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Enrico Peyretti

Il diritto di non uccidere

IL MARGINE


Conversazioni di

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ESODO Sevitium


Aldo Bodrato

L'avventura della Parola

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Il bene della pace. La via della nonviolenza

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Elogio della gratitudine

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Avvertenza

 

Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.

Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale.



 415

Sono ancora davanti ai nostri occhi le immagini delle decapitazioni operate dagli jihadisti dell'Isis, immesse intenzionalmente nella rete di visibilità mondiale: l'aspetto mediatico è fondamentale, non un corollario aggiuntivo. Le decapitazioni non sono il ritorno del medioevo, come ha sostenuto qualcuno. L'esposizione pubblica del corpo, capo, teschio del nemico ucciso, come vanto patriottico dell'eroe guerriero, è stata una caratteristica dell'umanità in tutti i continenti nel corso dei secoli, dai tempi dell'Iliade agli Indiani d'America. È avvenuto anche con le esecuzioni capitali dei «reprobi» (tali o presunti) nelle grandi piazze, con la gente che guardava quasi eccitata o ammaliata. In Italia l'ultima esposizione pubblica delle foto dei nemici vinti e uccisi nelle guerre coloniali, ci pare sia avvenuta sotto il fascismo; ma ricordiamo anche l'esposizione della salma di Mussolini effettuata dagli antifascisti.

Anche lo Stato della Chiesa, in primis il beato Pio IX, si è distinto quale mandante di decapitazioni pubbliche, almeno sino a quella del 24 novembre 1868, il cui resoconto fatto da un sacerdote suona così: «Tutto intorno, con un popolo sterminato, regnava un religioso silenzio, per guisa che, quando il paziente [Gaetano Tognetti] a voce alta e distinta invocava i nomi santissimi di Gesù e Maria, sariasi potuto ancor da lungi noverare ogni sillaba: e parimenti allorché il sacerdote proferì l'estrema formula di assoluzione. All'Amen il Tognetti appena poté soggiungere: “Gesù...”, che gli cadde recisa la testa e l'anima si trovò nel seno di Dio» (cfr. Dario Oitana, Il papa che uccideva i santi, il foglio n. 266, gennaio 2000).

I decapitati dell'Isis che pronunciano i loro proclami contro l'Occidente, in particolare Stati Uniti e l'Inghilterra, avranno accettato di dire quelle cose non si sa con quali minacce o promesse; le decapitazioni sono atti di propaganda nello stile di chi li deve ascoltare: un gruppo combattente che ha per collante l'islam, insieme all'odio antioccidentale utilizza le modalità dello show e del reality, ben note al pubblico televisivo occidentale, per far comprendere a quest'ultimo le proprie intenzioni o almeno per terrorizzarlo. Ciò che è più importante è la cornice scenica e spettacolare, la cura della ripresa: l'atto in sé non sarebbe più sufficientemente eclatante per un'opinione pubblica di spettatori fedeli di serie tv dedicate a criminal cases. La morte è messa in scena nel modo più gradito agli occidentali nemici: gli islamici si piegano alle regole dello show businnes, nel momento in cui sono convinti di piegare queste regole alle loro esigenze.

***

Tognetti era stato con Monti autore dell’attentato nel 1867 alla caserma Serristori abitata dagli zuavi pontifici, provocando 27 morti, alla vigilia dell'insurrezione di Roma. Lo scorso 20 settembre, come negli anni precedenti, c'è stato un silenzio quasi totale dei mass-media nel ricordare l'anniversario di Porta Pia, ma non per il raggiungimento di una laicità condivisa che decreta il superamento di un problema ormai obsoleto, bensì forse per l'imbarazzo di toccare una questione spinosa che permea ancor oggi i rapporti fra stato e chiesa, soprattutto quelli fra legislazione civile e dogmi ecclesiastici sui temi etici. Abbiamo faticosamente acquisito in Occidente una democrazia che – nonostante le cosiddette primavere arabe − fatica ad affermarsi nel mondo musulmano, che ha seguito uno sviluppo socio-culturale diverso dal nostro. L'Europa è pervenuta a una certa separazione fra religione e politica nella laicità dello Stato, ancora sconosciuta nel mondo islamico; ma in Italia tale traguardo è tutt'altro che raggiunto, a causa della presenza del papato e dello stato-città del Vaticano.

 414

Come per ogni guerra, visibile o nascosta, questa seconda di Gaza è dolore e vergogna, per tutti. A due mesi dalla preghiera per la pace di Francesco, Abu Mazen e Peres nei giardini vaticani, dunque, dobbiamo disperare? dobbiamo pensare a una totale impotenza della pace? Noi vogliamo credere e sperare che il cammino della storia umana verso la pace-giustizia sia possibile e in corso, anche se incontra abissi di violenza dominatrice e di dolore ribelle, come in questa nuova dannata catena di vendetta-più-vendetta tra Israele e Hamas. E anche pare possibile riconoscere tale cammino nei fatti storici e nelle coscienze e aspirazioni delle culture e degli animi. Infatti, la guerra (violenza diretta) e il dominio oppressivo statico (violenza strutturale e culturale) non sono più sentiti come una fatalità meteorologica, necessaria, ma come responsabilità umana. Nel centenario del 1914 conosciamo un secolo di guerre e anche un secolo di crescita della cultura e della pratica di pace giusta e attiva, di lotte per la dignità con forza nonviolenta. Chi ha occhi per vedere e per leggere veda e legga. Ciò non assicura del tutto, ma emancipa dalla rassegnazione sottomessa alla regola della violenza.

La preghiera non è fallita, perché non chiede una pace miracolosa e improvvisa, ma invoca lo Spirito (Luca 11,13) che anima le coscienze nel lungo cammino della nascita umana. Siamo in questo cammino lungo, accidentato. La preghiera, le energie profonde e alte, il pensiero serio, la riflessione delle coscienze, circolano nel silenzio vivo del mondo, più profonde dei fragori della guerra.

Che abbiamo una fede o un'altra, o nessuna fede religiosa definita, ogni fedele all'umanità ha fede nella nostra vita, come la cosa più comune e preziosa, inviolabile, che può, ben guidata, svilupparsi in ogni tipo di bene. Ogni politica che usa lo strumento della morte è antiumana. È la paura che ci mostra il contendente come nemico. Ma l'altro ha la nostra stessa paura, e soffre lo stesso dolore e rabbia che incendiano e nutrono la vendetta. La paura e la vendetta sono una trappola che cattura e schiaccia il vincitore come il vinto, il forte come il debole.

Giustizia e utilità ci propongono, anche nel conflitto Israele-Palestina, di non guardare solo le ultime vicende («Ha cominciato lui!...», come bambini litigiosi), e neppure pretendere di risalire al primo torto di una catena lunga come la storia.

I giusti di ogni parte comincino ora, per primi, a comprendere il dolore dell'altro, così entrando nell'umanità di tutti; comincino ora a superare la colpa altrui con la riconciliazione creativa; comincino con l'ammettere la propria parte di responsabilità (che non manca mai); comincino così a dare al "nemico" la possibilità di vedere il proprio errore, e di proporre il proprio diritto senza violenza; vedano, più ancora della violenza fragorosa e cruenta, quella sorda e continua, strutturale, e quella insediata nelle menti, culturale.

La pace è possibile, se non pretendiamo tutto ciò che vorremmo nostro; se scegliamo di essere quella parte di noi che è comune a tutti gli umani, e dunque è la più vera nostra identità; se abbiamo l'intelligenza per capire che vivere è inseparabile dal lasciar vivere, e che la pace è un bene comune a tutti, oppure non è nostra, perché nessuna vittoria ottiene la pace. C'è più vantaggio pratico e materiale a cercare la pace che la vittoria. E se non c'è sempre certezza di arrivare a una pace positiva e giusta (non solo tregua), è certo che la guerra ce ne allontana, e porta sempre infelicità, e avvelena il futuro.

 413

L’abbraccio, un po’ goffo e impacciato, tra un francese e un tedesco su una delle spiagge dove avvenne l’immane massacro dello sbarco in Normandia simboleggia il cammino dell’Unione europea percorso in 70 anni. Il successo, anche se in parte ridimensionato, dei movimenti antieuropei il 25 maggio scorso segnano, invece, la lunga strada che ancora ci aspetta perché la scelta federale diventi irreversibile. Non a caso, appena saputi i risultati del voto, è ripresa con lena l’attività di demolizione. Si segnala per zelo il premier inglese Cameron che, senza tema di ricorrere ai ricatti e disprezzando il voto popolare, ha posto il veto all’elezione alla presidenza di J. P. Junker. Costui è esponente moderato di quella corrente federalista che, da Altiero Spinelli a Alcide De Gasperi e a Jacques Delors, sostiene che solo con poteri propri nei settori più importanti e delicati (in primis politica estera e difesa) l’integrazione potrebbe consolidarsi e progredire. Prevale invece attualmente l’idea di un’Unione che, al massimo, ricorda l’«Europe des Patries» cara a De Gaulle, insomma un consesso governativo di Stati sovrani, che quel poco che decidono lo fanno sempre all’unanimità.

Passa in questi giorni un intelligente spot televisivo che cerca di spiegare il reale significato della abusata frase «Ce lo chiede l’Europa». Ma l’attuale Europa che cos’è se non l’incontro dei governi nazionali gelosi delle proprie prerogative e dei propri interessi? D’altro canto Romano Prodi segnala che le platee di giovani, alle quali spesso si rivolge, considerano pienamente acquisita la pace permanente tra i membri dell’Unione, al punto da non mostrare più alcun interesse al problema. Altri, di opposta opinione, ci ricordano che la storia tende a ripetersi e che la guerra c’è già in Europa, ai margini dell’Unione, in Ucraina, e c’è stata una ventina d’anni fa con la dissoluzione della Jugoslavia. Ma soprattutto è preoccupante che riprendano seguito le idee di sacralità dei confini, dell’identità delle piccole patrie, della difesa scomposta dall’estraneo e dal diverso, del rinchiudersi nelle proprie certezze tradizionali. Tutti ingredienti che troviamo nei partiti antieuropei e che, declinati nelle loro versioni estreme, danno luogo ai movimenti neonazisti in Grecia e in Ungheria con organizzazioni paramilitari, quasi milizie di partito. In questo quadro variegato preoccupano anche successi del Fn della Le Pen in Francia e dell’Ukip di Farage in Gran Bretagna, e stupisce la disinvoltura del M5S che si affida alla rete, cioè a qualche decina di migliaia di contatti (ben che vada), per scegliere gli alleati al Parlamento europeo: se i Verdi o i nazionalisti e isolazionisti inglesi. Merita segnalare che Farage, intervistato da Radio 1, ha sprezzantemente definito i Verdi e lo stesso Renzi come fanatici dell’Europa.

In Italia i risultati elettorali sono andati controtendenza. Indubbio e inaspettato il successo del Pd (che non avuto apporti di voti da destra, ma ha prosciugato il centro, si veda il pessimo risultato di Scelta Europea). Del pari, inatteso lo stallo del M5S. Buona l’affermazione della sinistra di Tsipras, in cui però sono subito riemersi vecchissimi problemi di metodo. Tra gli altri il caso di Barbara Spinelli, che prima si era impegnata a dimettersi se eletta (cosa discutibile, poiché le elezioni servono a ricevere un mandato da chi vota) e poi ci ha ripensato. Feroci liti tra subentranti, più o meno lottizzati, tra Rifondazione, Comunisti italiani, ecc. interessano poco. Pare invece cosa ottima che la deputata Spinelli possa essere eletta alla vicepresidenza del Parlamento europeo, ipotesi accreditata a Strasburgo e Bruxelles. Cosa ottima e non solo per il cognome che porta. È molto difficile tuttavia ragionare sulle conseguenze interne al mondo politico italiano del voto europeo e forse è bene che sia così. Certamente il governo Renzi ha avuto un’apertura di credito in più (che deve utilizzare presto e bene). Se il successo del Pd si ripetesse in elezioni interne forse saremmo in presenza di uno schieramento progressista di tipo socialdemocratico, vanamente inseguito in tutto il dopoguerra. Ma allora si imporrebbe il problema dell’avversario: una destra finalmente repubblicana, non autoritaria e sdoganata dai partiti personali. Esercizi di fantapolitica, per ora.

Restando in Europa, colpisce l’intuizione di Giuseppe Sangiorgi: la costruzione europea era per De Gasperi, uomo di frontiera e giovane deputato trentino a Vienna, una scelta emotiva ed etica prima che politica (cfr. De Gasperi, uno studio: la politica, la fede, gli affetti familiari, Rubettino 2014). Come dire un mito. Analogo atteggiamento si evidenzia nella recente riedizione del saggio di Piero Gobetti subito dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti (Storia e Letteratura 2014): l’antifascismo come scelta anzitutto morale, il contrasto politico non bastando a resistere alle seduzioni che il fascismo esercitava sulle masse. I tempi oggi sono molto diversi, ma intatto purtroppo è il fascino dei movimenti autoritari. All’Europa, scelta strategica, ma anche emotiva e morale, occorre davvero un supplemento di anima.

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