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editoriali
Ha destato scalpore che nella Via Crucis al Colosseo abbiano portato la croce Irina (ucraina) e Albina (una russa, ovviamente contraria alla guerra), amiche e colleghe: la prima infermiera, la seconda specializzanda nel medesimo reparto, non proprio allegro, di cure palliative nel campus bio-medico di Roma. Nei confronti della scelta hanno protestato russi e ucraini, ambasciatori, diplomatici ed ecclesiastici, ma il Vaticano, nonostante le numerose contestazioni, ha tirato diritto nella sua decisione per l'evento di portata mondiale molto sentito. Ricordiamo che la processione del Cristo morto per le vie dei paesi la sera del Venerdì Santo è l'unica “imposta” dal popolo ai preti, mentre le altre sono più una decisione del clero che della gente. Fra i contestatori ha brillato in particolare la chiesa greco-cattolica (gli “uniati” appunto uniti a Roma, nella babele delle chiese cristiane in Ucraina), che dimostra di non aver capito molto del Venerdì santo. Scandalosa era già stata un mese prima la presa di posizione del patriarca russo-ortodosso di Mosca Kirill, accecato da un religioso nazionalismo guerriero che distorce il vangelo portando allo sfacelo il cristianesimo. Dal 1991 le stazioni non sono più quelle tradizionali, ma sono state ridisegnate per una miglior aderenza ai vangeli; ad es. non ci sono più le tre classiche cadute di Cristo e nemmeno la Veronica, perché tutte assenti nei racconti evangelici. Tuttavia la critica va ai testi monocordi della Via Crucis di quest'anno al Colosseo. In tutte le stazioni hanno trattato il tema della famiglia, completamente estraneo non solo alla Passione ma a tutto il vangelo ed a Gesù medesimo: le separazioni «perché così va il mondo» già nella 1ª stazione, la sterilità nella 3ª (condanna del Sinedrio), famiglie numerose e difficoltà coi figli adolescenti (4ª sul rinnegamento di Pietro), figli disabili (5ª sul giudizio-consegna di Pilato), l'adozione (6ª sulla flagellazione; per trovare un minimo di collegamento l'adozione, ripresa nella 9ª sulle donne di Gerusalemme, è stata definita una “croce”), crisi di matrimonio della figlia di due pensionati nonni (8ª sul Cireneo), malattia invalidante della moglie (7ª) e quella oncologica di un figlio (12ª) e così via. Un'imbarazzante discrasia fra le stazioni-momenti della passione e i commenti completamente estranei. Ma così si sono ribadite le posizioni più conservatrici in ambito matrimoniale, e si è evitato accuratamente qualsiasi richiamo di tipo etico-sociale-politico all'attuale situazione europea e internazionale. Le uniche, solo toccate di striscio, sono state la difficoltà di arrivare a fine mese, e il licenziamento del genero. Il tutto nella tipica ecclesialità sacrale (11ª stazione sulla famiglia con un figlio consacrato), intra-familiare ed etero-sessuale indissolubile, e per di più in un'ottica “geriatrica”, ossia dal punto di vista dei genitori, padri e nonni, non dei figli giovani. Invece la presenza delle due donne alla Via crucis (ossia, in linea col familiare Leit-motiv della cerimonia, una famiglia ucraina e una russa, poi nell'ultima stazione una di migranti) è stata significativa per la pace evangelica: hanno portato la croce dalla XIII (la morte di Gesù nella nuova suddivisione, mentre nella vecchia era la deposizione) alla XIV (deposizione attuale): con la croce nelle loro mani, si è rinunciato al commento sulla morte per un minuto di silenzio e preghiera genericamente per la pace nel mondo, tagliando all'ultimo momento il loro testo originario decisamente più esplicito sulle distruzioni e le bombe. Nella prima edizione del quarto vangelo [100-110 d. C.; vedi articolo di Mauro Pedrazzoli in questo stesso numero Ma chi c'era sotto la croce?, senza la presenza della madre di Cristo e il conseguente doppio affidamento col discepolo], che saltava dall'inizio dell'attuale 19,26 al 28 inoltrato sino all'«Ho sete» e oltre, si lascia intendere in modo implicito che siano appunto le donne (v. 29; diversamente da Luca in cui sono i soldati a farlo, oppure genericamente «uno di loro» negli altri due sinottici) ad alleviare l'agonia di Cristo con una bevanda forte. Anche Irina e Albina coi medicinali, prevalentemente liquidi, non solo curano medicalmente (to cure) ma si “prendono cura” (to care: bella l'assonanza inglese) dei loro pazienti oncologici. L'autore della seconda edizione del vangelo di Giovanni (circa 30-40 anni dopo) ha inserito la mamma di Gesù col reciproco affidamento, quale allegoria della madre-chiesa coi suoi figli “storicizzata” sotto il costato di Cristo, da cui sta per uscire sangue ed acqua: l'acqua allude al battesimo, ma il sangue per noi moderni non è più quello sacrificale, bensì rinvia all'identificazione del crocefisso con tutti i crocefissi della storia, tali soprattutto per le guerre, le violenze e le ingiustizie. Sono la carne di Cristo nel mondo. È indovinato che le due donne l'abbiano fatto nel passaggio dalla XIII alla XIV stazione, quella della deposizione che ha ispirato le numerose “Pietà” nella storia dell'arte cristiana, in cui le varie Marie sorreggono il corpo di Gesù. Allo stesso modo Irina e Albina, nel lenire le sofferenze dei loro pazienti “terminali” martoriati, li sorreggono e li prendono in braccio non solo metaforicamente ma spesso anche fisicamente nel rigirarli nel letto, e nel trasferirli sulla barella per portarli ad es. in radiologia per la TAC e la RSM. Esse portano realmente la croce tutti i giorni; ed una vera e cruda Via Crucis l'ha vissuta il cardinale (elemosiniere che ha donato due auto-ambulanze agli ucraini) Konrad Krajewski per le vie di Borodjanka: i cadaveri abbandonati sono diventati le Stazioni della “Via dolorosa” (altro che le tensioni coi figli adolescenti!). □
Tutte le guerre le abbiamo sofferte, a cominciare da quella che spaventava noi bambini, anche se di lì a poco giocavamo senza pensarci più. Potevamo poi giocare, perché in noi la vita cresceva, e perché, nel nostro caso, la guerra non aveva ucciso persone vicine, non aveva colpito casa nostra e le case vicine. Ma abbiamo visto i morti uccisi, visti vivi poco prima. Abbiamo sentito piangere le vedove degli uomini usati e venduti alla morte dai governi. Abbiamo visto le armi ‒ cioè la morte ‒ nelle mani e sulle braccia degli uomini, e anche di qualche donna, come si abbraccia un amore: ma era odio, era morte da infliggere ad altri, perciò (quelli non lo sapevano) anche a se stessi. Erano i nazisti, i fascisti, ed erano i partigiani: obiettivi totalmente opposti, ingiusti gli uni, giusti gli altri, ma uguale dipendenza nel contendersi la morte: più morte a te, meno a me. Tutti prigionieri. Oggi noi sappiamo più di tutti loro. Abbiamo sapienza dolorosa. Quel che ti accade, che vedi e vivi, lo capisci sempre dopo, sempre di più. Quella, e tutte le altre guerre, le abbiamo sofferte, ma questa, ora, più vicina nel tempo e nello spazio (ci sentiamo in colpa verso le vittime meno vicine), ci offende di più. Vedo che accade a molti. Mi offende di più, questa guerra, anche grazie alla fragilità della vecchiaia, che è sensibilità, pelle nuda, equilibrio instabile, interiorizzazione di tutto il bene e di tutto il male. Sapienza dolorosa. E bisogna vivere tutta l'offesa e tutto il dolore, non diminuirli, non sottrarsi, non distrarsi. Come Rachele, che non vuole essere consolata, quel giorno di Erode. È l'unico modo, per noi, di essere vicini alle vittime, di cominciare a riscattarle. Solo l'estinzione totale e universale della guerra riscatta le vittime, e noi partecipi. Prima di ciò, non vogliamo consolazione. Amici, persone vicine, cercano di distrarci: c'è anche altro, c'è da vivere. Sicuro. Ma non vogliamo sottrarci alla partecipazione. E la nostra partecipazione, dopo che la guerra è cresciuta fino a diventare totale, è nulla di meno della estinzione totale e universale della guerra. Non c'è bisogno di ricordarci che la guerra nasce nei cuori e nelle menti: chi non lo sa? chi ne è tutto puro? Ma le menti e i cuori hanno modi loro per combattere nel loro interno, per purificarsi dalla morte. Occorre che le mani umane, le politiche, le tecniche, le economie, le mitologie delle fazioni umane, siano private dello strumento armato, e che il pensiero di odio, gli opposti pensieri di odio, si trovino disarmati, debbano solo confessare l'uno all'altro la vergogna di sezionare la vita. Vincere l'odio, rinnegarlo, ma per prima cosa disarmarlo. Il disarmo universale non è un punto di arrivo, ma il punto di partenza della politica intelligente, onesta, coraggiosa. Forse perfino il disarmo unilaterale, per primi, osando il vero coraggio. Solo il disarmo è razionale, vitale, sicuro. La pace armata è già guerra (anche se la guerra guerreggiata è molto peggio). È umiliante, per chi da sempre pensa le vie concrete della pace, vedere l'ignoranza colossale della politica corrente, che non sa nulla della vita, e sa tutto di come prendere un potere mortale sulla vita. La grande storia è il fallimento della storia vera, umana. E ti chiedono, e lo scrivono sui giornaloni e sugli schermi che invadono le case, come fossero il piatto della cena sulla tavola: «ma allora come fareste? cos'è la difesa nonviolenta?». Abbiamo biblioteche di storia, abbiamo memorie di esperienze vissute da persone semplicemente umane, che hanno difeso la vita ripudiando le armi: le armi che la vita la distruggono e non la difendono. Ma nessuno dei sapientoni della politica piatta, quella del potere, ha mai letto una pagina, ascoltato un maestro, imparata una storia, ascoltato un operatore, della forza della vita, cioè della nonviolenza. Sono rimasti analfabeti ottusi, credono che sia debolezza e resa, e credono che gli eserciti salvino. Vorrei non passare agli insulti verso l'ignoranza volontaria, ma devo affermare che è ignoranza volontaria. Non si impara quel che non si cerca. La politica corrente non cerca la pace. Al massimo la contratta: quanto ci guadagno? Vergogna e dolore di tanti, ma non tutti si vergognano. Come l'antica Rachele, noi non vogliamo consolazione. Il dolore è fecondo, come nel parto. L'umanità nascerà alla vita, che finora i potenti armati impediscono. Purché non arrivino prima loro a imporre la distruzione nucleare, che hanno preparato in enorme abbondanza. Tutti i potenti, senza differenze. Ma nel diluvio ci sarà un'arca, se la costruiamo. La pace, la vita, o è disarmata, di ogni tipo di armi, o non c'è. Enrico Peyretti
E così alla fine il gerarca russo ha deciso di invadere l’Ucraina. Il fatto ci lascia attoniti, stentiamo a credere che l’abbia fatto veramente, nel cuore dell’Europa. Putin ormai nella fase terminale del suo lungo potere, ha deciso di lasciare un segno rinverdendo i fasti dell’impero russo e dell’Urss, del cui apparato del resto ha fatto parte nella prima fase della sua carriera politica. Mentre scriviamo (3 marzo) non sappiamo come evolverà la situazione ma speriamo che l’incendio venga contenuto e questa sia l’ultima nefandezza del dittatore. E speriamo anche che siano gli stessi russi a liberarsene, sarebbe un bel passo avanti per quel paese martoriato. Ma tutta la faccenda è costellata di errori ed arroganza. Gli Stati Uniti hanno voluto stravincere la guerra fredda e sappiamo da casi precedenti quanto questo sia dannoso. Invece di favorire l’evoluzione verso l’Europa della Russia l’hanno circondata con la Nato. L’Europa, che presenta l’unico esperimento geopolitico adatto all’epoca che viviamo, non riesce a portarlo a termine, avanza troppo lentamente e viene sempre superata dai fatti. Per comodo non si assume le sue responsabilità sullo scacchiere globale delegando la propria difesa agli Stati Uniti. Rinuncia perciò a fare una politica indipendente e di mediazione. L’esempio fondamentale di molti paesi che si sono combattuti per secoli e ora si unificano viene perciò depotenziato. Anche la classe dirigente ucraina, dopo la rivoluzione, ha fatto una mossa azzardata, ha voluto costituire uno stato nazionale su un territorio in cui vivono da sempre due nazionalità: l’altra è la russa! Uno straccio rosso sventolato davanti agli occhi di Putin, che infatti lo ha usato come uno dei pretesti per l’invasione. Ed è il popolo ucraino che sta pagando il prezzo più alto. Ancora una volta scelte sbagliate dei politici provocano molto dolore e morte. L’unico insegnamento che si può trarre da questa tragedia è la miseria e la pericolosità della vecchia geopolitica basata sulla potenza, alla ricerca dell’egemonia. È ormai il tempo di modificare profondamente il modo di regolare i rapporti tra Stati, per adattarlo alla realtà del mondo cambiata profondamente nell’ultimo secolo. Le grandi potenze devono abbandonare la ricerca impossibile e pericolosa dell’egemonia mondiale per aprirsi finalmente al multilateralismo, al riconoscimento degli interessi legittimi degli altri, a una collaborazione per affrontare i gravissimi problemi globali che ci sovrastano tutti: degrado ambientale, pandemie, sovrappopolazione, enormi disuguaglianze, migrazioni, economia criminale ecc. Una politica di potenza in un mondo globalizzato, dotato di armi di distruzione di massa è criminale. Speriamo non sia necessaria una terza guerra mondiale per far capire all’umanità quello che ragionevolmente occorre fare. □ |
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