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editoriali
E così, finalmente, con le amministrative una parte dell’elettorato mostra chiari segni di stanchezza verso questo centro-destra rozzo e primitivo e di risveglio dall’incantamento di Berlusconi e dalle sue affabulazioni. Certo le ultime pesanti accuse che lo vogliono organizzatore di feste con ampio uso di prostitute, anche minorenni, hanno avuto il loro peso, ma sicuramente il motivo centrale del pessimo risultato elettorale della coalizione al governo, sta nella crisi economica e nell’insoddisfazione del modo con cui viene affrontata. Lo rivelano anche i risultati dei referendum, eccezionali sia per il numero dei votanti, più di 27 milioni di elettori, sia per la percentuale dei «sì», oltre il 90%, che indicano con chiarezza che la grande maggioranza degli italiani su argomenti fondamentali come la gestione privata dei servizi pubblici, la politica energetica, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è contraria alla politica del governo. E sono proprio i tre gruppi sociali base storica del consenso al centro-destra che si mostrano più scontenti. Innanzitutto i lavoratori più deboli e dequalificati del Nord, che votavano Lega sicuri che la secessione dal Sud li avrebbe protetti dal declino e convinti che un ministro leghista avrebbe espulso tutti gli emigrati di cui temono la concorrenza. Ora queste promesse svaniscono in un federalismo inconsistente e in un inarrestabile flusso di migranti. Poi i giovani, che hanno visto in questi tre anni chiudersi sempre più gli spazi a loro disposizione e peggiorare la loro condizione lavorativa. Infine gli imprenditori che avevano sperato che uno di loro, al di fuori dei giochi politici, fosse in grado di riformare il sistema Italia ormai bloccato dalla metà degli anni ’80. Occorre approfondire quest’ultimo punto che è quello cruciale e che, sicuramente, si riproporrà al prossimo governo di centro-sinistra così come a tutti i futuri possibili governi. L’Occidente ha attraversato negli ultimi tre anni una grave crisi economica, di cui anche l’Italia ha pesantemente risentito. E infatti non è questo che può essere imputato al nostro governo. È vero che Berlusconi e Tremonti hanno fatto poco per fronteggiarla, praticamente solo il finanziamento della cassa integrazione; ma anche su questo punto le colpe dell’esecutivo sono solo parziali perché fare di più era molto difficile date le condizioni della finanza pubblica e i pressanti richiami europei. La vera, grande colpa del governo Berlusconi è stata quella di non aver utilizzato questi tre anni, la grande maggioranza a disposizione, l’indipendenza dai partiti tradizionali e dai loro giochi e veti reciproci e la grave crisi dell’opposizione per riformare a fondo il sistema italiano. Anzitutto occorreva abbattere il debito pubblico, ora al 120% della produzione nazionale, che strangola la pubblica amministrazione e impedisce al governo qualsiasi manovra e intervento. Si tratta di cifre imponenti: per riportarlo al livello del reddito nazionale occorre reperire più di 300 miliardi! Da notare che la manovra impostaci dall’Europa di 40 miliardi in tre anni ci appare già proibitiva. E non si può continuare con i piccoli passi come fatto fin’ora: dopo 20 anni e 20 finanziarie (non tutte «lacrime e sangue») e alcuni inopinati sgravi fiscali per chi sta bene (Ici sulla prima casa, cedolare sugli affitti, ecc.), il rapporto debito pubblico/reddito è sostanzialmente invariato, ma la macchina pubblica centrale e locale è molto indebolita. Nel ’96, alla vigilia dell’euro, l’impegno italiano era di scendere al 60% del Pil! Con i governi di centrosinistra e con i ministri Ciampi, Visco e Padoa Schioppa il rapporto era sceso intorno al 100%, con quelli di centrodestra è sempre risalito, per la briglia sciolta lasciata alla spesa clientelare, poi dal 2007 ci ha pensato la crisi mondiale. Contemporaneamente a questa azione di risanamento, bisogna mettere mano a profonde riforme: dell’istruzione, della fiscalità, della pubblica amministrazione, delle Istituzioni, del potere centrale e locale. L’Italia è come bloccata e imbalsamata, divisa in mille potentati, gruppi di interesse, corporazioni, cricche e caste che si cooptano autoperpetuandosi senza possibilità di ricambio e che difendono strenuamente le loro posizioni reciproche incuranti del bene comune e prosciugando le poche risorse disponibili. La mobilità sociale è nulla, i giovani non hanno né spazio né futuro; occorre ridare slancio e respiro al paese. In una società così chiusa e asfittica, la malavita e la corruzione hanno gioco facile a infiltrarsi ed inquinare pezzi interi di società, è necessario ristabilire la piena legalità, il primato dell’interesse collettivo, un forte spirito etico e di servizio. Berlusconi non ha nemmeno sfiorato questi problemi, anche perché invischiato fino al collo in questi intrecci torbidi, e perciò ha fallito. Questa stessa realtà si presenterà ora alla sinistra che ha di fronte a sé un compito arduo ed esaltante, con il solo vantaggio rispetto ai governi Prodi di una maggiore consapevolezza della gravità della situazione. Se avrà uomini, visione ma anche senso della realtà, idee, coraggio e forza sufficienti scriverà una bella pagina di storia, altrimenti fallirà anch’essa e sarà travolta con conseguenze per il paese difficilmente calcolabili. o
Il terremoto, la “Grande onda”, Hiroshima, Fukushima, tutto ciò che oggi si compendia nel quasi impronunciabile “tsunami” va molto al di là di ciò che la nostra esperienza e il nostro stesso più onnicomprensivo orizzonte di pensiero può concepire e controllare. Travalica persino i mostri che “il sonno della ragione” o “la durezza di cuore”, possono generare. Questi mostri, sembrerebbe che un risveglio intellettuale e morale potrebbe metterci in grado di affrontarli. Quello, lo tsunami combinato della natura e della tecnica, alleate nella sovrapposta potenza delle rispettive zone d'ombra più impenetrabili, desta solo sgomento e quasi paralisi del corpo e dell'anima. Fingere che così non sia. Fare come se ci si trovasse solo di fronte a un problema un po' più complesso e di più difficile soluzione del solito, invece di mobilitare tutte le nostre forze di comprensione e di reazione, semplicemente ci distrae, lasciandoci nell'immobilità del trauma rimosso. Proprio come alzare urla para-apocalittiche, evocare castighi divini, rivisitare, in chiave ecologista, fraintesi miti delle origini e immaginifici peccati nella conoscenza del bene e del male: ci precipita nel marasma delle superstizioni. È invece salutare riconoscere che quanto sta accadendo in Giappone, nei giorni della piena fioritura di primavera, è qualcosa di più che un casuale cumulo di eventi eccezionali e imprevedibili, qualcosa che va al di là della somma terremoto + maremoto + incidente nucleare, per avvicinarsi a una quasi epocale manifestazione della precarietà metafisica dell'essere e della sua problematica contiguità col bene. Liberiamoci, anzitutto, col vecchio Francis Bacon, da alcuni “idoli” o pregiudizi antropocentrici. Quanto accaduto non è accaduto per noi, per punirci, per istruirci o per orientarci nelle decisioni relative al voto referendario pro o contro il nucleare. Lasciamo tali amenità ai vicepresidenti del Cnr, agli integralisti religiosi o ecologici. I nostri peccati ci sono, vanno puniti e lo saranno, quando, come e dove si può, ma qui non hanno mosso un'unghia per favorire quanto è accaduto. Se mai c'entrano di più i limiti delle nostre virtù. Così è puro animismo vedervi l'autodifesa o la vendetta della natura per gli abusi tecnologici commessi nei suoi confronti. La natura come la Grande Madre, una sorta di Gaia che nutre e divora i suoi figli, animati o inanimati che siano, è un complesso sistema ecologico, tendente ad autoconservarsi, ma soggetto da sempre a improvvise o lente, catastrofiche mutazioni. La mitologia le descriveva come metamorfosi e noi le spieghiamo come tappe di un processo evolutivo, del tutto privo di principi etici eudemonici, di una qualsivoglia finalizzazione alla felicità. La natura inoltre non sta in relazione con noi come una divina trascendenza, che dall'alto ci domina e ci guida, ma ci contiene come una parte di sé. Noi rispetto a essa e essa rispetto a noi siamo in stato di immanenza, siamo un tutt'unico, in cui ogni parte influenza e dipende da tutte le altre. In tal senso anche ogni frutto dell'umano sapere è naturale, proprio come naturale è il big-bang iniziale e l'eventuale collasso finale. Lo tsunami combinato della natura e della tecnica nel giardino dei ciliegi è tanto naturale quanto umano. È un fatto, che per alcuni aspetti poteva essere evitato, orientato a effetti diversi, per altri, almeno per ora, non poteva che essere subito. Ma, in ogni caso, è un evento che rivela la fragilità dell'essere in sé, la compresenza in esso di forze distruttive e costruttive, l'originaria, sempre riaffiorante, prossimità, o forse unità, dell'albero della vita con l'albero del bene e del male. E, dunque, con la morte. o
Il 17 marzo 1961, per i festeggiamenti del centenario dell'unità, non ci fu festa né vacanza. Per tutto l'anno ci furono celebrazioni a Italia '61 – un intero quartiere costruito ex novo a Torino – che, come possiamo ancora constatare, esaltava soprattutto il lavoro (art. 1 della Costituzione) e il progresso tecnico e sociale. Ci furono però le dichiarazioni di Kennedy sull’«antica Torino» e la visita della regina Elisabetta che si svolse il 9 maggio in conclusione di un viaggio in varie città d'Italia. Festeggeremo anche noi il 17 marzo, senza speciale solennità né entusiasmo. Vediamo perché. Festeggiamo quel giorno perché dall’Italia e dalla sua storia abbiamo ricevuto molto, in bene e in male, di ciò che siamo, e perché per il bene di questo nostro paese siamo da sempre impegnati. Senza troppa solennità, perché non è la più bella o la più importante delle date storiche nazionali. Del 17 marzo 1861 rimane la bandiera tricolore, che è anche nella Costituzione. Non c’è più il regno, né i Savoia, né terre «irredente», né leggi discriminanti tra italiani, né suffragio elettorale ristretto, né religione di stato. Grazie a Dio. Quell’evento fu opera di qualche azione popolare, ma soprattutto delle armi dei Savoia, dei francesi, dei prussiani e di Garibaldi (avversari-alleati), e dei maneggi di Cavour, a spese dei soldati-contadini costretti (2000 morti di colera in Crimea), e di borghesi idealisti e nazionalisti. Eppure fu anche un seme, un iniziale evento di libertà, tutta da realizzare nella vita quotidiana dei più poveri e sprovveduti. Le date più importanti, vergognose o gloriose, che ci fanno cara l’Italia, sono altre. La vera unità d’Italia è il 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, l’opera più civile e umana della nostra storia, nel concerto degli altri popoli. Anche questo è un evento-promessa-impegno, è il dovere profondo del nostro popolo, sotto tutti i tradimenti, le barbarie, le ignoranze, le trame, le cadute e le riprese di questi 63 anni. La festa della Repubblica e della Costituzione (questo deve essere il nome intero di quel giorno) è tradizionalmente fissata al 2 giugno, festa del primo voto popolare. Questa è la festa italiana più grande e più bella. Dunque festa disarmata, che non deve vedere parate militari, come le armi devono stare lontane dai seggi elettorali, da quel 2 giugno 1946, elezione della saggia, umana, civile, pacifica, progressista Assemblea Costituente, fino ad oggi. E anche perché il simbolo più alto dell’Italia democratica non sono le triste armi, ma la partecipazione di ognuno alla vita del proprio popolo, cioè la politica di tutti e il voto consapevole di tutti, che orienta le scelte, alla luce dei valori costituzionali. Poi, dietro l’importanza primaria, ogni anno, del 2 giugno, abbiamo – a grandissime linee – anche altre memorie: alcune fauste, memorie di vita, altre infauste, memorie di lutto e pentimento nazionale. La luttuosa guerra civile (detta «del brigantaggio») che inaugurò il Regno d’Italia, frutto di ignoranza e imposizione, di una politica dedita a proteggere latifondi e a costruire caserme più che scuole e ospedali. Il 20 settembre 1870, quando, dopo la guerra del 1866 (guerra inutile in quanto l’Austria aveva offerto all’Italia il Veneto in cambio della neutralità) anche Roma avrebbe potuto congiungersi all’Italia senza brecce, né spari, né morti (19 soldati papalini, che dovevano manifestare la resistenza del papa, e 49 soldati italiani), se il papato nei secoli avesse conosciuto Cristo più di Costantino. Il 4 novembre 1918, quando, con l’«inutile strage» (parola cristiana di papa Benedetto XV), un immenso spreco di sangue del popolo (mentre col mantenere la neutralità si sarebbe ottenuto il «parecchio» di Giolitti), furono prese non solo terre di lingua italiana, ma anche terre austriache, nel mito balordo della superiorità latina, come ancora proclama la stupida scritta sull’arco della vittoria a Bolzano. L’Italia fu mezza morta il 28 ottobre 1922, e il 3 gennaio 1925, e fu tutta morta il 10 giugno 1940. Fu mezza rinata l’8 settembre 1943 (non «morte della patria», ma inizio di rinascita: tradimento giusto sebbene fiacco dell’alleanza criminale col nazismo); rinacque molto con la Resistenza popolare, la lotta dei partigiani, la fermezza dei 600.000 militari internati (che rifiutarono una libertà condizionata alla collaborazione col Reich); e fu tutta rinata il 25 aprile 1945. L'Europa fu la più grande novità del dopoguerra, il vero superamento degli ombelichi nazionalistici, francesi e tedeschi, la riduzione dell'onnipotenza e sovranità dello stato (superiorem non recognoscens). L’Europa è il prolungamento ideale della nostra Costituzione (art. 11): Europa tanto negletta ora che c'è, ma tanto importante allora che non c'era. Dopo i giorni chiari e le notti oscure di questi decenni, oggi l’Italia lotta contro un’infezione del sangue, molto grave: spaccio a distesa di illusioni, parole accuratamente false per ingannare, miti facili per abbindolare, che fiaccano e corrompono gli spiriti, potenza che si vanta della propria impunità, impero delle apparenze, ogni bene e valore ridotto a merce di scambio e di consumo. Questi e altri virus hanno diffuso un individualismo antisolidale: proprio il rovescio dell’unità celebrata. Ma l’Italia non è morta. Qualcosa in lei combatte per guarire. o |
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