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editoriali
Particolare attenzione dovrà essere dedicata al mondo islamico, ricco di risorse ma mal distribuite, con una popolazione giovane in rapida crescita spesso senza sbocchi, governata da una classe dirigente per la maggior parte incapace e corrotta tenuta al potere per interessi esterni. E l’avvio a soluzione della tragedia palestinese è a questo proposito cruciale. La spinta del popolo, che è quello che subisce maggiormente i colpi di questa guerra asimmetrica, è fondamentale per decidere quale direzione prenderanno gli avvenimenti. È necessaria però una migliore informazione e partecipazione e una classe dirigente più seria e preparata. Anche qui però bisogna fare in fretta perché se la situazione peggiorerà e gli attentati diventeranno sempre più devastanti, larghe parti di società si radicalizzerà in senso sempre più aggressivo e xenofobo portando infine ad uno scontro di civiltà catastrofico, che è proprio l’obiettivo che si prefiggono i jihadisti. Sugli attentati di Parigi. Tra l’immensa tristezza generata da tanta violenza brutale, insensata e inutile, si accende una piccola fiammella di conforto: l’amore mostrato da tanti europei, soprattutto giovani, per la capitale francese ferita dal terrorismo. È anche attraverso queste dure prove collettive che si forma nel tempo una coscienza comune, l’unica che può dare sostanza e forza ad un cammino d’unione. Mentre ci sembra sbagliata la prima reazione di Holland, il Presidente francese, troppo emotiva ed inutilmente aggressiva, che dimostra debolezza e sbandamento invece di forza e determinazione come vorrebbe. È il tipo di reazione che si augurano gli organizzatori degli attentati. E non è una scusante la vicinanza delle elezioni in Francia, periodo scelto forse non a caso, così come quello delle bombe a Madrid che portò alla sconfitta di Aznar. Per certi versi Hollande ci ha ricordato Bush dopo le torri gemelle con la reazione scomposta e i tanti errori commessi. Abbiamo bisogno di classi dirigenti all’altezza delle sfide che ci attendono. □
Nel 2018 si celebra il settantesimo anniversario della proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si tratta di un documento d’importanza storica che risponde agli orrori della seconda Guerra dei Trent’anni (1914-1945). Cercando di lasciarsi alle spalle ciò che l’umanità non può più permettersi, la Dichiarazione vuole stabilire i diritti di cui ciascun singolo individuo gode solo in quanto essere umano, a prescindere da qualunque differenza specifica. La Dichiarazione del 1948, quindi, aspira ad essere “universale” perché non intende escludere mai più nessuno e per nessun motivo. Occorre rilevare che si tratta di un paradosso perché questa pretesa di universalità e definitività nasce da un contesto “particolare” dal punto di vista culturale e storico. Il testo si ispira ad altri celebri documenti (es. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese del 1789; basti pensare che nell’art. 1 si stabiliscono i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza) e, più in generale, si nutre del patrimonio valoriale della tradizione occidentale giudaico-cristiana. Nel 1948 solo 10 Stati su 58 non votarono la Dichiarazione. Di questi, ben 6 appartenevano al blocco sovietico: volendo estendere i diritti al di là di quelli ereditati dalla tradizione individualista e liberale, spinsero per il maggior riconoscimento possibile dei diritti economici e sociali e si astennero. Si astenne anche il Sudafrica, per altri e ovvi motivi legati all’apartheid, e non votò l’Honduras. Non sottoscrissero la Dichiarazione anche due paesi arabi: Yemen e Arabia Saudita. Già in sede di discussione della bozza, facendosi portavoce dei paesi islamici, il rappresentante dell’Egitto aveva avanzato obiezioni e riserve di carattere religioso «che non potevano essere ignorate» perché sorgenti «dallo spirito stesso della religione musulmana». La maggior parte dei paesi islamici presenti decise comunque di approvare la Dichiarazione, ma quelle obiezioni ricomparvero tra le motivazioni ufficiali con cui l’Arabia Saudita rifiutò di sottoscrivere il documento: si contestavano, in particolare, il diritto di cambiare religione e il diritto delle donne musulmane di sposare uomini non musulmani. Quel passaggio storico inaugurò un importante dibattito nel mondo islamico che giunge fino a oggi. Le riserve sulla Dichiarazione del 1948 e sui suoi fondamenti ideali hanno prodotto una serie di documenti che da un lato si propongono come alternativi, ma che d’altra parte testimoniano un’adesione profonda e sincera da parte del mondo islamico alla cultura dei diritti umani: la Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo (proclamata nel 1981 presso l’Unesco a Parigi), la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell'Islam (risoluzione 49/19-P della XIX Conferenza Islamica del 1990), la Carta araba dei diritti dell'uomo (nel 2008 è entrata in vigore per i 13 paesi che compongono la Lega Araba la versione del 2004 che emenda quella del 1994). Apprezziamo per la sua ricchezza e vastità il modo in cui si declina in questi documenti la trattazione dei diritti umani, ma non possiamo astenerci dal rilevare alcuni aspetti problematici, a partire dalla significativa scomparsa fin dai titoli del concetto di universalità in favore di declinazioni particolari arabe o islamiche. La Carta del 2004, per esempio, all’art. 1 inserisce tra le sue finalità «insegnare ad ogni persona umana negli Stati arabi la fierezza della propria identità, la lealtà al proprio paese, l'attaccamento alla propria terra, alla propria storia e al comune interesse». Un altro elemento per cui le Dichiarazioni del 1981 e del 1990 si discostano da quella “universale” del 1948 – e che riteniamo un passo indietro sul piano della laicità – è la riconduzione dei diritti umani alla volontà divina e alla Legge islamica. Il testo del Cairo, per esempio, si chiude all’art. 25 con la seguente affermazione: «La Shari'ah islamica è la sola fonte di riferimento per interpretare o chiarire qualsiasi articolo della presente Dichiarazione». Ciò non può non influenzare l’interpretazione dei diritti che la Dichiarazione del 1948 cerca di stabilire in modo assoluto e universale. □ >> Leggi..... Anche la scelta del momento della rottura del governo Conte non è stata casuale, perché ora si deve decidere il piano per l’impiego dei fondi europei. Questa è infatti l’ultima spiaggia per l’Italia, e siamo già in ritardo. È da quando è stato istituito l’euro che balliamo sull’orlo del burrone. Da allora tutti i governi italiani (senza distinzione di colore) hanno avuto una sola preoccupazione: tenere sotto controllo l’ingente debito pubblico che cresce per forza propria a causa del suo stesso peso, senza mai riuscirci veramente. Hanno strozzato sempre più l’economia e ridotto i servizi pubblici oltre l’accattabile, senza però fermare la scalata del debito. Ora, grazie allo sconquasso che la pandemia ha creato, finalmente i paesi del nord Europa si sono convinti che non possiamo più reggere l’austerità e che l’affondamento dell’Italia (che non ha lo stesso peso della Grecia) porterebbe a fondo l’Unione. Hanno deciso di concederci un sostanzioso finanziamento, mettendoci, almeno come possibilità, in condizioni di riformare la nostra economia. Il governo Draghi ha quindi questo compito. E infatti il suo programma presenta come priorità proprio le principali criticità italiane: emergenza sanitaria, scuola, giustizia, burocrazia, sistema fiscale, transizione ecologica. Anche la formazione del governo risponde alla stessa logica, con i ministeri cruciali assegnati a uomini di sua fiducia, quasi tutti non parlamentari, e gli altri distribuiti ai partiti che lo sostengono secondo il loro peso parlamentare. L’impresa comunque appare ardua per le molte difficoltà che dovrà superare, perché la situazione italiana è veramente molto compromessa, i nostri mali incancreniti, la politica sfilacciata e inconsistente e la situazione sociale, dopo 30 anni di tagli e sacrifici non più sostenibile, col pericolo che la società si lasci allettare, come è già accaduto troppe volte, da demagoghi senza scrupoli e venga trascinata in avventure pericolose. Quest’ultima osservazione ci induce a due considerazioni sulla fragilità del corpo elettorale e quindi della democrazia italiana. Per tentare di rimettere in sesto l’Italia bisogna ancora una volta ricorrere a personaggi che non debbano partecipare alle elezioni e che quindi possano prendere i provvedimenti necessari senza paura di perderle. C’è poi l’idea, ancora profondamente radicata in molti italiani, che basti un superuomo per risolverci tutti i problemi, in modo che non ci sia bisogno di impegnarsi, partecipare, fare sacrifici, cambiare vecchie e rovinose abitudini. Sarebbe tempo che, a cominciare dalla scuola, ci si dedicasse anche a far crescere la coscienza politica del paese. In questo quadro non mancano le ombre e i motivi di preoccupazione. L'Italia è l'unico tra i 27 paesi dell'Unione Europea in cui in piena pandemia la politica sia stata commissariata ai tecnici. In tutti gli altri paesi non soltanto dell’UE ma del mondo, anche nell’emergenza pandemica la politica resta in mano ai partiti e ai governanti eletti (e in un paese normale anche la preziosissima risorsa Draghi sarebbe stata valorizzata affidandogli il super-ministero dell’Economia). Per di più, in quest’anomalia siamo recidivi. Accadde meno di dieci anni fa con Monti, accade oggi con un altro Super-Mario. Alcuni ritengono sia il segno di una democrazia gravemente malata. E qualcuno teme che la terapia ripetutamente proposta rischi di ammazzare il paziente, alimentando sempre nuovi populismi. Domani potrebbe toccare a Meloni, per di più associata al centrodestra che ha l’intelligenza di colpire insieme anche quando marcia diviso. Non a caso Salvini ha già detto che la legge elettorale non si cambia. Va inoltre ricordato che una forte opposizione era venuta da Confindustria al reddito di cittadinanza e alle proroghe della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti. Ora il principale ministero economico rimasto in mano a un esponente di partito è quello dello Sviluppo Economico, affidato a Giancarlo Giorgetti, che è da tutti considerato il portavoce delle imprese lombarde vicine alla Lega. Ma se la svolta prodotta dall’operazione di Renzi fosse questa, qualche interrogativo la sinistra dovrebbe porselo. Infine, grandi aspettative erano e sono riposte nel nuovo ministero della Transizione Ecologica. Tuttavia la scelta del ministro è parsa deludente: uno scienziato che non si era sinora occupato di ambiente, più noto ai frequentatori della Leopolda o dei convegni di Casaleggio, criticato da illustri colleghi per il modo di procacciarsi i finanziamenti: e come non bastasse – nella sua attività di ricerca ‒ al soldo di una delle più importanti aziende impegnate nella produzione di armi (destinate anche all’Arabia Saudita, verso cui il governo Conte ne aveva fermata l’esportazione, prima che Renzi vi scorgesse «un nuovo Rinascimento»). Ci auguriamo che il suo operato smentisca i timori. □ |
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