Mappa | 11 utenti on line |
|
editoriali
Sulla impetuosa politica del nuovo segretario del Pd abbiamo in redazione pareri diversi, e del resto profonde divisioni si vedono anche in quel partito. Occorre riflettere al di là della contingenza e degli aspetti tecnici. C'è da diffidare di chi non si pone in umiltà, senza spocchia, davanti a un compito difficile e pesante. Ma bisogna dare fiducia a chi ci prova. Resta però un brutto messaggio che Renzi non si dimetta da sindaco. L'ideologia del vincere non è un'idea politica. La democrazia non è un pallottoliere: è la fiducia che la razionalità umana media sappia scegliere il meglio possibile, e che gli stolti siano meno numerosi dei mediamente saggi. Ardua scommessa. Il popolo non è infallibile. La continua discussione critica è l'anima del principio di maggioranza. La buona politica non accarezza la pancia per avere consenso, ma dice la verità. Sulla legge elettorale da ricostruire, e su alcune riforme costituzionali e strutturali, Renzi ha parlato di «profonda sintonia» − nulla di meno! − con Berlusconi. Come si può avere sintonia, e persino «profonda» col rappresentante e promotore della corruzione civile e costituzionale? L'eccesso verbale è pur sempre rivelatore. L'antiberlusconismo è come l'antifascismo, è la necessaria condizione negativa preliminare alla democrazia. È evidente fino da prima del 1994 che il berlusconismo è antidemocratico perché corruttore: con falsità e adescamenti ha sempre approfittato della debolezza civile e politica del popolo italiano, disposto a consegnarsi al "capo" che incoraggia il «fatti gli affari tuoi», rifiutando costi e doveri della solidarietà. Il populismo è corruzione storica della democrazia, nel fascismo come nel berlusconismo. Certamente sulle regole si deve trattare con tutti, ma andare incontro alle esigenze del condannato per frode fiscale, responsabile del porcellum, è come chiamare un piromane a spegnere l’incendio da lui appiccato. Berlusconi condannato ed espulso torna dirigente rilegittimato nella politica nazionale da cui «giudici cattivi» volevano allontanarlo. E questa operazione lacera il PD che non ne aveva proprio bisogno. La via più giusta non è il patteggiare con l'autore del disastro, ma la fedeltà alla Costituzione, artt. 1. 3, 11, 35-47 e 48-54, da portare il 25 maggio in una Europa disorientata e malata dello stesso male. Già contro la "legge truffa" del 1953 (moderatissima rispetto alle attuali) Bobbio portava l'ovvio argomento del voto «uguale», di uguale peso per ogni elettore (art. 48). Anche in politica la qualità conta più della quantità. Va bene «vincere» (questo pare l'unico motto di Renzi), ma non va bene a scapito della qualità: la cultura e la storia, i valori depositati nella Costituzione quando l'Italia seppe risorgere dalle peggiori tragedie civili. Quando il parlamentarismo rappresentativo va in crisi compare il cesarismo. Davanti a Cesare meglio opporsi e perdere che vincere con lui. Il falso dogma che la politica si identifica col vincere, perciò la quantità si compra anche spendendo la qualità, gioca per Cesare e non per il popolo. Ma il popolo, per fare a meno di Cesare, deve essere capace di governarsi. La democrazia è parlamentare o non è democrazia. La crisi del parlamentarismo è la crisi del dialogo, del parlare e ascoltare con lealtà, nel cercare il bene comune. Cultura, arte, etica, filosofia del dialogo sono da insegnare a scuola come l'alfabeto. Ma questa cultura c'è: ad essa si deve ricorrere. Il «prendere o lasciare» non è dialogo, cioè non è politica democratica. La democrazia è una strada lunga, più lunga del decisionismo. Ma è la via della pace e della giustizia, se si emancipa da ogni violenza. Il cesarismo è la via del disonore storico, della miseria civile, dei pericoli peggiori, e anche della guerra civile. Ci si consegna a Cesare per paura della divisione, e nessuno più di lui divide con l'imporre. Enrico Peyretti
Alcune reazioni suscitate dall’accordo fra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale hanno un sapore abbastanza strano. Inorridite all’idea di parlare col «nemico» e «pregiudicato», esse arrivano da rappresentanti e sostenitori di un centrosinistra che, per circa un ventennio, ha più o meno scopertamente governato con Berlusconi, lo ha corteggiato, si è fatta prendere in giro da lui, però – ci si premurava di osservare − sempre a fin di bene. Con un’espressione poco felice, Renzi ha parlato di «profonda sintonia» con Berlusconi sulle riforme elettorali: tanto è bastato per suscitare gli strali della «sinistra del Pd», che ha improvvisamente riscoperto il proprio attaccamento alla vecchia, cara dirigenza. Dalemiani, bersaniani, vetero e neo-comunisti si scagliano ora contro Renzi, come un branco di vecchi lupi in disarmo, che tentano di far fuori il giovane intruso: come se il Pd non avesse mai fatto altro che combattere Berlusconi e adesso un alieno si fosse impossessato di questo battagliero partito, per stravolgerlo dall’interno. Ora, che ci piaccia o no Berlusconi, sia pure decaduto da senatore, è ancora il leader, ovvero capo assoluto, di quello che è attualmente il terzo partito in Parlamento, ma non solo: nessuno dotato di senso pratico può seriamente credere che il Ncd di Alfano abbia un consenso maggiore di quello ancora raccolto da Fi. Da anni si parla, e si straparla anche, di cambiare legge elettorale, di mettere mano alle «riforme strutturali di cui il Paese ha urgente bisogno»; da circa un anno, a palazzo Chigi, risiede un governo messo in piedi per fare queste urgenti riforme strutturali, rimaste per ora un oggetto misterioso. Anni trascorsi a chiacchierare e a discutere con alleati e avversari, mentre i duri e puri della nostra sinistra continuano a ripetersi in coro quanto sono belli e intelligenti loro, e quanto sono brutti e stupidi tutti gli altri – in particolare i berlusconiani. Ciò che sfugge a tanti, incalliti critici di Renzi – pronti a osteggiare il giovanotto in nome di una loro presunta superiorità morale o financo generazionale – è che, per avviare finalmente l’iter sulla legge elettorale e affrontare questa specie di totem che è diventato il porcellum, occorre discutere con tutte le forze politiche, dunque anche con Fi. Dunque anche, e soprattutto, con Berlusconi: tutti sanno perfettamente che i parlamentari forzisti non muovono neppure un dito senza il suo consenso e che qualunque chiusura si dimostri nei confronti di Berlusconi, provoca la loro più ferma ostilità. Renzi ha coerentemente offerto al primo partito di opposizione, il M5S, di discutere le proposte di riforme: i «grillini» gli hanno risposto che loro discutono soltanto la propria proposta, al che Renzi li ha lasciati discutere da soli, attività in cui i duri e puri eccellono. Si è poi rivolto alla terza forza in Parlamento, cioè Fi, affrontando subito Berlusconi: perché perdere tempo a trattare con Brunetta, se poi quest’ultimo deve recarsi da Berlusconi prima di proferire un qualsiasi parere? Certo, Berlusconi è fuori dal Parlamento: ma davvero qualcuno pensava che la decadenza implicasse la morte politica dell’imputato? Per esercitare il potere, in Italia, non occorre essere in Parlamento: anzi, spesso si governa meglio dalle segrete stanze, da dietro le quinte e persino dalla cella di un carcere. E la discussione sulla legge, con relativa approvazione o cassazione, si svolgerà in Parlamento, non nel salotto di Renzi o di Villa Certosa. Il fatto che sia stato Berlusconi a recarsi da Renzi, e non il contrario, ci segnala un ribaltamento di posizioni: non è più Berlusconi che manovra e, se la riforma andrà in porto, Renzi potrà assumersene il merito. Presentare in Parlamento una proposta di legge, senza l’appoggio di Fi, significherebbe perdere in partenza, perché la proposta sarebbe bocciata da M5S e Fi, cioè dalla maggioranza. Accordo sulla riforma elettorale non significa accordo di governo: peraltro, che tale accordo si sia dovuto (ancora!) cercare con un individuo come Berlusconi non è certo colpa di Renzi, ma di chi, in questi anni, ha sostenuto il personaggio in questione o lo ha appoggiato, pur trovandosi, almeno teoricamente, dall’altra parte. Seguire una propria linea e proporla come valida, come sta facendo Renzi, non significa necessariamente fare il padrone né nutrire velleità dittatoriali: significa essere determinati, sapere quello che si vuole e che chi ti sostiene si aspetta da te, a differenza di chi si è sempre soprattutto preoccupato di non sfasciarsi, di rimanere a galla, insomma di sopravvivere. È strano vedere tanti così pronti a scagliarsi su Renzi per il tentativo di dialogo con Berlusconi, adesso, e constatare come nessuno abbia trovato nulla da dire quando, con identica determinatezza, Renzi ha parlato di diritti civili, scatenando il panico di Alfano e dei moralisti di casa nostra. Forse perché siamo abituati a un Pd in cui al massimo si esala qualche debole dichiarazione di principio sui temi di sinistra, sempre attenti a non passare dalle parole ai fatti, esattamente come per le «riforme di cui il Paese ha urgente bisogno»: appena si intuisce che qualcuno vorrebbe, e soprattutto potrebbe, andare oltre la chiacchiera, si scatena il panico. Elisabetta Lurgo
La vittoria di Renzi alle primarie del Pd svoltesi a fine novembre ci preoccuperebbe di più se non ci fosse stata un’alta partecipazione al voto. Molti forse hanno votato Renzi anche se non condividevano tutte le sue idee, almeno quelle che si erano capite, per dare forza al Pd, dandogli una scossa. Nell’attuale situazione politica, puntare a vincere è una priorità politica, anche se non necessariamente etica, che non può andare disgiunta dal dovere di difendere la politica stessa dal culto della personalità, che è oggi la forma storica della tirannide. I due milioni e mezzo di votanti del Pd lo dicono con forza: per tutelare la democrazia occorrono forze politiche di rappresentanza. Il plebiscitarismo, come l'assemblearismo e il leaderismo, portano, in tempi brevissimi, a «ismi» più o meno totalitari. La scossa che Renzi dovrebbe dare al Pd non è quella della sua trasformazione in partito personale, ma della rinnovata presa di coscienza di essere un partito di rappresentanza, che concorre al governo di una comunità storica e culturale, chiamata a convivere con altre comunità. È ancora presto per dare giudizi su Renzi. Segnaliamo però il pericolo che gli elettori del Pd, come quelli di Forza Italia, del M5S, possano orientarsi alla ricerca dell'uomo della provvidenza, di un capo popolo autocrate e decisionista, più che di un leader politico, capace di dare voce a tutte le diverse componenti del suoi rappresentati. Berlusconi e Grillo, per quanto capaci di egolatriche virtù mediatiche, più di tanto non potrebbero reggere se i loro elettori non li considerassero i «migliori», al di là di ogni loro sperimentata incapacità di passare dalla propaganda al governo del paese più e meglio degli altri. Renzi ha messo sul tavolo della discussione con le altre forze politiche tre proposte di riforma del sistema elettorale, a suo dire realizzabile a breve: tutt'altra cosa dalle indiscrezioni giornalistiche che lo volevano a confronto con Berlusconi e Grillo, un non eletto e un non eleggibile, vale a dire con dei «capi bastone», proprietari di voti da utilizzare a proprio piacimento. Non crediamo che gli elettori del Pd lo abbiano votato per sostituire alla «grande alleanza degli opposti», il triumvirato dei «proconsoli». Staremo a vedere come la discussione proseguirà. Nel discorso che Renzi ha tenuto la sera della vittoria, non è stato indifferente l’elemento generazionale. Non a caso la frase che ha preso il boato maggiore da parte delle persone presenti è stato: «Questa non è la fine della sinistra, questa è la fine di un gruppo dirigente della sinistra». Un proverbio del tempo in cui si era vecchi a 50 anni e giovani fino ai 16 recitava: «Se i vecchi potessero e i giovani sapessero». Oggi, che i vecchi cominciano a essere considerati tali dopo i 70 e i giovani restano giovani fino ai 35, dovremmo forse aggiornarlo: «Ah se vecchi e giovani potessero e sapessero!». □ |
|
copyright © 2005 il foglio - ideazione e realizzazione delfino maria rosso - powered by fullxml |