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editoriali
La questione è se scrivere o se mantenere un minuto di silenzio. Perché la tragedia del 7 gennaio è entrata nelle nostre vite, nella nostra redazione, e le ha sconvolte. Il nostro numero si sta chiudendo dopo l’attacco terroristico nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo, gli assedi nel supermercato kosher e nella tipografia e la “grande” marcia repubblicana a Parigi. Ci siamo scambiati decine di e-mail: passione, sconcerto, dolore. Ciascuno ha cercato di trovare un’interpretazione, secondo la sua vocazione: c’è chi ha avuto necessità di scrivere subito e chi ha preferito cercare di leggere la valanga di articoli che ci siamo scambiati; c’è chi ha portato la sua testimonianza di cittadino francese e chi ha allargato la riflessione ad altri gravi avvenimenti dei giorni scorsi; c’è chi si è interrogato su quali sono le vie per reagire ai “mali del mondo” e chi una risposta non solo non la sa trovare, ma non pensa neppure che possa essere cercata. È raro condividere con voi lettori quello che anima i discorsi della nostra redazione, eppure la pluralità di vedute è una risorsa preziosa soprattutto in un momento complesso ed estraniante come quello che stiamo vedendo. È un modo per testimoniare la forza della diversità, che può portare la riflessione un passo oltre quello che il cuore e il pensiero di ciascuno riesce a individuare. Ed è curioso che, invece, in questi giorni abbiamo ascoltato molti commentatori sciorinare un preciso elenco delle «cose da fare»: la pronta condanna del massacro da parte delle comunità islamiche (peraltro poi avvenuta diffusamente), la necessità che il Papa commemori i cristiani perseguitati e non i vignettisti francesi, la sospensione di Schengen e via discorrendo. Forse è proprio questo l’aspetto più importante su cui riflettere: in un mondo che è inevitabilmente plurale, in cui convivono e si confrontano diverse culture, dovremmo cercare di spogliarci delle nostre certezze intransigenti e cercare di capire meglio il punto di vista e la sensibilità degli altri, pur senza tradire le convinzioni più profonde e difendere i valori. Ed è anche un modo per rendere omaggio a una redazione − uomini e donne, vignettisti ed esperti, atei e credenti − che condensava tante differenze e tanto coraggio. Che era alle prese con le consuete incombenze editoriali quando qualcuno ha deciso di spezzare le loro matite, come numerose opere di disegnatori di tutto il mondo hanno raccontato in questi giorni. Un giornale e un piccolo oggetto della quotidianità come la matita sono diventati loro malgrado un simbolo, si sono riversati nelle piazze, hanno riempito i social network e le prime pagine dei giornali. Hanno smosso i cuori e agitato le coscienze, al di là di ogni diversità nella valutazione del loro orientamento culturale. Possono essere una moda effimera, come dicono i cinici. Possono essere un simbolo debole, come scrivono gli anticonformisti. Possono rappresentare un impegno a buon mercato, come ritengono gli attivisti di lunga data. O forse, invece, sono un modo per non dimenticare: perché noi non dimentichiamo, perché voi non dimentichiate. Che alcune vite sono state prese, che degli uomini hanno preferito la violenza al confronto, che la convivenza è un processo dinamico e una sfida continua. Anche noi abbiamo il compito di non dimenticare, e di non far dimenticare, e per questo continueremo a confrontarci e a scriverne, a partire dal prossimo numero. □
Da sempre i fiumi scorrono verso il mare e nel mare portano quanto incontrano sul loro percorso. In principio trascinano terra, pietre, sabbie: poi anche erbe, rami, alberi, caduti o travolti, carcasse e corpi di animali. A seguire, man mano che pendici montane e collinari, valli e pianure si riempiono di abitanti, ecco sparire tra i flutti anche passerelle e ponti, resti di muretti e argini, infissi e cementi di case, impianti sportivi e turistici, e qualche umano sorpreso e travolto da piene improvvise. Lo sapevano gli abitanti dei villaggi paleolitici, gli etruschi di Volterra, i romani dell'Urbe dai sette colli, i fiorentini del Ponte vecchio, contadini e pescatori del delta padano. Lo sapevano e hanno costruito dove e come ritenevano possibile difendersi meglio dai capricci del tempo, non sempre con esiti felici. Dove non arrivava un'alluvione ricorrente, poteva arrivarne una eccezionale. Una collina, una roccia solida per secoli, poteva essere corrosa dalle intemperie, insidiata da acque sotterranee. Un vulcano poteva esplodere dopo millenni di relativa quiete. Il clima poteva cambiare. Gli uomini hanno sempre vissuto con la paura delle alluvioni, delle frane e dei terremoti, delle siccità e delle carestie; hanno tentato di difendersene con le conoscenze e coi mezzi di cui disponevano e hanno puntualmente pagato il prezzo delle proprie imprudenze, dei propri limiti culturali e della ricerca, affannosa, di una vita meno faticosa e precaria. Da questo punto di vista la nostra situazione oggi non è sostanzialmente diversa, se escludiamo due importanti variabili, che poco hanno a che fare coi capricci della natura, molto invece con la nostra tendenza a sottovalutare la pericolosità dei fenomeni non statisticamente certificati e a considerare irrilevanti le conseguenze delle nostre scelte produttive e abitative sul clima e sul deterioramento del suolo. E qui bisogna avere l'avvertenza di non attribuire a capitalismo e socialismo prassi economiche e industriali diverse nei confronti dei problemi ecologici. L'uno e l'altro in nome del progresso e dello sviluppo materiale dei popoli hanno puntato tutte le loro speranze di successo sullo sfruttamento sempre più affinato delle risorse naturali del pianeta e sull'occupazione concorrenziale di tutti i suoi spazi, anche i più desolati e ostili. Imitati in ciò da ogni singolo appartenente al loro contesto economico e sociale, teso a picchettare e a edificare quante più proprietà riuscisse ad aggiudicarsi. La crescita irrefrenabile della popolazione, in questi due ultimi secoli, insieme all'affermarsi nell'ultimo cinquantennio dell'economia finanziaria, che ha consentito a pochi individui e gruppi, anche malavitosi, di accumulare capitali monetari abnormi, alla ricerca di impiego speculativo, ha fatto il resto. Più crescono le bocche da sfamare, più cresce il prezzo del cibo; più cresce il bisogno di energia, più crescono i guadagni dei produttori di petrolio e di gas; più cresce il bisogno di suolo agricolo ed edificabile, più cresce l'appetito delle multinazionali di questi settori e il suolo diventa da spazio vitale per anime vegetative, sensitive e razionali, oggetto di sfruttamento economico. All'Italia e ad altri luoghi di straordinario valore paesaggistico e artistico è toccato il ruolo delle zone residenziali, che in un batter d'occhio, senza equilibrati piani nazionali e comunali, diventano bersaglio della speculazione edilizia legale e abusiva. Da noi come alle Maldive. Le regioni più fragili dal punto di vista agricolo e più forti da quello turistico, come la Liguria, vedono l'abbandono delle pregiate, ma scomodissime, colture a terrazzamento e l'affollarsi di attività e di costruzioni turistiche in ogni buco della costa, compresi alveo di fiumi e torrenti, per larga parte dell'anno asciutti. E saturati questi spazi, l'assalto cementizio avvia la saturazione di ogni pianoro o spuntone panoramico del primo e del secondo entroterra, capace, in due-tre chilometri piani e lineari, di passare da zero a mille e più metri. Ora di fronte a tre o quattro alluvioni in un anno di questa regione, possiamo meravigliarci e stracciarci le vesti? Possono i politici passarsi il cerino del vero responsabile dal governo alla regione, dalla regione al comune, dal comune al netturbino di quartiere? Possono le classi dirigenti odierne, burocrati, giudici, costruttori, architetti e geometri, dare la colpa a quelli che li hanno preceduti, se nulla è davvero cambiato col loro subentro? Possiamo noi cittadini di ogni ceto sociale affermare che quanto è stato fatto, negli anni della nostra vita, a danno della difesa del suolo e della nostra tutela dai cataclismi naturali, è accaduto “a nostra insaputa”, senza che anche noi aggiungessimo un nostro personale, abusivo mattone a quelli altrui? □
Le opinioni sul Sinodo si moltiplicano, quasi si sprecano. Alcuni commentatori si concentrano sui temi dibattuti: famiglia e famiglie, matrimonio e matrimoni, ricchezza e miseria della sessualità, sue varie forme e relativi valori e disvalori, comunione sì, comunione no. Altri esaltano le differenti posizioni dei partecipanti, vescovi e cardinali innanzitutto; posizioni spesso inconciliabili, quindi destinate a spaccare la Chiesa o a consigliarle un'estrema prudenza. Non manca l’ola delle opposte curve, che tifano per la vittoria dei riformisti o dei conservatori. I più critici, ma anche chi non vorrebbe schierarsi, concentrano la loro attenzione sulla maggiore o minore libertà del dibattito. Puro gioco di specchi, una sorta di gibigiana, manovrata dalle solite lobby curiali per abbagliare occhi troppo curiosi? Vera e coraggiosa apertura al dialogo e alla valorizzazione dei carismi e del carattere comunitario della Chiesa? O sua resa suicida al pensiero unico del relativismo borghese e materialista? Qualcuno ha tentato di fare del confronto sincero e vivace, voluto da Bergoglio, sulla ricerca di una pastorale evangelica della misericordia e del perdono, una sfida all'ultimo dogma. E ha messo in scena un torneo sulla verità e sulla dottrina tra mitrie dorate e purpurei zucchetti, tra scudieri di abati donchisciotteschi e inossidabili cavalieri di Madonne d'ogni colore, tra teologici fioretti di moschettieri del Vescovo di Roma e arcigne guardie del Papa emerito. A fronte della prima relazione sugli orientamenti dei lavori sinodali, più innovativa sul tema del riconoscimento dei valori umani e spirituali dell'amore eterosessuale e omosessuale, che su quello della regolazione ecclesiastica dell'amore sacramentalizzato, gli schieramenti tra pastoralisti e dottrinalisti si sono ulteriormente polarizzati. Ciò che ha indotto gli estensori della ridiscussa sintesi, da sottoporre a coloro che parteciperanno tra un anno all'ultimo atto di questo Sinodo, a ridurre a poche e scontate ripetizioni dei principi del Vaticano II sul carattere comunitario della chiesa, “popolo di Dio”, e sulla doverosa apertura alla realtà sociale e culturale del mondo moderno. È così che il fronte, già spaccato, degli opinionisti ha trovato un nuovo terreno di scontro. Da una parte chi recrimina che la chiesa abbia commesso l'imprudenza di recuperare all'uso il pentolone delle riforme, già messo in soffitta da Giovanni Paolo, perché troppo fragile per impedire emorragie di dottrina. Dall'altra chi si duole che essa intenda riciclarlo senza togliergli il coperchio, al fine di evitare che possa riempirsi delle indilazionabili novità che d'ogni parte, dopo il Concio, ribollono. Ma gli schieramenti non si coagulano ormai solo intorno a tesi estreme: la pentola in cui sono state rimestate le riforme conciliari è, oggi come ieri, un colabrodo. Essa è stata derottamata solo per finire appesa al chiodo come un oggetto di modernariato rimesso a nuovo. Per i più, come sempre, la pentola è o mezza vuota o mezza piena, o già traboccante. Dipende dal tenore delle attese, o anche dal desiderio di rimettersi tranquilli senza rischi di delusioni o timori di novità. In quanto a noi, per trovare un posticino in questa abusata metafora, ci mettiamo tra quelli che ritengono che la pentola abbia appena cominciato a riempirsi e che è possibile sperare che, per quanto lento e graduale, il rinnovamento pastorale e dottrinale della Chiesa possa realizzarsi. Il Dio biblico non è infatti un Dio raggiungibile attraverso una qualsivoglia sistemazione, dottrinariamente fissa, della sua verità. Il Dio dei cristiani non è il Dio dei filosofi e dei teologi, dei professionisti del sapere. È il Dio di Abramo, di Mosè, di Davide, dei profeti e di Gesù, di quanti hanno accolto nella loro vita storica la sua storica rivelazione, giunta a noi come parola di Dio, racchiusa nella parola e nella storia di uomini. Quindi sempre storicamente incarnata, eguale sempre a sé stessa, non nell'immutabilità della lettera, ma nella fedeltà dello Spirito, che soffia dove e quando vuole, e del Figlio, che non segue i suoi discepoli, imbalsamato in una cassa sigillata dai dogmi, ma li precede vivo sulle strade della Galilea, aperte al cammino verso le genti. In questo concordiamo da sempre con quanto papa Francesco dice alla sua e nostra chiesa: va riscoperto il vangelo nella sua dimensione di invito alla sequela di Gesù, povero tra i poveri, che esorta a riconoscere la sua presenza e la presenza di Dio tra gli ultimi e a servirli nella loro fame e sete di pane e di giustizia, di lavoro e di rispetto, di amore e di pace. Egualmente apprezziamo la sua scelta di non finalizzare la sua autorità a cambiamenti dottrinali o pastorali, ma a obbligare tutte le componenti della chiesa a misurarsi concretamente e coraggiosamente coi problemi esistenziali, sociali, culturali ed economici dei nostri contemporanei, riconoscendo che sono anche i nostri e che quindi non abbiamo il potere di giudicare, ma il dovere di aiutare e di lasciarci aiutare per risolverli. □ Pagina: Indietro 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 Prossima |
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