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editoriali
La redazione, nelle settimane di agosto, segue questa regola: «Chi c'è c'è, chi non c'è non c'è». Chi è in ferie, chi in viaggio, chi a casa. Chi c'è, viene al solito giorno e ora, e si parla, senza necessità di fare il giornale, di quel che accade, che si vive, che si sente, che si pensa. Il 27 agosto, in presenza già discreta, abbiamo fatto questo, ma anche impostato il presente numero. Si ricomincia, per il 43° anno sociale del foglio. Naturalmente, ci guardiamo attorno: guerra civile in Egitto e peggio in Siria, con minacce di intervento “doveroso” di alcune maggiori potenze per “punire” Assad del bombardamento chimico. Abbiamo negli occhi le immagini strazianti dei bambini soffocati, morti senza ferite, e i video di quanti stanno soffocando, tra convulsioni e disperazione. È stato il regime o i ribelli? Si accusano a vicenda. Chiunque sia, chi uccide civili e bambini per accusare l'altro della propria crudeltà, è servo del male e nemico dell'umanità, della stessa propria umanità. La malvagità esiste nell'umano, senza bisogno di immaginare il diavolo. L'uomo è anche diavolo. Ma non è vero che è solo o soprattutto diavolo. Lo sarebbe se ci rassegnassimo. Non è vero, infatti non lo accettiamo. E chi deve “punire”? Non è compito del più forte solo perché militarmente può. Civiltà – abitare la stessa città - è darsi regole nella propria città-mondo, regole per decidere senza uccidere. Queste regole cominciano ad esserci, dalla seconda metà del Novecento, ma non sono ancora nelle coscienze dei potenti e nella concezione e pratica prevalente del potere politico. È il grande compito sia della cultura civile sia delle visioni e spiritualità che animano le morali. Il potere politico è soggetto alla legge che siamo riusciti a darci. Se la democrazia è un progresso umano – contare le teste invece di tagliarle – essa tuttavia è «il governo delle leggi e non degli uomini», come ricordava Norberto Bobbio. Non basta che una quantità di cittadini designi col voto i governanti, o peggio un super-governante. L'eletto è soggetto alla legge, il legislatore è soggetto alla Costituzione. La quale, nella sua prima parola, afferma la sovranità del popolo, tolta agli antichi sovrani, ma ne nega il carattere assoluto: neppure il popolo è un sovrano assoluto; non ci sono più sovrani assoluti. Il popolo democratico esercita la propria sovranità «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Questo problema compare drammaticamente in Italia. L'attuale capo del partito personale di destra, condannato con sentenza definitiva per evasione fiscale fraudolenta ed escluso dai pubblici uffici, non accetta il giudizio e si appella al consenso popolare (che non è neppure maggioranza). Questa è l'essenza del populismo demagogico, falsificazione della democrazia costituzionale, dello stato di diritto, quello stato che fa governare le leggi e non i più forti. La coscienza del nostro Paese, e la sua storia civile, è ora soggetta a questa prova di importanza assoluta. Se c'è un assoluto, infatti, nel vivere insieme, è che niente e nessuno è ab solutus, cioè sciolto da legami e doveri verso gli altri, perciò dalle leggi che obbligano e tutelano tutti. È assoluta la non-assolutezza, il non-svincolamento. La forza, il denaro, la demagogia vorrebbero sciogliere il potente dalla società di tutti e assicurargli il «privi-legio» (una legge privata, personale, ad personam). Nessuno ha più diritti degli altri, nessuno ha meno limiti degli altri. □
Analizzando le ultime elezioni amministrative, può stupire la resurrezione del Pd, dato per spacciato dopo le politiche che ha vinto perdendole e quel che n’è seguito, e il rapido sgonfiarsi del fenomeno M5S, ma a ben vedere le due votazioni seguono una stessa logica. Le amministrative hanno mostrato la forza reale del Pdl, partito che ha deluso profondamente i suoi elettori nei programmi e nei suoi uomini, nascosta nelle politiche dallo spregiudicato uso del voto di scambio da parte di Berlusconi attraverso la promessa di riduzione delle imposte, suo cavallo di battaglia. Constatato nei sondaggi che l’abolizione dell’Imu non faceva recuperare voti a sufficienza, si è spinto fino ad offrire la restituzione di quella versata, un pacchetto che prometteva a ogni possessore di casa (il 70% delle famiglie) il recupero di qualche centinaio di euro. Non male per i bilanci traballanti di molti elettori! I sindaci non possono fare promesse mirabolanti e i delusi del Pdl con quelli del M5S sono spariti nell’astensione. Lo zoccolo duro del Pd (eroico, date le condizioni del partito, come ha acutamente riconosciuto Epifani), pur perdendo molti voti, ha prevalso. Quel che è successo, però, non sposta di una virgola la situazione italiana e del governo Letta. La crisi attuale è il risultato delle scelte dei governi che si sono succeduti negli ultimi 40 anni, della crisi finanziaria mondiale e della redistribuzione del lavoro e della ricchezza in atto a livello globale. Letta ha formato un governo di necessità, forzato, per non andare subito a nuove e, probabilmente, inutili elezioni politiche. Cosa può fare Letta? L’impressione di questi primi due mesi è che voglia prendere tempo in attesa che si decanti la situazione politica interna (i tre raggruppamenti che si sono affrontati nelle politiche sono in piena evoluzione), e soprattutto delle decisioni dell’Europa. Perché le chiavi per arrestare la caduta dell’economia italiana sono in mani europee. L’Italia non può più fare la minima manovra economica, perché comporterebbe un aumento del suo già eccessivo debito pubblico, anzi è costretta a ridurre la spesa pubblica con effetto recessivo. Per le stesse ragioni non ha nessuna possibilità di ridurre questo debito (è già difficile non farlo aumentare) né il rapporto tra debito e Pil perché, stante la crisi, la produzione nazionale continua a ridursi. Restando nell’Unione Europea abbiamo una sola possibilità: che quest’ultima si faccia carico del nostro debito (o almeno di una sua parte). Ma questo purtroppo non dipende da noi italiani. □
«Il difensore della tradizione Benedetto XVI, con la sua rinuncia, ha dato il colpo più forte tra tutti al ridimensionamento del ruolo papale; il difensore della Costituzione Napolitano, accettando – contro quanto da lui solennemente dichiarato in precedenza – la propria rielezione, ha dato un ulteriore colpo alla modifica della Costituzione materiale. Il capo dello stato diviene sempre più il centro del potere esecutivo e accetta, a quasi 88 anni di età, una carica settennale. Tutto questo sul piano istituzionale; sul piano politico il salvataggio dei resti del Pd è pagato non solo con il ritorno al governo del Pdl ma con la riconquista della centralità politica da parte di Berlusconi». Piero Stefani mette qui a confronto l’elezione di papa Francesco, che ci fa sperare cose nuove, sia pure con cautela, e la rielezione di Napolitano con il conseguente incarico a Letta, che non ci entusiasma, poiché rischia di legittimare di fatto l'odio della giustizia (penale e sociale). Bisogna dirlo in questo momento di assoluzione politica del berlusconismo. Forse, a questo disgraziato punto, non si poteva fare altro, per evitare il peggio, ma il giudizio da dare, a luce di ragione e onestà, vale sempre più della realtà data e patita. Ma come è avvenuta l’autodistruzione del Pd, dopo tre primarie, cioè dopo che il partito ha cercato, per la prima volta, di essere concretamente democratico facendo parlare la “base” aperta ai cittadini? Dopo le elezioni di febbraio è andata in scena l’ennesima versione dello scontro, presente fin dalle origini nella sinistra italiana, tra chi pensa che il sistema in cui viviamo sia sbagliato e vada cambiato profondamente e chi invece lo accetta e vuole gestirlo migliorandolo (o chi usa ora questa, ora quella posizione per coprire le sue ambizioni). Lo scenario in cui si svolge il dramma è quello di una crisi piena di incognite e pericoli: è in atto infatti una caotica redistribuzione di ricchezza e lavoro su scala globale nella quale il mondo occidentale ha poche chance di mantenere le posizioni raggiunte dalla fine della Seconda guerra mondiale. Su questo sfondo la classe dirigente del Pd non è all’altezza della sfida che ha di fronte, sconvolta dalla mancata vittoria che credeva sicura, senza progetti né obiettivi strategici e perciò non in grado di fare una necessaria sintesi tra le diverse posizioni che la compongono, dilaniata da personalismi, interessi contrapposti, rancori irrisolti. Questo partito si è trovato a scegliere, perché così hanno deciso gli elettori italiani, tra due partiti non-partiti: il M5S composto da giovani inesperti, con un programma confuso, contraddittorio e per la maggior parte velleitario, che deve la sua fortuna alle capacità comunicative e mobilitanti di Grillo che ne è il capo non eletto, che non si è presentato alle elezioni e perciò non è in Parlamento; e il Pdl, il partito-azienda, organizzato intorno al potere finanziario e carismatico di Berlusconi, che ha come punto programmatico centrale quello di salvarsi dai suoi guai giudiziari. E alla fine ha scelto il Pdl. La politica del M5S e del Pdl, facendo leva sulle suddette divisioni e sulla necessità per il Pd di allearsi con uno di loro, ha cercato in tutti i modi di spaccarlo per incamerarne la parte maggiore. Lo scontro ha raggiunto il punto culminante nell’elezione del Presidente della Repubblica, proprio perché legata alla formazione del governo e quindi alle alleanze da stringere. Tutti i candidati via via proposti sono stati bocciati nel segreto dell’urna, e per uscire dall’impasse i parlamentari sono stati costretti a riconfermare il recalcitrante Napolitano. Ora il governo si trova a dover fare alcune cose per rimettere in piedi l’Italia: per esempio riformare la seconda parte della Costituzione, ridisegnando gli organi costituzionali, le autonomie locali, le loro funzioni, il loro costo; riorganizzare la pubblica amministrazione per aumentarne l’efficienza e ridurne i costi; rivedere il welfare e i servizi pubblici per adattarli alle possibilità del nostro bilancio (salvaguardando i diritti di chi ha veramente bisogno); contrattare, con il necessario mix di durezza e flessibilità, una profonda riforma delle istituzioni comunitarie, delle sue regole e delle sue politiche. Ci riuscirà? Ce lo auguriamo. Certo già tutti sappiamo che tale tentativo parte da almeno due progetti diversi. Berlusconi si prefigge un fine che è il contrario di quello di Letta. Impossibile ipotizzare quale si realizzerà e nulla ci dice che la fine del tutto non sia, per tutti e due e anche per noi, una sorpresa. Questo editoriale è tristemente adatto alla triste situazione. Ma alla tristezza si deve reagire. La volontà di giustizia − diciamo liberté, égalité, fraternité − da chi è esercitata oggi con decisione? Forse da noi cristiani, credenti nella fraternità più che nella competizione? Fare penitenza e ricominciare, sempre. Ognuno per la sua parte. Anche questo modesto foglio. □ |
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