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Avvertenza

 

Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.

Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale.



 369 - febbraio

Riceviamo e volentieri condividiamo con i lettori questo documento di Chiccodisenape da titolo «In attesa del Vescovo che verrà».

È imminente un passaggio tra i più importanti della vita della diocesi torinese: l’elezione del nuovo Vescovo. La prassi vigente è quella di una nomina gerarchica che non coinvolge il popolo dei credenti nella sua ampiezza, in modo difforme sia dalla lettera sia dallo spirito della Tradizione antica e dall’ecclesiologia di comunione professata dal Vaticano II.

Infatti nella Chiesa antica si teneva conto delle attese del popolo di Dio sino a richiedere il suo assenso, mentre significativamente il Vaticano II, nella Lumen gentium, prima descrive il mistero della Chiesa (cap. I) e la sua natura di popolo di Dio (cap. II), che coinvolge tutti i credenti nel sacerdozio comune, e solo dopo delinea la natura e la funzione dell’episcopato e la costituzione gerarchica. Se si confronta tutto ciò con le procedure oggi adottate nell’elezione di colui che è chiamato a presiedere la chiesa particolare, si deve constatare che esse non corrispondono a questi principi, anzi li sostituiscono in una forma che rischia di essere solo burocratica, in ogni caso non comunionale.

Il ritorno ad una forma di incontro reale tra popolo e vescovo non è proponibile sulla falsariga di elezioni democratiche proprie delle società moderne; ugualmente però è ormai da respingere il mantenimento di una tipologia decisionale troppo simile a quelle di stampo monarchico, oligarchico, autocratico tipiche delle società pre-democratiche. Il superamento di questo tipo di processo decisionale, che estromette preti, diaconi e laici e che attua una gestione soltanto verticistica della Chiesa, è condizione per fondare il rapporto di comunione che deve legare una comunità di credenti e il suo Vescovo.

Pertanto come aderenti a Chiccodisenape, nato per promuovere la partecipazione responsabile dei laici alla vita della Chiesa, chiediamo alla gerarchia e a chiunque possa aver voce sulla scelta del nuovo Vescovo che questa sia preparata da una preghiera comune e da un’ampia consultazione dei parroci, degli altri preti e dei laici nelle parrocchie, nelle associazioni e negli istituti religiosi, per fornire il profilo del nuovo pastore atteso. Chiediamo che siano i laici stessi a prendere l’iniziativa nelle diverse realtà ecclesiali in cui sono collocati, ed eventualmente suggerire anche nomi.

Da parte nostra cominciamo con esprimere la richiesta che il nuovo Vescovo sappia riconoscere la profezia e non privilegi l’istituzione, sia un pastore intenzionato a sviluppare la ricchezza del Concilio, che non identifichi la Chiesa con la gerarchia e valorizzi il ruolo dei laici, che sappia ascoltare, che sappia far crescere la comunione mediando e armonizzando le diverse istanze senza pretendere di imporre un proprio modello, che sia uomo della Parola e del dialogo con le altre fedi e confessioni e con le diverse culture.

 368 - gennaio 2010

A marzo eleggeremo il governatore del Piemonte e il nuovo Consiglio regionale. È un’elezione amministrativa e per decidere per chi votare dovremmo valutare la politica svolta e i risultati ottenuti dall’attuale maggioranza, confrontare i vari programmi, informarci sui candidati dei diversi schieramenti.

Siamo invece trascinati controvoglia a prendere posizione per difendere principi fondamentali di basilare convivenza civile che vediamo sempre più attaccati e minacciati. Un semplice esempio può far comprendere qual è la posta in gioco. Un candidato del Pdl, consigliere uscente, ha scritto e pubblicizza un libro bianco sugli sprechi del governo Bresso; sulle radio locali si può ascoltare qual è il principale di questi sprechi: sono stati spesi 30 milioni di euro per aiuti a zingari, extracomunitari, clandestini invece che ad anziani, bambini, disabili (evidentemente italiani).

Si badi bene non si dice, come pure eventualmente si potrebbe fare, che le spese sono state eccessive o mal distribuite o clientelari, no, lo spreco è stato nel dare a stranieri quel che si doveva dare ai nostri. Nel distribuire gli aiuti l’errore è stato quello di seguire il solo criterio del grado di bisogno, mentre occorreva anche una discriminante “xenofoba”. La logica alla base di questo ragionamento è evidente: gli esseri umani non sono tutti uguali, quelli che non sono nati sul territorio sono meno umani e perciò indegni di protezione e difesa.

E che questo sarà il motivo di fondo della campagna elettorale della destra lo confermano le recenti critiche del leghista Calderoni all’arcivescovo di Milano Tettamanzi, colpevole di chiedere gli stessi “sprechi “ della giunta Bresso.

Per guadagnare un pugno di voti, e la vittoria in Piemonte si gioca proprio su questo, non si ha nessuna remora nel solleticare gli istinti più oscuri, i sentimenti più regressivi, gli interessi più gretti, i bisogni più disperati, che invece bisognerebbe contrastare e di cui ci si dovrebbe semmai vergognare, senza nemmeno preoccuparsi dell’imbarbarimento della nostra società che da ciò potrebbe conseguire.

Di fronte a una campagna elettorale così impostata non si può tacere né sottovalutarne la gravità. La nostra reazione deve essere forte e smascherare la pericolosa ideologia su cui si basa, affinché tutti possano prendere posizione con cognizione di causa per contrastarla con vigore, perché sono in pericolo elementari valori di civiltà la cui perdita avrebbe conseguenze gravissime sulla convivenza civile nel nostro paese.

Il nostro popolo ha forse dimenticato quel che hanno dovuto subire i nostri nonni e i nostri bisnonni in giro per il mondo e quanto ci è costato dare ascolto in un passato non molto lontano a suggestioni di questo tipo?

o

 367 - dicembre

Difficile nascondere l'impressione che dentro l'intera questione della legittimità o meno della presenza del crocefisso nelle aule delle scuole pubbliche ci sia qualcosa di grottesco, che interamente si gioca sul ruolo che ciascuno tende a far svolgere a questa ostensione pubblica di un simbolo eminentemente religioso.

La Corte europea dice che il crocefisso va eliminato «perché viola la libertà religiosa degli alunni»; il governo italiano, da parte sua ha sostenuto che esso doveva essere presente per la precisa ragione politica che non si può scontentare l'elettorato cattolico; il ministro della Pubblica istruzione ha dichiarato che non lo si può rimuovere in quanto «la sua presenza nelle aule non significa adesione al cattolicesimo, ma sta lì come simbolo della nostra tradizione e identità culturale»; il cardinal Re lo difende in quanto «simbolo universale di valori che stanno alla base della nostra identità europea» (universale dunque ma eurocentrico); la Lega afferma che non solo non va rimosso, ma moltiplicato «per far vedere che noi siamo indipendenti dai diktat dalle burocrazie straniere».

Insomma ciascuno il crocefisso lo vuole e lo rifiuta per ragioni sue proprie che nulla hanno a che fare col crocefisso in sé. Se dovessimo valutarle in termini di linguaggio e di sensibilità religiosa giudaico-cristiana diremmo che ciascuno affida al crocefisso una funzione che non è la sua, ma che è soggettivamente idolatrica.

Per ragioni diverse la Corte europea come i suoi avversari trattano il crocefisso come un idolo, come un simbolo dipendente dalla propria visione umana del suo eventuale valore e questo perché il crocefisso, messo là dove non dovrebbe stare, fuori del suo contesto naturale, che è il luogo di culto e di preghiera della comunità cristiana, non ha più un valore proprio ma acquista il valore che altri vuole fargli svolgere in positivo o in negativo.

Per questo non prendiamo posizione rispetto a chi ha ragione o torto in questa speciosa disputa. Hanno tutti torto e la presenza del crocefisso va ripensata a partire dall'esigenza di fede che lo ha generato, conservato e da cui solo riceve il suo valore. In qualsiasi altro posto venga messo è un oggettino, più o meno idolatrico, si tratti del seno prosperoso di una donna o muscoloso di un macho, dell'aula di un tribunale, di una scuola o di una palestra confessionale.

Il semplice fatto che qua o là compaia un crocefisso non significa che qua e là stia un simbolo religioso di qualche pregnante valore. Significa che qua o là qualcuno si è voluto servire strumentalmente del crocefisso per mettere un suo segno di presenza. Se non temessi di bestemmiare direi che si tratta di una disseminazione simile a quelle deiezioni animali tese a porre dei paletti e dei confini: qui è mio. Ma in tutto ciò il crocefisso che cosa c'entra? Ecco il grottesco.

o

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