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Avvertenza

 

Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.

Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale.



 398

Il Vaticano non ha ancora chiuso la pratica del divorzio da Berlusconi (che infatti lamenta: «Si ricordino cosa abbiamo fatto per la Chiesa negli anni del mio governo»), che non trova di meglio che avallare il nuovo (?) salvatore della Patria, Monti. Un articolo uscito il 27 dicembre su «L’Osservatore Romano», intitolato La salita in politica del senatore Monti, invita le forze politiche a interrogarsi sull’impatto che può avere la salita in politica del Professore, stigmatizza che «l’espressione “salire in politica”, usata da Monti, è stata accolta con ironia, in qualche caso con disprezzo», tuttavia fa notare la sintonia con il messaggio di Napolitano, «non a caso un’altra figura istituzionale che gode di ampia popolarità». A Napolitano si riconosce «il merito di aver individuato proprio nel senatore a vita l’uomo adatto a traghettare l’Italia fuori dai marosi della tempesta finanziaria». Il pezzo chiude con quella che è poi stata giornalisticamente definita la “benedizione”: la salita è «in sintesi l’espressione di un appello a recuperare il senso più alto e più nobile della politica che è pur sempre, anche etimologicamente, cura del bene comune».

Perché il Vaticano si schiera con Monti? Condividiamo quanto scrive Pietro Polito sulla newsletter del Sereno Regis: «un collateralismo così evidente, così smaccato, sfrontato, senza pudore alcuno, sa di antico, sa di Democrazia cristiana e obbedisce a una istintiva, atavica, paura, la paura che in Italia governi una coalizione che anche solo lontanamente possa essere considerata di sinistra. Come se questo Paese fosse rimasto fermo al 1948».

Ma i cristiani italiani sono adulti e sanno scegliere: loro rappresentanti di diverse tendenza politiche sono presenti in quasi tutti i partiti. Anche noi del foglio, come «Noi siamo Chiesa» e altri movimenti di base, abbiamo dichiarato il dissenso dall'intervento vaticano e invitato a scriverlo al proprio vescovo. La chiesa ha da trasmettere e testimoniare messaggi evangelici di impegno civile e altruista, di solidarietà anzitutto a favore degli ultimi, e non deve sostituirsi ai cittadini nella scelta politica, come se fosse una sola quella compatibile col vangelo (o più spesso con interessi ecclesiastici materiali). Con questo schieramento, la chiesa perderà ancora altro ascolto nelle indicazioni morali propriamente evangeliche.

Fortunatamente, nei giorni successivi al pezzo dell’«Osservatore» ci sono stati interventi della gerarchia che sembrano di segno contrario. Per es. monsignor Mario Toso, segretario del Pontificio consiglio «Giustizia e pace», ha dichiarato alla Radio Vaticana: «Le agende dei partiti non cancellino lo stato sociale». E ha aggiunto: «Il diritto al lavoro è fondamentale e la politica non faccia crescere le diseguaglianze». E ancora: «I partiti, se credono in un riformismo pieno e rispettoso delle persone, devono comprendere nei loro programmi e nelle loro agende, alcuni principi di fondo quali il diritto al lavoro, la tutela dello stato sociale e democratico contrastando la sua erosione, i tentativi di abbatterlo e la crescita delle diseguaglianze». Lo stesso papa, l’8 gennaio ha invitato a guardare «soprattutto» allo spread «del benessere sociale», perché non si può restare indifferenti di fronte «alle crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi e molti, irrimediabilmente poveri». Nell'evidenziare il nesso tra pace, giustizia e verità, la sua critica è netta: «Non va assolutizzato il profitto a scapito del lavoro». «Ci si è avventurati senza freni – ha osservato con preoccupazione − sulla strada dell’economia finanziaria, piuttosto che di quella reale». Vogliamo sperare che queste parole che sono giuste, umane, evangeliche non siano solo parole ma fatti.

 397

Meditando sulla politica italiana, tra le elezioni primarie e le politiche, ci chiediamo se il verbo che rimbomba di più, quasi un grido di gente che affoga e non vede scampo, è «cambiare!» (già meglio del rozzo «rottamare», che qualifica l'autore e gli ascoltatori). Entrambi i verbi rimbombano di vuoto. «Cambiare» – appello frequente in tante politiche, non solo da noi – non significa nulla: cambiare in cosa? Verso dove? Per trovare cosa? Cercando e volendo che cosa?

La miseria della politica è quando l'aspetto (che è solo uno dei suoi aspetti) di competizione tra idee e programmi, affidata alla decisione democratica, prevale su tutti gli altri, e la politica allora si riduce a gara, corsa, compresi tranelli, sgambetti, e vere e proprie truffe e menzogne, e diventa nichilismo urlato e forzuto. Il massimo (finora) di questa politica come inganno spregiudicato e pubblicità del falso, è stato il berlusconismo. Ora che il caimano perde i denti, ricordiamoci dell'avvertimento saggio che a bassa voce ci davamo: il peggiore berlusconismo è quello che è in noi.

Le primarie del Pd hanno dato un segno di volontà di partecipazione, buon segno contrario all'astensionismo maggioritario e mafiosamente attendista delle votazioni siciliane, che è un voto per chiunque vinca. I concorrenti nel Pd hanno chiesto di essere candidati a governare. Chi votava poteva vedere sfumature considerevoli tra l'uno e l'altro: per l'Italia non c'è altro che l'agenda-Monti? Si devono tagliare i servizi o le folli spese militari? Prima le grandi opere (e grandi profitti) o le tante piccole opere di manutenzione diffusa del territorio e sviluppo ecologico, che creano lavoro utile e pubblico risparmio? Ma ciò che rimane ancora sfocata è una riflessione culturale che produca saggezza politica, sia di sinistra, sia di centro: la giustizia, cuore della Costituzione (art. 3 e collegati) e di una civiltà decentemente umana, verrà dallo sviluppo quantitativo, caso mai ci si arrivasse, o dal primato degli ultimi? Salvaguardare la natura non è forse il primo prodotto per la vita? La società deve garantire chi è capace o chi non può? Deve dare spazio ai forti o ai deboli? È priorità il lavoro che giustamente va difeso, o la liberazione dei più poveri dalla sudditanza al bisogno, che impedisce lo sviluppo umano?

Queste sono le domande a cui ogni cittadino in coscienza, e la politica decentemente umana devono cercare, anche con fatica, di rispondere, in vista delle elezioni politiche, ma soprattutto per avere sufficiente dignità.

 

e. p.

 

 396

Già il premio a Obama aveva fatto discutere. Il premio Nobel all’Unione europea ha provocato specialmente nell’area nonviolenta aspre reazioni. Alex Zanotelli, per esempio, afferma: «A livello comunitario siamo prigionieri della Nato, combattiamo dall’Iraq all’Afghanistan alla Libia, e diamo all’Ue il Nobel? Abbiamo fatto le guerre contro i poveri di questo mondo. A livello globale abbiamo speso 1740 miliardi di dollari, perché nessun partito grida?». Altri hanno osservato che era meglio dare il premio a persone o singole organizzazioni che lavorano assiduamente per la costruzione della pace e magari hanno maggior bisogno del denaro del premio.

Ma il punto è che non si può far finta che il premio sia stato dato per qualcosa invece che per qualcos'altro. Perché il premio è soprattutto un riconoscimento al processo di riconciliazione che gli stati europei hanno messo in atto fra loro in questi decenni, e che è forse il più grande e duraturo processo di riconciliazione mai compiuto fra stati nazionali. Se pensiamo storicamente, non sembra poco che oggi in Europa ci paia scontato quello che a chi ha vissuto nella prima metà del Novecento, nell'Ottocento, nel Settecento e a scendere sarebbe parso straordinario: vale a dire 60 anni nei quali Francia, Germania, Italia, Spagna e Inghilterra non si sono scannati in guerre intestine.

Quegli stessi stati nazionali rischiano ora di mettere a repentaglio questa eccezionale realizzazione. Come annota Barbara Spinelli, che raccoglie l’eredità di un grande europeista come Altiero, il premio «è come se non suggellasse un progresso, ma indicasse come rischiamo di perderlo. Mostra quel che l’Europa ha voluto essere, e non è ancora o non è più. Gli scontri sull’euro, la Grecia trasformata in capro espiatorio, il peso abnorme di un solo Stato (Germania): non è l’unione cui si è aspirato per decenni, ma una costruzione che si decostruisce e arretra invece di completarsi» («La Repubblica» 13 ottobre). E conclude: «Rimasta a metà cammino, l’Europa non è ancora l’istituzione sovranazionale che preserva la democrazia e lo Stato sociale. Viene identificata con uno dei suoi mezzi – l’euro – come se la moneta e le misure fin qui congegnate fossero la sua finalità, il suo orizzonte di civiltà. La fissazione sui piani di salvataggio finanziario e il rifiuto di ogni via alternativa hanno fatto perdere di vista la democrazia, e la solidarietà, e l’idea di un’Europa che, unita, diventa potenza nel mondo».

Il fatto poi che l'Europa possa essere, e sia stata a volte, violenta all'esterno non è cosa di poco conto. Perché l'idea di pace è cresciuta in questi decenni, e proprio in ragione di questa evoluzione esige oggi qualcosa di più che la non-guerra: esige l'assenza di violenza non solo militare-politica, ma strutturale-economica-sociale, sia interna, sia nei rapporti con l'esterno. L'Europa è in regola col concetto attuale, maturo, di pace? È auspicabile che la stessa costruzione della pace che è avvenuta all'interno dell'Unione Europea avvenga anche al di fuori, a cominciare dai paesi del bacino del Mediterraneo.

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