituali, al rinnovarsi di quelle pratiche devozionali che così bene sono servite per far dimenticare le opere di misericordia corporale e sociale. C'è chi preferisce tacere fino al 12 aprile, quando la “Bolla papale” ci farà conoscere le vere intenzioni di un «papa tanto imprevedibile» e che, proprio per questo, sta diventando un mito, che come tutti i miti «dà da pensare». Noi preferiamo cominciare a pensare da subito e tentare di rispondere, senza la pretesa di indovinare il futuro, alle domande più inquietanti che la sua ultima iniziativa ci obbliga a porci. Perché una decisione tanto improvvisa e deliberatamente personale? Per affermare la propria autorità sovrana, come già il citato Bonifacio? Potrebbe anche essere, ma contraddirebbe tutta la linea pastorale comunitaria enunciata nell'Evangeli Gaudium e l'insistenza con cui chiede alla Curia di non comportarsi come «l'ultima corte europea». Bisogna pensare ad altro. Per esempio all'andamento del Sinodo sulla famiglia, dove troppi sono orientati a far prevalere la dottrina sulla pastorale, i precetti sulle persone. Probabilmente Francesco non teme di trovarsi in minoranza, ma che si consolidi uno zoccolo duro di “dottori della legge”, capaci di seminare discordia in molte diocesi e di disorientare i fedeli. Con il documento d'indizione del Giubileo della misericordia e con i dibattiti che ne seguiranno ritiene, forse, di poter aiutare tutti a comprendere che, se «non è l'uomo ad essere fatto per il sabato ma il sabato per l'uomo», così anche la dottrina è fatta per l'uomo e che, quando cambia la cultura e l'identità antropologica dell'uomo, deve cambiare anche la dottrina. Il che, già da solo, significa che questo Giubileo non ripeterà il passato. Perché accennare in questa occasione alla brevità del suo pontificato? Perché ha scoperto di essere anziano e mortale, magari anche malato? Perché teme una torta o un caffè avvelenato? Perché intende dimettersi ai primi segni di debolezza? Ci sembrano ragioni o troppo banali o troppo azzardate. Molto più naturale è pensare che voglia dirci di saper bene che la durata presumibile del pontificato di un settantottenne è troppo breve per portare a termine il rinnovamento radicale di una chiesa, ferma da secoli a tutelare l'antico prestigio e incapace di serio confronto con la realtà storica, sociale, culturale ed esistenziale degli uomini. Eccolo, dunque, cacciarsi in un'impresa quanto mai rischiosa: tentare di dare nuova vita ad una delle pratiche più sclerotizzate e ritualizzate della chiesa medioevale, per coinvolgere tutti: uomini e donne, anche non credenti, vecchi e bambini, religiosi e religiose, preti, vescovi e cardinali compresi, in un rinnovamento profondo della pastorale e della dottrina della chiesa, a partire dal valore profetico ed escatologico del precetto sabbatico e giubilare, “simbolo” del Regno di Dio. Fin dall'inizio della sua vita pubblica, infatti, Gesù si presenta come l'annunciatore della “buona novella”, che altro non è, secondo Luca (4, 16-21), che l'inizio della piena realizzazione della profezia di Isaia (61, 1-3) sulla liberazione dei poveri dalla miseria, dei malati dalle sofferenze, degli schiavi dalle catene. Inizio che Isaia qualifica come «anno di misericordia» e Luca ribattezza «anno di grazia», ponendo così, l'uno e l'altro, l'intera opera creatrice e salvifica di Dio sotto il segno del sabato, dell'anno sabbatico e di quello giubilare (Es 21,1-11 e 23,10-12; Lev 25,1-55). Ora chiunque si accosti ai passi biblici in cui si parla del sabato, dell'anno sabbatico e di quello giubilare, si rende conto che queste ricorrenze non comportano mai il rispetto di particolari pratiche religiose e spirituali, tipiche degli anni santi e dei precetti domenicali della chiesa cattolica. L'istituzione di tali tempi, privilegiati da Dio con atti straordinari di misericordia, prescrive sempre e solo il sabato, riposo per tutti, uomini e donne, padroni e schiavi, bestie dei campi comprese; nell'anno sabbatico (l'ultimo di sette), riposo della terra e delle piante, liberazione degli schiavi e remissione dei debiti; ogni sette settimane di anni, il quarantonovesimo/cinquantesimo, annunciato dal suono del corno, lo Jöbel, da cui Giubileo, riposo della terra, liberazione degli schiavi, remissione dei debiti e, in più, la restituzione delle terre agli antichi proprietari. Se si esclude il riposo del sabato, Israele e il popolo cristiano non ritennero mai opportuno mettere davvero in pratica tali avveniristiche raccomandazioni. Ma esse restano sempre lì disponibili per ogni vera conversione, per ogni vero atto di fede, di speranza e di carità, disponibili come porte aperte all'incontro con l'altro da noi, solo preludio a ogni vero incontro con Gesù e col suo Dio. Sarà così che papa Francesco pensa l'imminente «anno della misericordia»? Così speriamo che lo pensi, proprio come se l'augura «La Civiltà Cattolica», che conclude così l'editoriale del suo ultimo numero: «Il giubileo non sarà solo una riflessione sui modi pastorali, ma l’impegno a riaprire in termini non soltanto astratti, ma esistenziali, la questione di Dio, su chi sia Dio, sul suo volto, che l'uomo moderno(credente e non credente) sembra non conoscere più, perché non riconosce più il Misericordioso». □
Questo inizio di 2015 sta sottoponendo la costruzione europea a una serie di prove cruciali: dalle risposte che sapremo dare dipenderà il nostro futuro. Innanzitutto la guerra alle nostre frontiere. A nord l’Ucraina, a sud la Libia, ad est il Califfato e la piaga sempre aperta della Palestina. Di fronte a queste evenienze la risposta europea non è adeguata. Un grande spazio politico ed economico qual è oggi l’Europa parla con voci diverse e dissonanti. E il vuoto è tanto più forte dinanzi al fallimento della politica degli Stati Uniti verso i paesi islamici. La difesa di regimi corrotti, elitari e oppressivi perché facevano comodo, alla lunga si è rivelata un boomerang e di fronte alla crisi di questa strategia l’unica risposta è stata finora quella militare, che ha però favorito solo l’estremismo islamista. Dopo il crollo dell’Urss gli Stati Uniti, rimasta l’unica potenza globale, hanno creduto di poter controllare l’intero pianeta, mostrando troppa fiducia nella propria forza e troppi interessi da difendere. Spetterebbe all’Europa colmare questo vuoto politico, svolgendo un’azione mediatrice, più equilibrata e saggia, attingendo dalla propria storia e dagli errori commessi nel secolo scorso. Ma tragicamente è in ritardo perché non ha una politica estera comune, come è dimostrato dalla mediazione tentata tra Ucraina e Russia, in cui invece di intervenire con l’unica voce del ministro degli esteri dell’Unione Mogherini, hanno parlato Merkel e Holland, mentre gli altri Stati stavano a guardare. Naturalmente il peso politico di questi interventi improvvisati è molto basso. Anche nella politica verso i paesi islamici e nel contrasto al Califfato ciascun paese va per conto suo, con Francia e Gran Bretagna che vorrebbero essere i primi della classe, ricordando forse il loro passato coloniale, e invece aumentano la confusione accumulando errori su errori. L’altra sfida è quella della politica economica posta con forza dalla vittoria di Syriza in Grecia. Aldilà del contingente problema del debito e dell’inefficienza dello Stato greco, Tsipras pone un problema di fondo: se i paesi più forti, efficienti e ricchi usano l’Unione per aumentare il divario con quelli più deboli, non si potrà andare molto lontano. Che chance ha l’industria greca contro quella tedesca? E la sua agricoltura in confronto a quella francese? La Grecia aveva un solo strumento a disposizione (ma il discorso con piccole variazioni vale anche per quasi tutti i paesi mediterranei dell’Unione): la svalutazione progressiva della propria moneta per rendere più competitive le proprie merci, manovra ormai impossibile con l’euro. Resta il turismo, risorsa importante, ma assolutamente insufficiente. Senza un progetto economico comune che ridistribuisca lavoro, risorse e redditi tra paesi forti e paesi deboli, l’Unione non sta in piedi. Ai popoli dei paesi più ricchi può sembrare un sacrificio eccessivo, che intacca i loro interessi fondamentali senza contropartite; ma questo è un grave errore di prospettiva, lo stesso che ha fatto la Lega Nord in Italia: se i paesi del sud Europa non sono più in grado di acquistare i prodotti del nord a chi li venderanno questi ultimi? Si dovrebbe anche parlare del terrorismo e della continua pressione di migranti che lasciano in mare sempre più persone, a cui l’Unione non è in grado di dare risposte adeguate, ma dovremmo constatare la stessa mancanza di progetto politico, coordinamento, volontà unitaria (e nel caso dei migranti anche di umanità). Molti nodi stanno venendo dunque al pettine, la situazione si degrada di giorno in giorno, mentre il ritardo accumulato è già molto grande. Non si può perciò più temporeggiare: o si rilancia l’Unione, avviandoci a una federazione con poteri reali agli organi comunitari e una politica estera ed economica lungimirante e unitaria, o inesorabilmente l’Europa arretrerà consumando fino in fondo la sua decadenza e mettendo anche a rischio l’equilibrio mondiale. □
Anche in Italia maturano eventi importanti. Approfittando del declino di Berlusconi, Renzi cerca di occupare tutto il centro politico, lo spazio che un tempo era della Dc. Per ora non ha problemi alla sua sinistra, perché la vecchia dirigenza Pd ha dimostrato nel 2013 di non essere in grado, nonostante le condizioni estremamente favorevoli, di proporre un programma in grado di vincere le elezioni; neppure la sinistra radicale pare possa esprimere una leadership vincente. L’unica alternativa possibile al suo governo è di destra. Per sua fortuna la destra è divisa tra spezzoni di Fi, Cinque stelle e Lega. Ma la crisi italiana è profonda, difficile da districare, e una parte dell’opposizione si avvale di un populismo esasperato e irresponsabile, che presenta anche risvolti di pericolosità non indifferenti. Non si può perciò abbassare la guardia. Il suo successo o la sua rovina saranno determinati dal programma di riforma che riuscirà a portare avanti: legge elettorale, abolizione del bicameralismo perfetto e soprattutto riforma della pubblica amministrazione. L’economia invece sarà il suo punto debole, perché per ottenere dei risultati apprezzabili deve avere la collaborazione dell’Europa che ancora non ha (ma l’intervento della Bce già ricordato può essere un buon segnale). Ma il quadro politico italiano è in gran movimento e gli accordi necessari per l’elezione del Presidente della Repubblica, che al momento in cui scriviamo non è ancora avvenuta, possono determinare una svolta importante, come già è successo precedentemente con la sconfitta di Bersani e la rielezione per disperazione di Napolitano. Occorrerà riprendere l’argomento. □ |
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